Stiamo per celebrare la Solennità di Nostro Signore Gesù Cristo Re dell’Universo. In cosa consiste la qualità della regalità? «I re delle nazioni le governano, e coloro che hanno potere su di esse sono chiamati benefattori» (Lc 22,25); i governanti della terra, avendo potere, si sono rivelati spesso niente altro che schiavi del loro potere. (...)
Cristo Re – Luca 23, 35-43a
La Madre del Re e il suo lungo travaglio
Luca dà l’avvio al suo vangelo con il racconto di una doppia visita celeste: quella a Zaccaria, nel tempio di Gerusalemme, e quella a Maria a Nazareth in Galilea. A Maria l’angelo Gabriele fa un solenne e impressionante annuncio-promessa: “Concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù. Sarà grande e verrà chiamato Figlio dell’Altissimo; il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine» (Luca 1,31-33). Figlio dell’Altissimo e Re. Tre volte viene sottolineata la sua regalità e per due volte ribadita una regalità eterna.
Tutto il vangelo di Luca si svolge attorno a questa promessa, portata avanti però in tempi lentissimi per le nostre aspettative e in modo paradossale per i nostri criteri.
– Un re in balia dell’imperatore di Roma. Maria è costretta ad andare a partorire a Betlemme. La Parola le viene in aiuto: Davide suo padre è nato a Betlemme!
– Un re che nasce in una stalla. La Parola viene in aiuto a Maria: Dio prese Davide suo servo “dagli ovili delle pecore” (Salmo 78).
– Un re che deve fuggire alla furia omicida di Erode. La Parola le viene ancora in aiuto: anche Davide fu un fuggiasco per scappare dal re Saul.
– Un re che va a dimorare nella periferia del regno, in uno sperduto villaggio di Galilea chiamato Nazareth. Anche qui la Parola viene in aiuto a Maria: “Sarà chiamato nazareno”. Il nome ebraico “Nazareth” ha la stessa radice verbale “naszar”, che significa “germoglio”, il germoglio di Davide (Isaia 11,1).
Ma poi seguono trenta lunghi, lunghi anni in cui il Re fa il carpentiere, mettendo a dura prova la fede di Maria!
Il Re venuto da lontano per rivendicare il suo Regno
Tutto il vangelo di Luca si snoda attorno a questa doppia rivelazione: Gesù Figlio di Dio e Re Messia. Nella prima parte, Gesù è proclamato Figlio di Dio da Dio Padre nel battesimo e sul monte Tabor, ma solo Satana e gli indemoniati lo riconoscono come tale. Nella seconda parte del vangelo di Luca, il Regno di Dio diventa il tema privilegiato della sua predicazione e Gesù si mette in viaggio verso Gerusalemme (9,51) per rivendicare il suo titolo di Re, come lo racconta in una parabola, mentre sale da Gerico verso la Città santa: “Un uomo di nobile famiglia partì per un paese lontano, per ricevere il titolo di re e poi ritornare.” Lo ottiene, il titolo, in occasione del secondo battesimo (12,50), quello di sangue, sul trono della croce: “Costui è il re dei Giudei”.
Durante il percorso dalla Galilea verso Gerusalemme però Gesù si aliena man mano i suoi seguaci che si aspettano ben altro re. C’è ancora un tentativo entusiasta dei suoi concittadini galilei di proclamarlo re, col trionfale ingresso in Gerusalemme, subito fallito però. I capi religiosi e politici presto riprendono in mano la situazione. E la folla dei suoi simpatizzanti, intimorita e delusa, starà a guardare in attesa dell’evoluzione degli eventi. Così faranno anche i suoi discepoli. Dunque un re senza regno, senza sudditi, senza esercito e luogotenenti. Il re si troverà solo!
Un re nel mirino della tentazione
Il suo titolo di Figlio di Dio era stato per tre volte messo alla prova da Satana: «Se tu sei Figlio di Dio…». Adesso è “il momento fissato” per il suo ritorno (3,13). Infatti, il demonio torna alla carica attraverso tre protagonisti della crocifissione: i capi religiosi, i soldati e uno dei malfattori: «Se tu sei il Cristo, il re dei Giudei, salva te stesso».
Se nella prima serie di tentazioni Gesù aveva cacciato via il demonio con la Parola, adesso lo fa con il Silenzio. Sì, parla tre volte: ma la prima e la terza rivolgendosi al Padre, prima e dopo la tentazione. La seconda invece per rispondere alla supplica del secondo malfattore.
Un re con un solo suddito
Secondo alcuni, il dialogo di Gesù con il secondo malfattore è l’apice del vangelo di Luca, “il piccolo vangelo” nel vangelo. È come “la sintesi e la consumazione della missione di amore e di predilezione di Gesù verso i peccatori, verso chi si è perduto”.
«Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno». Gli rispose: «In verità io ti dico: oggi con me sarai nel paradiso». Sorprendente! Questo malfattore è l’unico a riconoscere la regalità di Cristo e diventa il primo cittadino del suo Regno. La tradizione apocrifa (Vangelo di Nicodemo, apocrifo del IV secolo) gli assegna il nome di Dismas, o Dimas o Disma, e lo colloca alla destra di Gesù, mentre l’altro che lo insultava si chiamerebbe Gestas o Gesta. E Disma diventa… San Disma, molto popolare nel Medioevo, e che la Chiesa celebra il 25 marzo! “Santo subito!”, per direttissima! Nemmeno Giovanni Paolo II è riuscito in simile impresa, nonostante l’acclamazione popolare!
OGGI stesso sarai con me nel paradiso! Si tratta dell’ultima volta che troviamo questo avverbio “oggi” nella bocca di Cristo, la sua parola suprema. Una Parola piena di speranza e di consolazione, per il cosiddetto “buon ladrone” e per noi, visto che questo “oggi” dura ancora (Lettera agli Ebrei 3,13). Anzi, “Dio fissa di nuovo un giorno, oggi” (Ebrei 4,7) per ciascuno di noi. Come non approfittarne?
Gesta o Disma?
Il nome Gesta in una interpretazione un po’ fantasiosa potrebbe significare, dal latino “gesta”, imprese eroiche, e Disma, dal greco, “tramonto”. Gesta e Disma potrebbero specchiare la nostra umanità. Entrambi. E non c’è un cattivo e un buon ladrone, ma semplicemente dei malfattori, forse collaboratori di Barabba di cui la folla aveva chiesto la liberazione al posto di Gesù.
Tutti noi siamo dei “mal-fattori”. Prima o poi nella vita ci ritroviamo sulla croce, in qualche modo. E allora possiamo essere come Gesta, guardando alle “gesta” del nostro passato, delusi e amareggiati. O fare come Disma e guardare in avanti, verso la croce del Re ed implorare fiduciosi: Gesù, ricordati di me!
La mia è una grande comunità, la più grande dell’istituto, con una sessantina di confratelli giunti al tramonto della vita. Ho conosciuti tanti di loro in passato, grandi missionari o normalissimi confratelli. Ebbene, ci troviamo tutti adesso in una situazione di fragilità, bisognosi di cure, di attenzioni, di indulgenza… In fondo siamo tutti dei poveracci! E guai se cerchiamo il valore e il senso della nostra vita nelle “gesta” del nostro passato; non faremmo che amareggiare la nostra esistenza e quella degli altri. Il senso è fuori di noi, non nel nostro passato ma nel nostro futuro. L’unico è fare come Disma, guardare con tenerezza il Crocefisso e ripetere: Gesù, ricordati di me!
Quando mi hanno diagnosticato la SLA ho chiesto al Signore di darmi un supplemento di qualche anno per prepararmi al Tramonto. Il Signore è stato molto generoso. Dieci anni dopo però, sono arrivato alla conclusione che è inutile cercare di mettere qualche pezza per rattoppare la mia vita, e che il supplemento di tempo, alla fin fine, non è che accumulo ulteriore di… misfatti! Solo lo sguardo di amore, di tenerezza e di fiducia verso il Re può riempire di serena luce il mio tramonto. Gesù, ricordati di me! Gesù, ricordati di me!
P. Manuel João Pereira Correia, MCCJ
[comboni2000]
Le pietre possono restare pietre
La tentazione ama il periodo ipotetico: «Se tu sei Figlio di Dio, di’ a questa pietra che diventi pane». Ma Cristo non trasformerà le pietre in pane, perché «sta scritto: Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio» (Mt 4,4). Se mangiare è necessario per vivere, ancor più necessario sarà dialogare con Dio, che dà la vita.
«Se tu sei il re dei Giudei, salva te stesso». Ma Cristo non salverà sé stesso, perché ha altro da fare. Dirà poco dopo: «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito». Perché la carne umana possa salvarsi ha bisogno di ritrovare la via al Padre, e allora serve che qualcuno gliela consegni.
Gesù Cristo non salva sé stesso, non è venuto per questo. Infatti «Egli, pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò sé stesso» (Fil 2,6-7).
Stiamo per celebrare la Solennità di Nostro Signore Gesù Cristo Re dell’Universo. In cosa consiste la qualità della regalità? «I re delle nazioni le governano, e coloro che hanno potere su di esse sono chiamati benefattori» (Lc 22,25); i governanti della terra, avendo potere, si sono rivelati spesso niente altro che schiavi del loro potere. I re della terra, in genere, sono re minuscoli, uomini preoccupati di farsi tornare i conti. Eppure promettono talvolta di trasformare le pietre in pane…
La qualità del vero Re è di essere in mezzo a noi «come colui che serve» (Lc 22,27).
Non è sceso dalla croce, ma «offrendosi liberamente alla sua passione» (Preghiera eucaristica II) è salito sulla croce pregando per chi lo crocifiggeva.
Mostrando così che le pietre possono rimanere pietre, che sulla croce si può restare e che i disegni del Padre possono essere accolti.
Per la sua potestà non avremo maggior comodità, ma sarà dischiusa una «via nuova e vivente che egli ha inaugurato per noi attraverso il velo, cioè la sua carne» (Eb 10,20). Ha aperto, quindi, il sentiero che, passando per il suo corpo, conduce al Padre. Non ha salvato sé stesso. Ha salvato noi.
[Fabio Rosini – L’Osservatore Romano]
Gesù ascolta come un vero re
Il ladrone non poteva dire a Gesù: ricordati di me perché ti ho seguito, perché ti ho ascoltato o ti ho ubbidito. Gli poteva dire solo: ricordati di me perché sono un bisognoso, non sono mai stato capace di amare davvero, ho sempre cercato di salvare me stesso anche a costo di far soffrire gli altri con le mie pretese. Ricordati di me che non ho nessun dono da portare con me nell'al di là, dove nessuno mi attende. Ricordati di me che ho le mani vuote, e nel cuore soltanto brutti ricordi.
E Gesù? Gesù ascolta come un vero re. Come un re egli promette le cose più belle. Gesù diventa bello per questa sua promessa: “In verità ti dico, oggi sarai con me nel paradiso”! Gesù non salva se stesso, ma salva noi, donandoci una speranza che va oltre il pensabile. E il suo volto diventa il più bello. In questo momento nessuno è più amabile di Gesù, nessuno è più re di lui, anche se la sua corona rimane insanguinata e pungente. In questo momento Gesù è la porta del cielo, ci apre il regno più bello e più duraturo, quello del nostro Dio e Padre! Grazie, Signore Gesù!
[comboninsieme]
Il Regno è in mezzo a noi
2Sam 5,1-3; Salmo 121; Col 1,12-20; Lc 23,35-43
Siamo giunti all’ultima domenica dell’anno liturgico, Anno C. Domenica prossima comincia un nuovo anno. Intanto l’anno si chiude con una bellissima festa in onore di nostro Signore: la festa di Gesù Cristo re dell’universo. L’espressione “Cristo re” risulta dell’accostamento di due titoli che in realtà indicano la stessa cosa. Cristo è la traduzione greca del termine ebraico “Massiah”, che designa il re, in quanto eletto e consacrato col gesto simbolico dell’unzione. Nella prospettiva veterotestamentaria questo titolo è riservato al discendente davidico che realizza il regno di Dio di giustizia e di pace. La primitiva comunità cristiana riconosce e proclama Cristo e Signore, Gesù, il discendente della stirpe di Davide, scelto da Dio per realizzare il suo regno e il dono della salvezza a favore di tutti gli esseri umani.
Si tratta essenzialmente della signoria, del dominio, della sovranità di Dio sul mondo. Il regno di Dio non è dunque un luogo, una situazione o un gruppo di persone, ma è il fatto che Dio regna e le potenze che gli si oppongono (peccato, morte, satana) sono vinte.
Alla figura ideale del re Davide rimanda la prima lettura dal secondo libro di Samuele. Davide dimostra di essere non solo un valido comandante, ma anche un abile uomo politico che riesce ad ottenere il consenso dei suoi oppositori. Su quest’immagine idealizzata di Davide si innesta la speranza di un re che istaurerà il regno di Dio. Davide divenne quindi “figura” del messia atteso dal popolo eletto: figura del Signore Gesù.
Di questa regalità di Gesù, Figlio di Dio, parla anche il brano ai Colossesi. San Paolo ricorda che il Padre ha liberato gli uomini dal potere delle tenebre, e li ha introdotti nel regno del suo Figlio diletto. Questa liberazione o redenzione cristiana consiste nella remissione dei peccati. Quindi Paolo traccia un grandioso ritratto in cui si celebra il primato di Cristo nella creazione e nella redenzione. Egli come primogenito è il mediatore di tutte le cose e di tutti gli esseri viventi. Perciò tutta la realtà creata ha la sua coerenza e consistenza nel Figlio, che è l’icona del Padre.
Il brano evangelico ci parla del compagno di patibolo di Gesù, ossia del “buon ladrone”. Le ultime parole di questo malfattore pentito suonano come un’implicita professione di fede messianica: “Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno”. Questo criminale riconosce o scopre in Gesù il Dio nascosto sotto l’immagine di un malfattore comune, sfigurato e non trasfigurato; egli si raccomanda a Gesù, che riconosce come il Messia del futuro regno di Dio. Gesù gli promette una salvezza immediata dopo la morte associandolo al suo destino di giusto salvato da Dio: “In verità ti dico, oggi sarai con me nel mio paradiso”. Nelle parole di Gesù risalta l’attualità, l’oggi della salvezza. La salvezza è per oggi e adesso, e non per domani.
Gli altri erano là per giudicare e condannare Gesù, il buon ladrone invece ha avuto il coraggio e la forza morale di avere uno sguardo indagatore su di sé e su Cristo, di giudicare se stesso, di riconoscere il proprio peccato. Il riconoscimento dei peccati è ciò che la nostra società odierna rifiuta. Il peccato è il grande escluso da una certa società cosiddetta “laica”, e non si sente il bisogno di chiedere perdono a Dio e ai fratelli. Eppure il regno di Dio, considerando bene la figura del buon ladrone, riguarda un popolo di peccatori, pentiti e riconciliati. Perciò, come dice il prefazio di questa solennità, è “Regno di verità e di vita, regno di santità e di grazia, regno di giustizia, di amore e di pace. Dobbiamo essere lieti di appartenere a un tale regno.
Don Joseph Ndoum
L’annuncio missionario di un Re finito in croce
2Samuele 5,1-3; Salmo 121; Colossesi 1,12-20; Luca 23,35-43
Riflessioni
Conosciamo le “Sette Parole di Gesù in croce”. Ma ci sono anche le “sette parole dette a Gesù in croce”. Le prime sono tema di abbondanti predicazioni e scritti spirituali. Ma anche le seconde si prestano per commenti e riflessioni feconde. Nel Vangelo lucano di oggi troviamo quattro parole pronunciate verso Gesù: dai capi (v. 35), dai soldati (v. 36-37) e dai due malfattori crocifissi accanto a Gesù (v. 39-42). Queste quattro parole hanno in comune, sia pur con sfumature diverse, la sfida rivolta a Gesù: ‘dimostra chi sei (il Cristo, il re…), salva te stesso, scendi dalla croce…’ Le parole dei capi, dei soldati e di uno dei malfattori sono ingiuriose, sprezzanti, senza pietà, mostrano una totale incomprensione e stravolgimento della identità di Cristo.
La scritta sopra il capo di Gesù parla da sola: “Questi è il Re dei Giudei” (v. 38). Dice tutto di quella condanna. Ma come decifrarla? Chi la capisce nella sua verità? Per i capi religiosi e politici sono parole da burla; ma per Dio e per il cristiano sono parole vere, che centrano in pieno l’identità di quello strano condannato. Quella lapide è una sfida che attraversa i secoli: o la si accetta o la si rifiuta. Con alterne conseguenze! “Il popolo stava a vedere” (v. 35): muto e perplesso, fra curiosità e impotenza, non capiva cosa stava succedendo, non sapeva cosa fare… Poco dopo, però, quando lo spettacolo si concluse in orrenda tragedia, quelle folle “se ne tornavano percuotendosi il petto” (v. 48).
È possibile cogliere il significato di quella morte dalle parole del secondo dei malfattori, il famoso ‘buon ladrone’, l’unico che riconosce il senso di quella scritta e l’identità di Gesù. Non gli chiede una clamorosa liberazione, ma solo di stare accanto a Lui nell’ultima fase della vita: “Ricordati di me…” (v. 42). Richiesta subito esaudita: “Oggi sarai con me nel paradiso” (v. 43). È la prima sentenza del nuovo Re! Gesù ha solo parole di salvezza piena: oggi, in paradiso! Il silenzio di Gesù, il suo gesto di perdono, le poche parole (con il Padre, la madre, gli amici…) svelano il mistero di un re splendido e potente, ma che finisce su una croce. La sua è una regalità atipica, nuova: ha mandato in tilt Erode, Pilato, Tiberio, i capi, il popolo… Una regalità difficile da comprendere e ancor più da accettare. Una regalità spesso incompresa e travisata! Ma per chi l’accetta, è regalità vera, che dà senso pieno alla vita. “Gesù parla di un regno capovolto, dove l'ultimo diventa il primo e dove chi regna non comanda ma serve. La croce su cui Gesù muore è la sintesi di un cammino regale fuori dai luoghi comuni. È il compimento di un modo di regnare/servire che Gesù ha vissuto nel quotidiano” (R. Vinco). E ha inaugurato per noi.
La chiave del mistero di quella morte sta nella risposta alle domande ‘logiche’ di tutti: Perché non scendi dalla croce? Perché non chiarisci tutto facendo il miracolo? Ne hai fatti tanti di strepitosi, per gli altri… Se tu scendessi dalla croce, tutti ti crederebbero... Ma noi possiamo chiederci: in che cosa crederebbero? “Nel Dio forte e potente, nel Dio che sconfigge e umilia i nemici, che risponde colpo su colpo alle provocazioni degli empi, che incute timore e rispetto, che non scherza… Ma questo non è il Dio di Gesù. Se scendesse dalla croce, svuoterebbe il suo messaggio anteriore, tradirebbe la sua missione: avallerebbe l’idea falsa di Dio che le guide spirituali del popolo hanno in mente. Confermerebbe che il vero Dio è quello che i potenti di questo mondo hanno sempre adorato perché è simile a loro: forte, arrogante, oppressore, vendicativo, umano. Questo Dio forte è incompatibile con quello che ci è rivelato da Gesù in croce: il Dio che ama tutti, anche chi lo combatte, che perdona sempre, che salva, che si lascia sconfiggere per amore” (F. Armellini). (*)
La sfida del primo ladrone: “salva te stesso e noi” (v. 39) è quella che potremmo dire l'ultima tentazione. Gesù esprime la sua regalità restando sulla croce e da lì consegna la sua vita, cioè lo Spirito, come afferma Giovanni (19,30). Il buon ladrone invoca: “Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno” (v. 42). Un riconoscimento importante per Gesù, perché gli viene proprio da uno scartato, che, a sua volta, si sente accolto e salvato: “Oggi con me sarai in paradiso” (v. 43).
Tale riflessione ha ricadute immediate sul terreno della missione: Quale Dio annunciamo? Quale volto di Dio rivela la missione che portiamo avanti: un Dio dalla povertà e debolezza o un dio alla ricerca di riconoscimenti e di potere? Quest’ultimo sarebbe in sintonia con la logica umana e con i re di questo mondo. Nel modo di far missione, a volte ci sono concessioni, c’è timore nell’annunciare, con le parole e con i fatti, un Dio che è sconfitto, che perde, soffre, perdona… E quindi non si favorisce la crescita di una Chiesa povera, umile, disposta a perdere… L’abbondanza di mezzi umani rischia di togliere trasparenza all’annuncio. È più conforme al Vangelo una missione che si realizza con mezzi deboli, che annuncia Dio dalla povertà, dall’umiltà, espulsione, persecuzione, distruzione… Perché è nella logica del Re che vince e regna dalla croce! Un re così disturba i nostri piani, perché esige un cambio di vita, capacità di perdono, accoglienza di chiunque, tempi più lunghi, prospettive scomode… Le condizioni sono esigenti, ma con Lui l’esito della missione è assicurato.
Parola del Papa
(*) “Non è il potere che redime, ma l’amore! Questo è il segno di Dio: Egli stesso è amore. Quante volte noi desidereremmo che Dio si mostrasse più forte… Il Dio, che è divenuto agnello, ci dice che il mondo viene salvato dal Crocifisso e non dai crocifissori. Il mondo è redento dalla pazienza di Dio e distrutto dall’impazienza degli uomini”.
Benedetto XVI
Omelia all’inizio del Pontificato, 24 aprile 2005
P. Romeo Ballan, MCCJ