Sabato 13 marzo 2021
Mese di marzo è tradizionalmente dedicato a san Giuseppe e quest’anno, il 2021 è stato dedicato dal Papa a san Giuseppe. Per noi Comboniani è un invito a fare memoria dell’ispirazione originaria del Fondatore, per comprendere la rilevanza che S. Giuseppe e la Santa Famiglia di Nazaret hanno avuto nel cammino missionario di san Daniele Comboni e che hanno ancora oggi per noi come missionari Comboniani. Di fatto, la Santa Famiglia di Nazareth ha avuto un forte influsso nella vita spirituale e nel servizio missionario di san Daniele Comboni e dei suoi primi compagni e nella tradizione dell’Istituto. (Vedi Lettera apostolica Patris corde di Papa Francesco, in occasione del 150° anniversario della dichiarazione di san Giuseppe quale patrono della Chiesa universale).
Nell’anno di san Giuseppe
iniziamo a conoscerlo di più
Mese di marzo è tradizionalmente dedicato a san Giuseppe e quest’anno, il 2021 è stato dedicato dal Papa a san Giuseppe, con preziose indulgenze. Ma chi è san Giuseppe? San Giuseppe non fu un semplice uomo del popolo, buono e lavoratore, la cui semplicità sarebbe riassunta dalla professione di falegname. In ultima analisi, quasi una comparsa sullo sfondo grandioso della vita di Nostro Signore.
San Giuseppe fu un principe nelle cui vene scorreva purissimo sangue reale. Egli fu il discendente della gloriosa stirpe di David, e trasmise a suo Figlio l'eredità di un trono davanti al quale si sarebbero piegati tutti i re della terra. Visse in un povero villaggio ed esercitò l'umile mestiere di falegname. Ma questo dimostra come non c'è contraddizione tra la grandezza dei natali ed una vita povera e umiliata. Anche Maria fu povera, ma principessa, di un altro ramo della stessa stirpe di David, e questi illustri natali convennero a Nostro Signore, che nacque in una mangiatoia, ma volle riassumere nel suo purissimo Sangue tutto lo splendore dei re e dei patriarchi che lo avevano preceduto. Quale fu l'aspetto di san Giuseppe? «L'uomo – dice l’Ecclesiaste – si riconosce dal suo figliuolo» (Eccl. X, 30). Per avere un'idea dell'aspetto fisico di san Giuseppe bisogna pensare al suo Divin Figlio, cioè, alla Bellezza stessa incarnata, così come bisogna pensare alla bellezza della sua sposa, Maria, formata a sua volta ab aeterno, sul tipo perfetto di Gesù.
Dopo Maria nessuno, come san Giuseppe rispecchiò più fedelmente la bellezza di Gesù perché nessuno ne. rispecchiò più perfettamente lo splendore dei doni naturali e soprannaturali. Così, san Giuseppe fu tutt'altro che un uomo di intelligenza semplice e ordinaria. Egli era destinato a conversare con Gesù e con Maria e questo solo pensiero ci fa intravedere gli abissi di profondità della sua intelligenza e della sua scienza teologica. Che dire inoltre dei doni soprannaturali che ricevette? San Tommaso insegna che, quanto più si è vicini alla fonte della santità, tanto più si riceve con abbondanza la grazia (Summa Theologiae, 3, q. 25, a. 5).
Ma san Giuseppe visse fisicamente, a contatto con Gesù fonte stessa della Grazia, e con Maria attraverso la quale tutte le grazie vengono agli uomini. Egli attinse cioè le grazie alle sorgenti stesse di ogni grazia! I doni soprannaturali che ordinariamente da Gesù, attraverso la Madonna, giungono agli uomini, a lui giungevano in modo diretto e straordinario. Per comprendere la straordinaria grandezza delle grazie di cui fu insignito, occorre soprattutto pensare all'altezza incommensurabile della sua missione. Se infatti, come afferma il Dottore Angelico, le grazie che si ricevono sono proporzionali alla propria vocazione (Summa Theologiae, 3, q. 27, a. 4) quali grazie sarebbero mancate all'uomo destinato a compiere la più eccelsa missione della storia: la protezione e il servizio di Gesù e di Maria?
Roberto De Mattei
SAN GIUSEPPE NEL CAMMINO MISSIONARIO
DI SAN DANIELE COMBONI
Nel cuore della Quaresima, il 19 Marzo, la Chiesa celebra la festa di San Giuseppe, così come celebra quella di Maria nel periodo dell’Avvento l’8 Dicembre, festa dell’Immacolata Concezione. La Lettera Apostolica “Patris Corde” [vedi allegato] di Papa Francesco in occasione del 150° Anniversario della dichiarazione di San Giuseppe quale Patrono della Chiesa Universale, è un invito a tutta la Chiesa a fissare lo sguardo contemplativo sulla figura di san Giuseppe, che è una figura chiave per comprendere alcune dimensioni essenziali della vocazione cristiana. È un invito, quindi, a superare l’immagine dell’iconografia tradizionale, che frequentemente ci presenta San Giuseppe come un anziano di barba e capelli bianchi o calvo, con un’espressione un po’ triste e sguardo distante, quasi preoccupato, curvo sotto il peso del suo destino, per individuare il mistero storico-salvifico nei dati costitutivi della sua personalità nell'ambito della Sacra Famiglia.
Per noi Comboniani è un invito a fare memoria dell’ispirazione originaria del Fondatore, per comprendere la rilevanza che S. Giuseppe e la Santa Famiglia di Nazaret hanno avuto nel cammino missionario di san Daniele Comboni e che hanno ancora oggi per noi come missionari Comboniani. Di fatto, la Santa Famiglia di Nazareth ha avuto un forte influsso nella vita spirituale e nel servizio missionario di san Daniele Comboni e dei suoi primi compagni e nella tradizione dell’Istituto.
La Lettera apostolica di Papa Francesco ci presenta la figura di Giuseppe come modello di padre, come un uomo con cuore di padre, Patris corde:
«Con cuore di padre: così Giuseppe ha amato Gesù, chiamato in tutti e quattro i Vangeli «il figlio di Giuseppe».
I due Evangelisti che hanno posto in rilievo la sua figura, Matteo e Luca, raccontano poco, ma a sufficienza per far capire che tipo di padre egli fosse e la missione affidatagli dalla Provvidenza.
Sappiamo che egli era un umile falegname (cfr Mt 13,55), promesso sposo di Maria (cfr Mt 1,18; Lc 1,27); un «uomo giusto» (Mt 1,19), sempre pronto a eseguire la volontà di Dio manifestata nella sua Legge (cfr Lc 2,22.27.39) e mediante ben quattro sogni (cfr Mt 1,20; 2,13.19.22). Dopo un lungo e faticoso viaggio da Nazaret a Betlemme, vide nascere il Messia in una stalla, perché altrove «non c’era posto per loro» (Lc 2,7). Fu testimone dell’adorazione dei pastori (cfr Lc 2,8-20) e dei Magi (cfr Mt 2,1-12), che rappresentavano rispettivamente il popolo d’Israele e i popoli pagani.
Ebbe il coraggio di assumere la paternità legale di Gesù, a cui impose il nome rivelato dall’Angelo: «Tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati» (Mt 1,21). Come è noto, dare un nome a una persona o a una cosa presso i popoli antichi significava conseguirne l’appartenenza, come fece Adamo nel racconto della Genesi (cfr 2,19-20).
Nel Tempio, quaranta giorni dopo la nascita, insieme alla madre Giuseppe offrì il Bambino al Signore e ascoltò sorpreso la profezia che Simeone fece nei confronti di Gesù e di Maria (cfr Lc 2,22-35). Per difendere Gesù da Erode, soggiornò da straniero in Egitto (cfr Mt 2,13-18). Ritornato in patria, visse nel nascondimento del piccolo e sconosciuto villaggio di Nazaret in Galilea – da dove, si diceva, “non sorge nessun profeta” e “non può mai venire qualcosa di buono” (cfr Gv 7,52; 1,46) –, lontano da Betlemme, sua città natale, e da Gerusalemme, dove sorgeva il Tempio. Quando, proprio durante un pellegrinaggio a Gerusalemme, smarrirono Gesù dodicenne, lui e Maria lo cercarono angosciati e lo ritrovarono nel Tempio mentre discuteva con i dottori della Legge (cfr Lc 2,41-50)».
Giuseppe è vero padre, anche se non genitore; figura inedita, da scoprire e per nulla somigliante a certi stereotipi tradizionali. Di qui le varie qualifiche avanzate su questo tipo di paternità: come padre putativo, adottivo, legale, verginale... senza che nessuna di esse riesca esaustiva.
Di fatto, «Giuseppe non si è trovato per caso a essere padre di Gesù. Se le circostanze (dimora, età parentela, amore, ecc.) avevano naturalmente portato a legare la sua vita a quella di Maria con il vincolo del matrimonio, giunge poi questo divino momento in cui Dio entra da padrone nel santuario domestico per inaugurare quella superiore “economia” che esige una nuova generazione non dipendente dalla carne e dal sangue. I vincoli precedenti non vengono sciolti, ed appunto per questo Giuseppe viene sospinto dall'angelo a tenere con sé Maria; ma egli deve comprendere che la parte che sta assumendo nel piano della redenzione lo costituisce “padre” in un ordine di “parentela” che non è uguale a quello naturale dei “fratelli e delle sorelle” (= parenti) del Signore. La parentela del sangue non è la parentela che possa vantare dei diritti nel regno di Dio. Giuseppe entra a far parte di una famiglia che trae origine solo dall'iniziativa divina. Tale ingresso suppone una chiamata dall'alto e una risposta permeata di obbedienza di fede, strumenti della nuova generazione. La vera parentela che lega a Gesù non può essere fondata su diritti personali e naturali, ma sulla sola volontà divina» (cfr. Mt 12, 15; Lc 11, 27: T. Stramare).
Giuseppe è un padre illustre, perché nascosto:
«Dio cercava un uomo secondo il suo cuore per mettergli nelle mani quello che aveva di più caro: voglio dire la persona del suo Figlio unico, l'integrità della sua santa Madre, la salvezza del genere umano, il segreto più geloso del suo consiglio, il tesoro del cielo e della terra. Non sceglie Gerusalemme e le altre città rinomate: si ferma su Nazaret; e in questo borgo sconosciuto cerca un uomo ancor più sconosciuto, un povero lavoratore, cioè Giuseppe, per affidargli una missione, della quale gli angeli si sarebbero sentiti onorati, perché noi comprendiamo che l'uomo secondo il cuore di Dio deve essere cercato nel cuore, e che sono le virtù sconosciute quelle che lo rendono degno di questa lode.
Se mai ci fu un uomo al quale Dio si è dato con piacere, costui è senza dubbio Giuseppe, che lo tiene nella sua casa e nelle sue mani, e che gli è presente in tutte le ore, maggiormente nel cuore che davanti agli occhi... La Chiesa non ha niente di più illustre, perché non ha niente di più nascosto". (J. Benigne Bossuet)
Giuseppe, umo illustre ma nascosto, viene dall’esperienza di nascondimento nel deserto.
Un'attenta lettura della Bibbia dimostra che praticamente tutti gli uomini di cui Dio si è servito con maggiore potenza sono passati attraverso il deserto, alcuni nel senso più letterale, altri in senso spirituale: la formazione dei chiamati è realizzata per mezzo di un contatto diretto con Dio nel deserto o per mezzo di un contatto con l’azione di un Maestro.
L’essenza del deserto, per tanto, non è il luogo geografico in se stesso, ma la vita contemplativa, la vita nascosta in Dio, cioè l’unione profonda che lì si stabilisce tra Dio e il chiamato. Il fulcro del deserto è la scoperta della volontà di Dio e l’abbandono generoso a questa volontà che si manifesta nelle circostanze normali della vita.
Possiamo vedere nei chiamati ad una missione particolare in seno al Popol di Dio dell’Antica e Nuova Alleanza, di cui ci parla la Lettera agli Ebrei, quel “gran nugolo di testimoni”, che siamo chiamati ad emulare, giacché “tutti costoro pur avendo ricevuto per la loro fede una buona testimonianza, non conseguirono la promessa: Dio aveva qualcosa di meglio per noi, perché essi non ottenessero la perfezione senza di noi. Anche noi dunque, circondati da un così gran nugolo di testimoni, deposto tutto ciò che è di peso e il peccato che ci assedia, corriamo con perseveranza nella corsa che ci sia davanti, tenendo fisso lo sguardo su Gesù, autore e perfezionatone della fede” (cfr. Eb 11, 1-2.39-40; 12, 1-2).
In questo nugolo di testimoni fissiamo il nostro sguardo sulla figura di Giuseppe, il falegname di Nazaret, chiamato ad essere il padre di Gesù.
Nel Vangelo incontriamo nella persona di Giuseppe una meravigliosa figura di uomo del deserto, che vive in continua contemplazione e non cerca altra cosa se non scoprire e compiere la volontà di Dio.
Matteo esprime tutta questa meravigliosa realtà in una sola frase: "Giuseppe era un uomo giusto " (Mt 1,19). Lo stesso Matteo parla di tre "sogni" che Giuseppe ha avuto.
«Mentre stava pensando a queste cose, ecco che gli apparve in sogno un angelo del Signore e gli disse: “Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa, perché quel che è generato in lei viene dallo Spirito Santo”» (Mt 1,20).
In occasione della persecuzione contro Gesù da parte di Erode, «un angelo del Signore apparve in sogno a Giuseppe, e gli disse: “Alzati, prendi con te il bambino e sua madre e fuggi in Egitto e resta là finché io non ti avvertirò» (Mt 2,13).
In terzo e ultimo luogo il Vangelo narra ciò che segue:
«Morto Erode, un angelo del Signore apparve in sogno a Giuseppe e gli disse: “Alzati, prendi con te il bambino e sua madre e va’ nel paese di Israele”» (Mt 2,19-20).
La teologia del cristianesimo primitivo, avendo sempre in vista il grande valore della preghiera, ha dato già la spiegazione di questi passi evangelici: nella meditazione (= in "sogno"), realtà così profonda in cui la vita raggiunge gli ultimi confini dell’universo, può divenire sensibile e visibile (= l’ "angelo") il destino eterno dello stesso uomo, la sua vocazione; nella meditazione traspare la missione inconfondibile dell’uomo.
Mentre meditava tranquillamente nel silenzio della notte, Giuseppe ha potuto penetrare nel destino di Maria.
Tormentato dal dubbio e dall’incertezza, Giuseppe, mettendosi in profonda preghiera, ha potuto presentire il mistero dell’incarnazione. È stato allora che accettò di buon animo il messaggio dell’angelo.
Il futuro si presentava davanti a lui come accettazione e conformità ai piani divini.
Si mostra un uomo incapace di ribellarsi alla volontà di Dio, un uomo totalmente consegnato a Dio e un modello di vita contemplativa. La sua semplicità verso la sua sposa fu stupenda.
Ha sempre condotto la sua vita in un clima di fede e fiducia, nonostante le incertezze, l’imprevisto e perfino le tenebre che avvolgevano la sua anima.
Grazie alla sua vita semplice ed umile, Gesù è stato suo figlio forse più ancora che se egli stesso l’avesse generato:
«Costui non è forse Gesù, il figlio di Giuseppe»» (Gv 6,42), «Non è questo il figlio di Giuseppe?» (Lc 4,22), «Non è egli forse il figlio del carpentiere?» (Mt 13,55), «Gesù aveva circa trent’anni ed era figlio, come si cedeva, di Giuseppe» (Lc 3,23).
Giuseppe fu il grande pellegrino della umanità, dell’universo. Le sue mani erano sempre vuote. Dio provò in molti modi il suo amore, tuttavia Giuseppe mai ha emesso un lamento. Alla fine, non gli resta che lasciare il mondo e portarsi nell’eternità i dubbi in cui si era dibattuto. Tutto sarebbe trasformato nell’Amore oltre il quale non resta niente altro da desiderare.
Possiamo avere anche la certezza che l’amore di Giuseppe per Maria fu sincero e profondo. Una voce, (quella dell’angelo) ha rotto il silenzio in cui era sommerso e gli annunciò eventi che egli mai arrivò a comprender totalmente (Cf. Mt 1,20).
Ma Giuseppe obbedì, nonostante non avesse capito.
Prima che si completasse il mistero di suo Figlio (e al quale egli neppure poteva chiamare Figlio), e prima ancora che Gesù consumasse la sua missione nella croce, Giuseppe aveva già preso su di sé il peso di un destino e di una missione simile a quella di Gesù.
Si trattava di una missione interiore. E di fatto egli fu un uomo sofferente e abnegato, crocifisso.
Per questo, Giuseppe è uomo del deserto nonostante che mai è uscito dalla sua casa e dalla sua officina, giacché il fulcro del deserto è la contemplazione e attraverso di essa il completo abbandono di se stesso alla volontà di Dio.
(cfr. Ladislaus Boros, Cristo e os homens diante da tentação, Ed. Paulinas, 1972, pp. 12-14).
Comboni è entrato in comunione con san Giuseppe fin dal periodo della sua formazione giovanile presso l’Istituto Mazza, dove entrò nel 1843. Nella Chiesa dell’Istituto dedicata a san Carlo, ha iniziato a contemplare quel quadro che don Mazza vi aveva posto per simboleggiare «le principali devozioni» che «voleva istillare ai giovani: in mezzo il Sacro Cuore di Gesù e il Cuore Immacolato di Maria con a fianco san Giuseppe. Forse nasce già da qui il fatto che negli Scritti di Comboni appare con frequenza il riferimento a S. Giuseppe in unione ai Cuori di Gesù e Maria.
Questo periodo è fondamentale per capire il modo con cui Comboni si rapporta con san Giuseppe. Nato, infatti, in una famiglia povera ed educato in un Istituto povero sotto lo sguardo di san Giuseppe, si è trovato a dover fondare la sua opera praticamente “dal nulla”. Trovandosi quasi solo ad organizzare un’opera colossale, divenne per lui ovvio, nella sua logica di fede, rivolgersi fiduciosamente a S. Giuseppe, sceglierlo quale Economo della Missione, rivolgendosi a lui con disinvolta confidenza ogni volta che si trova in necessità.
Per tanto, non è difficile notare che i testi, in cui Comboni esprime il suo rapporto con san Giuseppe, trovano la loro radice spirituale nella formazione religiosa ricevuta in Verona. In essi sviluppa il senso della Provvidenza inculcatogli nell’Istituto Mazza, trovando molto concretamente in san Giuseppe il celeste e sicuro strumento di essa. Questo dato è indispensabile per capire che il modo di esprimersi di Comboni su san Giuseppe è sempre complessivo, cioè non è mai limitato a interessi puramente materiali, ma nasce sempre da un rapporto fatto di “spirito e fede” e si estende al campo spirituale e missionario.
Questo rapporto si è approfondito dopo che Pio IX, durante il Concilio Vaticano I, l’8 dicembre 1870, ha proclamato S. Giuseppe Patrono della Chiesa universale.
Da questo atto del Magistero il particolare rapporto di Comboni con san Giuseppe prese maggior consistenza. Comboni, infatti, vedeva la Missione in funzione della Chiesa e, quindi per lui, se san Giuseppe era “Protettore della Chiesa universale”, lo era anche della Nigrizia.
Da questo momento Comboni comincia a venerarlo come “Protettore della Chiesa Cattolica e della Nigrizia”, e a maggior ragione lo conferma quale Economo della Missione, precisando così quella profonda fede nella Provvidenza che sempre da giovane l'aveva animato.
Per tanto, a partire dalla sua intensa devozione personale e in armonia con la tradizione ecclesiale per Comboni san Giuseppe è Protettore, Patrono, Patriarca, Papà della Nigrizia, Re dei galantuomini, ecc.
Verso la fine della vita, in una lettera inviata al Sembianti dal El-obeid il 20/4/1881, parla della «poesia delle grandezze di san Giuseppe»:
«Mi dimenticai sempre di pregarla a ritirare da Monsig. Stegagnini … le diverse copie delle due Operette sul S. Cuore e su S. Giuseppe che compose e mi regalarono e mi mandarono appena uscite alla luce le sorelle Girelli di Brescia. Di più bramerei che ciascun missionario e ciascuna Suora dell'Africa Centrale possedesse e si familiarizzasse bene con questi due stupendi libri (oltre il Kempis ed il Rodriguez) per conoscer bene le ricchezze del Cuore di Gesù Cristo e la poesia delle grandezze di S. Giuseppe.
Questi due tesori uniti alla fervorosa divozione della gran Madre di Dio, Immacolata moglie del grande Patrono della Chiesa Universale e della Nigrizia, sono un talismano sicuro a chi è occupato degli interessi dell'anime nell'Africa Centrale qui in mezzo alle anime d'ambo i sessi di questi paesi, e danno il coraggio ed accendono la carità di trattare familiarmente e con disinvoltura [le anime della Nigrizia] per convertirle a Cristo ed alla Madonna» (Al P. Sembianti, dal El-Obeid, 20/4/81, S 6652-6653).
Questo testo è molto significativo in quanto ci aiuta a capire in profondità il vissuto di Comboni nella sua relazione con san Giuseppe. Essendo poi scritto verso la fine della sua vita e riferito ai suoi missionari/e, assume quasi il significato di testamento spirituale per tutti i missionari comboniani di ogni tempo.
In particolare l’espressione «la poesia delle grandezze di san Giuseppe” ci fa capire che S. Giuseppe nella preghiera di Comboni è molto di più che “l'Economo celeste” della Missione, anche se questa espressione proviene già da un cuore mosso da “spirito e fede”; ci fa capire che sulla ripetitività delle formule di preghiera di domanda emerge in Comboni la profondità del suo affetto verso san Giuseppe, in un contesto di comunione, stima e fiducia, che lo porta a collocarlo tra “i tesori” della sua vita, accanto al Cuore di Gesù e al Cuore di Maria.
Per leggere in profondità l’affetto di Comboni nella sua comunione con questo tesoro che è S. Giuseppe, ci può aiutare il seguente testo di J. Benigne Bossuet, che sembra riecheggiare nelle parole di Comboni:
«Dio cercava un uomo secondo il suo cuore per mettergli nelle mani quello che aveva di più caro: voglio dire la persona del suo Figlio unico, l'integrità della sua santa Madre, la salvezza del genere umano, il segreto più geloso del suo consiglio, il tesoro del cielo e della terra. Non sceglie Gerusalemme e le altre città rinomate: si ferma su Nazaret; e in questo borgo sconosciuto cerca un uomo ancor più sconosciuto, un povero lavoratore, cioè Giuseppe, per affidargli una missione, della quale gli angeli si sarebbero sentiti onorati, perché noi comprendiamo che l'uomo secondo il cuore di Dio deve essere cercato nel cuore, e che sono le virtù sconosciute quelle che lo rendono degno di questa lode.
Se mai ci fu un uomo al quale Dio si è dato con piacere, costui è senza dubbio Giuseppe, che lo tiene nella sua casa e nelle sue mani, e che gli è presente in tutte le ore, maggiormente nel cuore che davanti agli occhi... La Chiesa non ha niente di più illustre, perché non ha niente di più nascosto».
Certamente Giuseppe emerge nel cuore di Comboni dalla “nube di testimoni” (cfr. Eb 12,1) come il “tipo” dell’uomo credente, che incarna il mistero della Provvidenza divina (S 314), la quale governa con il suo «patrocinio universale» l’intera Storia della Salvezza. Egli è l’uomo silenzioso, che medita, obbedisce e tace, in una totale disponibilità al disegno di Dio su di lui, che lo fa “modello” del missionario della Nigrizia, che Comboni descrive nel Cap. X delle Regole del 1871: «La vita di un uomo, che in modo assoluto e perentorio viene a rompere tutte le relazioni col mondo e colle cose più care secondo natura, deve essere una vita di spirito, e di fede» (S 2698).
Il vissuto di Comboni si traduce nel non cercare « a Dio le ragioni della Missione da lui ricevuta, ma operare sulla sua parola, e su quella de' suoi Rappresentanti, come docile strumento della sua adorabile volontà» (cfr. S 2702).
Giuseppe, esaurito il ruolo di conoscere il mistero dell’Incarnazione e di attuarlo, inserendo Cristo nel popolo della salvezza, si eclissa. E il missionario «in ogni evento ripete con profonda convinzione e con viva esultanza: servi inutiles sumus; quod debuimus facere fecimus. Luc. XVII» (S 2702).
Comboni, dopo aver fatto sua la “filosofia della Croce” (S 2326), vedendo in essa la sua “sposa per sempre” (S 1710), dopo averne profondamente sentito il peso, mentre intorno a sé vi è il buio e l’isolamento morale più assoluto, proferisce parole che testimoniano l'autenticità del suo apostolico eroismo, fondato su una fede pura e su un amore ardente per l'Africa da salvare, che lo assimilano al Trafitto sulla Croce:
«Benché sia certo di soccombere fra breve a tante croci, che mi pare in coscienza di non meritare, pure sia sempre benedetto il mio Gesù, vero vindice dell'innocenza, e protettore degli afflitti; la Nigrizia si convertirà, e se nel mondo non avrò consolazione, l'avrò in cielo. Vi è Gesù, Maria, Giuseppe, e se vengono meno gli uomini non verrà meno Dio che salverà la Nigrizia» (A P. Sembianti da El Obeid, 9 luglio 1881, S 6815).
Avviene in Comboni proprio come avvenne per Giuseppe, il quale visse la sua vicenda terrena inabissato nell’adorazione di Dio, a cui si affidava totalmente, e insieme impegnato quotidianamente nel duro lavoro materiale, e prima che si compisse il mistero del “suo Figlio”, prima che Gesù consumasse la sua Missione sulla Croce, aveva già preso sopra di sé il peso di un destino e di una missione simile a quella di Gesù.
Comboni canta «la poesia delle grandezze di san Giuseppe”, anzitutto con la fiducia nella sua protezione; una fiducia spinta fino all’audacia ed espressa in termini pieni di entusiasmo:
«Lode e Gloria ai SS. Cuori di Gesù e di Maria, a S. Giuseppe…» (Dossologia finale del Piano, 1864, S 846)
«Il Vicariato dell'Africa Centrale, grazie alla poderosa assistenza dell'inclito Patriarca S. Giuseppe, che dell'Africa Centrale divenne il vero Economo, dopo che il Santo Padre lo proclamò Protettore della Chiesa Cattolica, non mancherà mai di sufficienti risorse» (Relazione al card. A. Franchi, Roma, 29 giugno 1876, S 4170).
«Ieri fu un giorno felice, perché ho potuto parlar chiaro a S. Giuseppe. Capisco che bisogna essere arditelli con questo benedetto Santo» (A mons. Luigi di Canossa da Vienna, 20 marzo 1871, S 2416).
«S. Giuseppe è stato, è e sarà sempre il Re dei galantuomini, ed un maestro di casa, ed un Economo di molto giudizio, ed anche di buon cuore» (Al card. Alessandro Barnabò da El Obeid, 12 ottobre 1873, S 3434).
«Viva S. Giuseppe, Protettore della Chiesa universale, ed economo della Nigrizia» (Al card. Alessandro Franchi da Khartoum, 26 giugno 1875, S 3849).
«S. Giuseppe è il vero papà della Nigrizia» (Al Card. A. Franchi 1876, S 4025).
«Tutta la nostra fiducia è riposta nel SS. Cuore di Gesù, in Nostra Signora del S. Cuore, in S. Giuseppe…» (A Leone XIII, 1878, S 5216)
Comboni canta ancora «la poesia delle grandezze di san Giuseppe”, perché trova in lui uno stile esemplare di «sequela di Cristo», il quale «da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà» (2Cor 8,9):
«Oh! San Giuseppe fu povero per provvedere agli altri» (S 1516). E ancora: «Il mio economo, benché sia stato molto povero in vita sua, ora essendo l’arbitro dei tesori del Cielo, non ha mai mancato di aiutarmi» (S 3520).
È uno stile praticato da Comboni: sempre mendicante in terra per donare all’Africa “fede cattolica e civiltà cristiana» (S 6214), adesso – possiamo dire – pratica in cielo il proposito così vivacemente espresso al Canossa:
«Quando poi saremo in Paradiso…, allora colle nostre incessanti preghiere metteremo in Croce Gesù e Maria, … fino a che quanto prima siano convertiti alla fede i cento milioni dell'infelice Nigrizia» (Al Card. Canossa, 1871, S 2459).
Avere eletto S. Giuseppe come economo della Missione non era per Comboni solo una pia considerazione, ma una realtà di fatto in cui credeva e confidava, come lo dimostra il seguente testo:
«Non è però che l'abbia risparmiata al mio caro economo S. Giuseppe, al quale m'ero raccomandato per un prospero viaggio dal Cordofan a Chartum. Questo caro Santo, avendo lasciato che io cadessi così terribilmente dal cammello, l'ho tassato ben bene con la multa di mille franchi in oro ogni giorno che io dovessi portare al collo il mio braccio; e siccome io fui costretto a portare al collo il braccio per 82 giorni, senza aver potuto dir messa eccetto solo cinque volte, così il mio venerato economo rimase condannato a pagarmi la multa di 82.000 franchi; per lo che il giorno di S. Faustino e Giovita Protettori della nostra cara Diocesi Bresciana (82° giorno della mia terribile caduta nel Deserto) tirai sopra il caro Santo una Cambiale di quattromila e cento Marenghi pagabili a sei mesi; e già fin d'ora m'accorgo che il bravo Economo fa, come il solito, onore alla mia firma, poiché da quel giorno fino ad oggi che scrivo a Vostra Eccellenza incassai n. 38.706 franchi in oro, tra i quali vi sono 5000 fiorini speditimi da quel miracolo di carità che è S. M. Apostolica l'Imperatrice Maria Anna e l'Imperatore Ferdinando I da Praga, 4000 franchi da quel gioiello di vero Principe cattolico che è S.A.I. e R. il Duca di Modena Francesco V da Vienna.
Il mio economo poi, benché sia stato molto povero in sua vita, ora essendo l'arbitro dei tesori del Cielo, non ha mai mancato di aiutarmi; ed in soli sei anni e mezzo dacché cominciai l'Opera mi ha fornito di 600.000 franchi, cioè, mi ha pagato cambiali per trentamila Marenghi. L'assicuro, Monsignore, che la Banca di S. Giuseppe è più solida di tutte le Banche di Rothschild. Intanto senza trovarmi con un solo centesimo di debito, questo bravo economo mantiene per la Nigrizia due Case a Verona, due al Cairo, due a Chartum e due in El‑Obeid capitale del Cordofan con oltre 100.000 (centomila) abitanti, ove per la prima volta si è celebrata la messa e vi è adorato Gesù Cristo nel 1872» (A mons. Girolamo Verzieri, vescovo di Brescia, da Khartoum, 10 marzo 1874, S 3519-3520).
La fiducia nell'intervento provvidenziale di S Giuseppe si fa certezza, perché fondata sulla promessa evangelica che Dio esaudirà la preghiera fatta con le dovute disposizioni:
«Il mio compianto Superiore, che mi fu Padre per 24 anni, fin da fanciullo, e che morì in concetto di santità, Don Nicola Mazza, diceva sempre che Cristo è un galantuomo; ciò che io sempre interpretai che al petite, quaerite, pulsate, pronunciati e ripetuti con le debite condizioni, corrisponde sempre, come il tasto di un pianoforte, il verbo accipietis, invenietis ed aperietur.
Ora ai 12 Maggio, festa del mio Economo S. Giuseppe, sacra al suo Patrocinio, io gli ho intimato in tutte le forme, che entro il 31 Dicembre prossimo mi mandi in diverse rate 100.000 franchi (centomila). L'Eminenza Vostra, se Dio mi darà vita, avrà la relazione ufficiale, che S. Giuseppe me li ha mandati (S 5361).
Di più nella Festa del Patrocinio di S. Giuseppe gli ho intimato che entro un anno (cioè, entro il 31 maggio 1879) mi accordi il pareggio vero, reale e perfetto delle finanze del Vicariato; non già come il pareggio millantato e mai ottenuto dei finanzieri del così detto Regno d'Italia, ma vero pareggio, cioè totale estinzione di tutti i debiti, e di qualsiasi passivo, oltre al necessario abbondante per sostenere il Vicariato e sue Opere. Di tutto questo, se vivrò, riceverà regolare relazione Vostra Eminenza entro il caro mese del S. Cuore di Gesù del venturo anno. Le croci, le afflizioni, le tribolazioni sono necessarie, e rassodano e fanno prosperare le Opere di Dio: e la mia opera è Opera di Dio (S 5362).
Benché sia vero tutto questo e benché io sia sicuro che succederà quanto ho asserito testé, non posso però dissimulare di aver molto patito e sofferto per tutte le tribolazioni enunciate» (Al card. Giovanni Simeoni da Khartoum, 23 agosto 1878, S 5363).
La fiducia in S. Giuseppe è fede nella Provvidenza, che certamente non mancherà a un'opera così santa, qual è la salvezza della Nigrizia:
«Come mai si potrà dubitare della Provvidenza divina, e di quella del solerte Economo S. Giuseppe, che in soli otto anni e mezzo, ed in tempi si calamitosi e difficili, mi mandò più di un milione di franchi per fondare ed avviare l'opera della Redenzione della Nigrizia in Verona, in Egitto e nell'Africa interna? I mezzi pecuniari e materiali per sostenere la Missione sono l'ultimo dei miei pensieri. Basta pregare... Che se succedesse un cataclisma in Francia, in Prussia e in Austria, allora coll'Africa Centrale subirebbero la medesima sorte tutte quasi le Missioni del mondo. Allora rimarrà sempre S. Giuseppe trionfatore di tutti i cataclismi dell'universo; e per mio conto la speranza rimarrà sempre inconcussa» (Relazione al card. Alessandro Franchi, Roma, 29 giugno 1876, S 4171, 4175).
La terribile carestia del 1878 mette a dura prova l'economia della missione, ma non infirma in alcun modo la fiducia nell'Economo celeste, che, nonostante tutto, farà quadrare i bilanci:
«Ho esaurito tutte le mie risorse, e ho trovato oltre a quarantamila franchi di debito (S 5185) ... Stia certa l'Eminenza Vostra che S. Giuseppe mi otterrà il "pareggio", non già il pareggio ampollosamente promesso dai Minghetti, dai Lanza, dai Sella, dai Depretis, e da altri della mangiatoia italiana, ma il “vero pareggio", cioè, la Missione non avrà un centesimo di debito, e continuerà il suo corso verso l'alta sua meta» (Al card. Giovanni Simeoni da Khartoum, 1° giugno 1878, S 5186).
La fiducia di Comboni in S. Giuseppe si estende dal campo temporale anche a quello spirituale e missionario. La protezione di san Giuseppe abbraccia la missione e gli Istituti fondati per la Missione:
«Ho ferma speranza nel Divin Cuore di Gesù, che palpitò anche per la Nigrizia, in nostra Signora del Sacro Cuore, e in quel mio caro economo ed amministratore generale dell'Africa Centrale, S. Giuseppe protettore della Chiesa cattolica, nella cui barba vi sono milioni, e può soccorrere quest'ardua, laboriosa, ed importante missione, perché il suo Gesù è morto anche per la Nigrizia… Gesù Maria, e Giuseppe batteranno al cuore dei buoni cattolici» (Al Can. Cristoforo Milone, 1878, S 5437).
«Il mio caro Economo S. Giuseppe, dopo diligentissimo esame, spero che mi abbia fatto la grazia di trovare un santo ed abilissimo Rettore dei miei Istituti Africani di Verona, nel che mi coadiuvò molto la esimia carità dell'E.mo Card. di Canossa». (Al card. Giovanni Simeoni da Verona, 16 gennaio 1880, S 5897).
Nel far coraggio al rettore P. Giuseppe Sembianti, Comboni cerca di trasfondergli quella fiducia verso S. Giuseppe che sente viva nel proprio cuore:
«Mio caro Padre, coraggio, e avanti, e non si sgomenti, e sostenuto dal Cuor di Gesù (a cui dedico la Chiesa che ora voglio fabbricare qui al Cairo fra l'Ist.o maschile e il femminile, e della quale il dì del natale prossimo metterò la prima pietra, e tutto è già scavato), da N. S. del Sacro Cuore, dal nostro caro Beppo economo …. noi riusciremo a tutto. Io non temo dell'Universo intero. Si tratta degli interessi di Gesù e della Chiesa, e noi riusciremo a divenire non dispregevoli pietre del fondamento del grande edificio della Chiesa africana… Quanto ai mezzi pecuniari in Verona, non ci pensi nulla, Beppo sarà là ad aiutarla nel bisogno» (Al P. Sembianti, 17/12/1880, S 6172.6182)
La fiducia soprannaturale in S. Giuseppe spinge Comboni a non temere nulla sulla terra, perché si sente al servizio di un’Opera tutta di Dio:
«Non ho paura di nessuno al mondo, fuorché di me stesso, che esamino ogni giorno, e raccomando fervidamente al Cuore di Gesù, di Maria, e di Giuseppe; conosco assai bene i nemici della mia opera; e non ho nessun timore di essi... perché le Opere di Dio, che hanno per oggetto la divina gloria e la salute dell'anime, devono passare pel crogiuolo della Croce, che sola è simbolo di salute e di vittoria» (Al card. Simeone, 1881, S 6437).
La grande fiducia non toglie a Comboni la consapevolezza di trovarsi in situazione particolarmente difficile, essendo il vescovo più isolato del mondo, nell’impossibilità, per le enormi distanze, di aver un consiglio dai fratelli nell’episcopato. Ma appunto per questo, in forza della sua fede, sa trovare in alto i suoi consiglieri:
«La mia posizione è … critica perché nessuno al mondo mi può dare un consiglio esatto e definitivo, e neanche proprio dritto la stessa Propaganda, perché l'Africa Centrale è affatto diversa dal resto del mondo... Ma su ciò io son pienamente tranquillo perché mi consiglio col Signore, colla Madonna, e con S. Giuseppe, che nell'Africa mi hanno sempre assistito, e non hanno mai permesso che io sbagli una sola volta, benché in Europa, ove non si conosce l'Africa, si creda altrimenti. Ma avanti, e coraggio…» (Al P. Sembianti, 5. 3. 1881, S 6523-6524).
Nei momenti in cui la sofferenza morale si fa più acuta, l’invocazione si fa accorata, ma sempre fiduciosa:
«Ma io sono troppo infelice. Gesù mi aiuterà certo, la Vergine Immacolata e S. Giuseppe mi aiuteranno: ringrazio Gesù delle croci, ma la mia vita è un oceano di affanni procuratimi da chi è buono e mi ama… Ma l’Africa sarà convertita, viva Noè, e Gesù aiuterà a portare la Croce» (Al P. Sembianti, giugno 1881, S 6795-6796).
Negli ultimi giorni della sua vita Comboni rianima ancora il rettore P. Sembianti a una fiducia di stampo evangelico, fondata su un profondo amore verso Gesù:
«Confidenza in Dio! che è sì rara anche nelle anime pie, perché si conosce e si ama poco Dio e Gesù Cristo. Se si conoscesse e si amasse davvero G. C., si farebbero trasportare i monti…. Le dico ciò per avvertirla ad avere fiducia ferma e risoluta in Dio e nella Madonna e in S. Giuseppe… Modicae fidei, quare dubitasti?.. Ella faccia di tutto, e faccia pregare S. Giuseppe ad hoc» (Al P. Sembiati 13.91881, S 7062-7063.7067).
Per Comboni la Sacra Famiglia costituisce «una Triade santissima», formata da Gesù Maria e Giuseppe, che egli venera come i «tre cari oggetti del nostro amore» e ai quali affida i suoi Istituti del Cairo (S 5891; 5866).
Il rapporto di Comboni con la Sacra Famiglia, iniziato negli anni della formazione nell’Istituto Mazza, si approfondisce con il pellegrinaggio in Terra Santa e poi in Egitto, dove la Sacra Famiglia guidata da Giuseppe, fugge dalla persecuzione di Erode e dimora per 7 anni.
Nel pellegrinaggio in Terra Santa, Comboni che la “visita”, rimane chiaramente “visitato” dai misteri della vita di Cristo che si sono realizzati in quei Luoghi. Ne sono un segno le lettere scritte ai genitori sul viaggio a Gerusalemme e la "Lettera Pastorale per la Consacrazione del Vicariato al S. Cuore".
In questa Lettera, infatti, Comboni presenta il Cuore di Cristo nel suo cammino di amore per l’umanità dalla “sacra culla di Betlemme” al sepolcro del Crocifisso-Risorto in Gerusalemme:
"Questo Cuore adorabile divinizzato per l'ipostatica unione del Verbo con l'umana natura in Gesù Cristo Salvatore nostro, scevro mai sempre di colpa e ricco d’ogni grazia, non vi fu istante dalla sua formazione, in cui non palpitasse del più puro e misericordioso amore per gli uomini. Dalla sacra culla di Betlemme s'affretta ad annunziare per la prima volta al mondo la pace: fanciulletto in Egitto, solitario in Nazaret evangelizzatore in Palestina divide coi poveri la sua sorte, invita a sé i pargoli e gl'infelici conforta, risana gl'infermi e rende agli estinti la vita; richiama i traviati e ai pentiti perdona; morente sulla croce mansuetissimo prega pei suoi stessi crocifissori; risorto glorioso manda gli Apostoli a predicare la salute al mondo intero" (S 3323).
In questo testo, in cui Comboni descrive il Mistero globale del Cuore di Cristo, costituito dall’Incarnazione-Esistenza-Pasqua del Signore, è evidente il riferimento alla Sacra Famiglia, indicata dalla “sacra culla”, dalla figura di Gesù “fanciulletto in Egitto” e “solitario in Nazaret”.
Dietro questa descrizione non è difficile ascoltare la eco del suo pellegrinaggio a Betlemme, dove protagonista del Mistero contemplato è appunto la Sacra Famiglia. È significativo il fatto che i sentimenti che Comboni condivide con i suoi genitori di fronte a quella “sacra culla”, mettono in rapporto la “grotta fortunata” e “beata” di Betlemme con il Calvario. Così la casa che ospita i Tre santi personaggi, si proietta verso il sepolcro e l’altare del sacrificio, culmine della manifestazione dell’amore di Dio per l’umanità, che comincia a manifestarsi proprio in seno alla Sacra Famiglia:
« Finalmente giungemmo alla sera tardi in Betlemme. Mio Dio! ove mai volle nascere Gesù Cristo? Ancora quella sera volli discendere alla Grotta fortunata, che vide nascere il Creatore del mondo. Vi entrai, e quantunque la nascita sia più gioconda della morte, nulladimeno restai più commosso che sul Calvario, nel pensare alla degnazione di un Dio che si esinanì fino a nascere in quella stalla. (S 111).
Io vi celebrai Messa la notte seguente; e mi fu caro di trattenermi fino alla mattina in questa beata grotta, che forma la delizia del cielo. (S 112)
Tra il luogo dei Magi, e il luogo del Presepio (che è a Roma) v'è il luogo ove sedeva Maria Vergine dopo che adagiò il Bambino nel presepio. Io mi sedetti pure, e poi baciai mille volte quel luogo. Baciai quasi tutta la grotta; né sapevo distaccarmi, perché veramente mi faceva ricordare (risvegliare) quel beato momento in cui ebbero luogo in questa grotta i misteri della natività di N. S. G. C.» (S 113).
A questo punto è interessante rilevare come il pellegrinaggio alla grotta di Betlemme può aver evocato in Comboni le sue umili origini di «un povero figlio di uno scartator di Limone, nato nelle grotte, e vissuto all'ombra di S. Carlo, che ha mangiato per molti lustri la proverbiale polenta» (S 4680; cfr. anche S 642; 981-982).
In effetti, la casa al Teseul dove egli è nato, lontana dall'abitato, in una frazione isolata di Limone, un paese altrettanto isolato, è paragonabile alla grotta di Betlemme. In questa casa, circondata da luoghi agresti dominati da prati e da campi di olivi, Comboni si è inoltrato nell’avventura della vita, sostenuto dalle cure amorevoli di papà Luigi, “giardiniere”, e di mamma Domenica, “casalinga”, che si distingueva per la sua delicatezza e la sua religiosità.
Il ricordo di essere nato nelle grotte non è dovuto alle sole condizioni materiali dell’abitazione, ma anche al fatto che in casa sua si respirava l’aria evangelica della grotta dei pastori, e anche della casa di Nazaret. Con papà Luigi e mamma Nina legatissimi a lui, il quarto di otto figli, morti tutti quasi in tenera età, formavano una famiglia unita, ricca di fede e valori umani; vivevano occupati nei vari lavori propri dei contadini, radicati nella confidenza in Dio e nella sua Provvidenza.
La formazione spirituale ricevuta da Comboni in casa è frutto di questa sintonia spirituale tra i suoi genitori, che sfociava in un amore familiare fondato su una grande fede in Dio. Nei suoi genitori questa fede diviene coinvolgimento nella vocazione missionaria del loro unico figlio, e in lui certezza della vocazione e unità di misura per verificare la sua fedeltà ad essa; l’esempio del loro sacrificio nel donare il figlio alle missioni diviene in lui sprone a dedicarsi con altrettanta generosità ai fratelli dell’Africa.
Comboni incontra ancora la Sacra Famiglia e il ruolo provvidenziale di san Giuseppe al Cairo, in occasione delle prime fondazioni (1867). Si tratta degli Istituti del Cairo, chiamati: Istituto Sacro Cuore di Gesù, filiale dell’Istituto di Verona (S 2895) e Istituto del Sacro Cuore di Maria:
«Ho preso a pigione … il Convento dei Maroniti a Cairo Vecchio che ha annessa una casa antica, a cento passi dalla grotta della B. V. M., ove è tradizione che abbia dimorato la S. Famiglia durante il suo esilio in Egitto. Nelle due case che divide una Chiesa abbastanza comoda ho aperto ed iniziato due piccoli Istituti, che camminano per grazia di Dio assai bene». (S 1578).
L’Istituto del Sacro Cuore di Maria per la rigenerazione dell’Africa è affidato alle Suore di S. Giuseppe dell’Apparizione:
«Non dobbiamo forse in tutto ciò ammirare l'adorabile Provvidenza, che scelse precisamente le Figlie di S. Giuseppe come le prime direttrici del nostro primo Istituto per la conversione dell'Africa? Una serie di circostanze provvidenziali ha fatto nascere quest'opera nella famosa terra dei Faraoni, a pochi passi dalla S. Grotta, dove quel grande Patriarca è vissuto colla sacra Famiglia, e la sua presenza durante sette anni ha fatto crollare gli idoli di Egitto ed ha fondato al posto di essi la fede in Gesù Cristo e un seminario di vita religiosa, che produce tanti eroi per il Cielo, e diffondendosi ovunque, ha abbellito la Chiesa cattolica di tanti modelli di virtù. Per mezzo delle sue opere meravigliose e le sue gloriose conquiste in tutto l'universo, ha coronato con trionfi la Chiesa in tutti i tempi e la coronerà fino alla fine del mondo» (S 1804).
Scrivendo al Card. Franchi nel 1874 poteva affermare che i “buoni effetti” che si registravano in questo Istituto andavano attributi in primo luogo alla «protezione provvidenziale di S. Giuseppe», ma anche all'«amore e fiducia che esse nutrivano vivissima per questo caro Santo loro padre» (S 3672).
In questi Istituti Comboni si impegna a far respirare l’aria salutare della Sacra Famiglia, dove si vive in maniera sublime il mistero della comunione con Dio. Egli, infatti, svolge il servizio di animatore che, tra elementi “tutti eterogenei”, è chiamato a creare “perfetta armonia, e ridurre ad unità di intenti e di bandiera” (S 2508).
Siamo in presenza del «Cenacolo di Apostoli» abbozzato sulle orme della Sacra Famiglia, che gradualmente si va traducendo in vita di comunione, all’insegna della prima comunità cristiana:
«Noi quattro siamo un cuor solo, un'anima sola: l'uno va a gara per compiacere l'altro: io so e sono convinto di non essere degno nemmeno di baciare i piedi a' miei compagni; ma essi sono tanto buoni e caritatevoli che non solamente mi compatiscono, ma mi circondano del rispetto e dell'amore dovuto a un superiore: essi sono compresi dell'altezza della divina missione che vanno a compiere. (S 1507).[…] Noi siamo in un Eden di pace: quello che vuole l’uno vuol l’altro (S 1562). […] Le Suore sonno animate da uno spirito ottimo, esemplari nella loro vita religiosa e piene di dedizione e di zelo per l’opera nostra. E noi da parte nostra non tralasciamo di fortificarle nella loro vocazione» (S 2523).
In questo «Cenacolo di Apostoli» in fieri appare chiara l’identità del Missionario: colui che vive una “vita di spirito e di fede” in un clima di famiglia creato mediante un forte vincolo di “familiarità” con Dio, affinché possa vivere il “suo essere consacrato” per il servizio del Regno con totale e perseverante dedizione: «Siamo tutti disposti, o Eminenza, di morire anche martiri della Fede; ma vogliamo morire con giudizio, e con sommo giudizio, cioè coll'operare saviamente per la salvezza dell'anime le più derelitte della terra, ed esporci per esse ai più grandi pericoli della vita con quella prudenza, discrezione, e magnanimità, che si addice ai veri apostoli e martiri di Gesù Cristo (S 2225).
Si profilano qui due modelli ispiratori della comunità nella nostra Regola di Vita, che fanno parte del fondamento del “Cenacolo di Apostoli”, pensato da san Daniele e denominato nella Regola di Vita «Comunità di fratelli» (RV 10-12).
Ci fa bene pensare e ricordare che tra i «tre cari oggetti» dell’amore di Comboni ci sia una presenza molto discreta e umile ma preziosa e necessaria, che è quella dell’asino.
Nella Bibbia l’asino è animale da carico, simbolo di lavoro, di disponibilità e si impiega in tempo di pace. Appare, per la prima volta, quando, caricato della legna per il sacrificio, accompagna Abramo che va sul monte Moria a sacrificare Isacco (Gen 22,3.5.
Un passo del libro dei Numeri mostra l'asino capace di 'vedere' i segni di Dio e di opporsi all'uomo ottuso che non comprende la parola di Dio (cfr. Nm 22,23-35). L'asino diviene una figura sapienziale, perché riconosce la volontà di Dio prima ancora dell'uomo che si ritiene veggente.
La figura dell'asino è presentata come cavalcatura, modesta, del Messia in segno d'umiltà. Il profeta Zaccaria annuncia che il Messia vittorioso cavalcherà un'asina (9, 9). I Vangeli presentano l'entrata di Gesù a Gerusalemme proprio su di un'asina. Egli stesso chiede ai discepoli di procurargliela ed è interessante notare che l’asino è l’unico personaggio di cui Gesù afferma di aver bisogno (cfr. Mt 21,2-7; Lc 19,29-38). Agli occhi dei discepoli e della folla, Gesù si presenta Messia non violento, portatore di pace, colui che realizza la profezia di Zaccaria.
I discepoli "sellano" l'asino con i loro mantelli, mentre altri li stendono lungo la strada. Questo gesto indica che mettono la propria esistenza nelle mani di Gesù, disposti a seguire un Messia di pace.
L'asino anche se non esplicitamente menzionato nei Vangeli, essendo il mezzo di trasporto usuale, è da ritenersi presente negli episodi evangelici della visita di Maria a Elisabetta, nel viaggio a Betlemme di Giuseppe e Maria, nella fuga in Egitto e nel loro ritorno dall'Egitto (cfr. Filippa Castronovo, in Paoline.it).
Comboni non fa menzione della presenza dell’asino tra i «tre cari oggetti» del suo amore e che propone anche a noi, però la realtà simbolizzata da questo animale si intravede nel suo modo di concepire, di vivere e di prospettare la vita missionaria, come si può notare nel Cap. X delle Regole del 1871. Qui, infatti, propone a se stesso e al missionario di «considerarsi come un individuo inosservato in una serie di operai, i quali hanno da attendere i risultati non tanto dell'Opera loro personale, quanto da un concorso e da una continuazione di lavori misteriosamente maneggiati ed utilizzati dalla Provvidenza»; il missionario è come un operaio che vive e opera come «una pietra nascosta sotterra, che forse non verrà mai alla luce» e che «non cerca a Dio le ragioni della Missione da lui ricevuta, ma opera sulla sua parola, e su quella de' suoi Rappresentanti, come docile strumento della sua adorabile volontà, ed in ogni evento ripete con profonda convinzione e con viva esultanza: servi inutiles sumus; quod debuimus facere fecimus. Luc. XVII» (cfr. S 2700ss).
Assumere il significato simbolico dell’asino offertoci dalla Bibbia, in particolare dalla storia dei «tre cari oggetti dell’amore» di Comboni e del nostro, ci stimola pure ad ampliare gli orizzonti della nostra vita spirituale, accogliendo l’insieme della vita coscienti di essere in relazione con tutti e con tutto.
Questi orizzonti ci vengono indicati dalle riflessioni di Jonny Dotti e Mario Aldegani, parlando dell’asino come mezzo di trasporto della Famiglia di Nazareth, nel libro Giuseppe siamo noi (S. Paolo 2017, p. 119s):
«Paradossalmente forse in certi momenti questo asino è stato l’unica compagnia che Giuseppe aveva. Questo muto compagno di ogni suo viaggio Giuseppe lo ha accarezzato, curato alimentato… magari qualche volta ci ha anche parlato?
Siamo in un tempo che è eccessivamente tecnologico e razionale.
Oggi si parla magari con un computer, si fanno amicizie virtuali sacrificando quelle reali… ma chi accetterebbe la compagnia esistenziale di un asino?
Eppure tra i nostri bisogni c’è anche quello di un rapporto più sano e armonico con la natura, gli animali, le cose, che tutte ci parlano e ci accompagnano nell’esistenza.
Non è solo dell’uomo il creato: è di tutti gli esseri creati.
Del resto la salvezza che Gesù ci ha portato è una salvezza per tutto il cosmo, non solo per l’essere umano.
Tutto il creato geme e soffre per le doglie del parto.
Dentro questa convinzione noi partecipiamo alla generazione di un altro concetto di salvezza, che non riguarda solo l’uomo, che apre ad una visione davvero cosmica di quello che siamo e di quello che saremo.
Abbiamo bisogno di una spiritualità che accolga l’insieme della vita, che acceda ad una coscienza più ampia di sé, che non è quella di essere individui, ma di essere in relazione con tutti e con tutto.
Andare oltre, trascendersi, non è forzare, accelerando senza limiti la nostra potenza sempre nella direzione dell’espanderci o dell’affermarci, ma è raccogliere in sé l’universo cosmico, avere una coscienza di relazione con il tutto, che è la grandezza e la bellezza della nostra vocazione di umani, sospesi fra la terra e il cielo».
Di una “spiritualità che accolga l’insieme della vita” ci viene un esempio ancor dal nostro Comboni, come possiamo costatare da due suoi Cantici: il “Cantico delle creature” e il “Cantico dell’ordine della Provvidenza”.
In san Daniele Comboni, infatti, la risposta al dono della vocazione si configura come un rendimento di grazie e una lode a Dio per la sua creazione e per l’ordine della sua Provvidenza. È un rendimento di grazie che si esplicita in vari momenti particolari della sua vita. Non è difficile evidenziare: il Cantico delle creature e il Cantico dell’ordine della Provvidenza all’inizio della vita missionaria di D. Comboni.
In seguito, il Cantico dell’ordine della Provvidenza si prolunga nell’Inno dell’amore casto per la Nigrizia, proclamato nell’Omelia di Khartoum (1873) [Cf Consacrati a Dio per la Missione nello spirito di Comboni, p. 431ss], quando vi arriva come Pro-vicario dell’Africa Centrale, e l’Inno alla Croce (1877) nell’apice della sua attività apostolica, quando è già affidata alla sua responsabilità di Pro-vicario apostolico la Missione dell’Africa Centrale.
Il cantico delle creature esplode nell’animo di Comboni al suo primo contatto con l’ambiente dell’Africa Centrale, dove poteva contemplare paesaggi immensi e inediti. Il Garda lo aveva abituato a godere dello spettacolo di una natura, fatta di colori cangianti, profumi intensi, suoni gradevoli. Egli nelle sue prime lettere ai genitori dal continente africano, si fa conoscere come ammiratore attento e narratore puntuale di quelle bellezze naturali che va scorgendo, che non cessano di generare in lui stupore e che fanno da cornice ai tanti “volti” umani, ai quali è inviato. L’incanto delle bellezze naturali, il sentirsi creatura tra le creature, l’essere avvolto dal quel mistero di “tramonto e aurora”, fa di Daniele Comboni un cantore della creazione, che va ripetendo: “Quanto è grande, e potente il Signore!”
Il cantico della grandezza di Dio nel creato si espande e si approfondisce nel “Cantico dell’ordine della Provvidenza”, che egli vede realizzarsi nella Storia della Salvezza dell’umanità attraverso il Mistero della Croce. È un Cantico alla Provvidenza, la quale adesso lo chiama qui a dedicare la sua vita a portare il Vangelo tra quei “volti” umani che vivono in mezzo a quelle bellezze naturali, ma che sono sfigurati e oppressi da tante calamità, tra cui la schiavitù.
Comboni risponde a questa chiamata, determinato a combattere da forte al fianco “del medesimo Cristo che combatte e patisce per noi e con noi; fiancheggiati ed assistiti da sì generoso e potente Capitano e Signore”.
Mentre Comboni vive affascinato dalle bellezze naturali dell’Africa Centrale e totalmente votato alla rigenerazione di quei popoli che gli appaiono come i più poveri e abbandonati dell’Universo, lo raggiunge e lo ferisce profondamente la notizia della morte della mamma, ma la fede in questa Provvidenza gli dà la forza di rimanere al suo proposito di combattere da forte, dichiarandosi “…tutto povero… Servo dei negri nella povera Africa Centrale” (S 437).
L’espansione nel cammino spirituale di Comboni in questi due Cantici, si nota chiaramente anche nel modo con cui firma le lettere che li contengono; nella prima, scritta dalla tribù dei Kich il 5 marzo 1858, firma dichiarandosi: “Vostro affez.mo figlio… Missionario Apostolico nell'Africa Centrale” (S 309); nella seconda, invece, scritta dalla stessa tribù dei Kich nel novembre dello stesso anno, quindi dopo 8 mesi, firma dichiarandosi: “Vostro affez.mo e grat.mo figlio tutto povero… Servo dei negri nella povera Africa Centrale” (S 437).
Da questo momento in avanti sono questi volti umani bisognosi di rigenerazione, che scandiscono il suo camino nello spirito, instancabile fino alla morte in cerca di vie per la rigenerazione della Nigrizia.
Animato da questo “impeto missionario”, né il buio che avvolge “la Nigrizia” né le altre difficoltà riescono a spegnere in lui il senso della gioia e della lode a Dio. La meravigliosa aurora del deserto che imporpora come un incendio d’oro il cielo, i monti e il piano; il sole che puntualmente si alza maestoso, continuano a essere nell’animo di Comboni simbolo della presenza provvidente di Dio in tutti i luoghi, anche nel regno della morte.
A questo punto è interessante notare come i sentimenti espressi da Comboni nei due Cantici si intrecciano con quelli di santa Giuseppina Bakita, nata tra quelle bellezze della natura nel 1869, rapita e venduta come schiava, mentre Comboni combatteva da forte per la liberazione di quei volti oppressi. Le vicende dolorose di Bakita si concludono in Italia nel 1947, dove, conquistata la libertà e divenuta cristiana, esprime il suo canto di lode a Dio Creatore e Provvidente, quando ricorda la sua entrata nel Catecumenato:
«Io venni affidata ad una Suora addetta all’istruzione dei Catecumeni. Non posso ricordare, senza piangere, la cura che ella ebbe dime. Volle sapere se avessi desiderio di farmi cristiana e, sentito che lo desideravo e che, anzi, ero venuta con quell’intenzione, giubilò di gioia. Allora quelle sante Madri con una eroica pazienza mi istruirono e mi fecero conoscere quel Dio che fin da bambina sentivo in cuore senza sapere chi fosse. Ricordo che, vedendo il sole, la luna, le stelle, le bellezze della natura, dicevo fra me: “Chi è mai il Padrone di queste cose belle? E provavo una voglia grande di vederlo, di conoscerlo, di prestargli omaggio. E ora lo conosco». (cfr. La Famiglia Comboniana in preghiera, p. 33).
A) Il Cantico delle creature
Il Comboni poteva contemplare in Africa paesaggi immensi e inediti. Il Garda lo aveva abituato a godere dello spettacolo di una natura, fatta di colori cangianti, profumi intensi, suoni gradevoli. Egli nelle sue prime lettere ai genitori dal continente africano, si fa conoscere come ammiratore attento e narratore puntuale, scorgendo nel creato la grandezza di Dio. Nasce così il “Cantico delle creature” del Comboni, in cui loda il Signore grande e potente!
“Quanto è grande, e potente il Signore!”
“Se m'avessi a cimentare a descrivervi lo spettacolo, che ci tiene occupati per parecchi giorni lungo le sponde del Fiume Bianco fiancheggiate dalle prepotenti selve dei Baghara, tenterei l'impossibile; e credo che il più grande scrittore dei nostri tempi non potrebbe presentare un'idea della bellezza, maestà, ed incantevole aspetto di una vergine e non mai contaminata natura, onde sorridono questi giardini incantati.
Le basse sponde del fiume larghissimo e maestoso, sono coperte d'una imponente e rigogliosa vegetazione, non mai tocca né alterata da mano d'uomo. Da una parte immense boscaglie impenetrabili, e fino ad ora non mai esplorate, formate da gigantesche mimose e verdeggianti nébak (alberi di straordinaria grossezza, altezza, e vecchiezza, perché mai toccati da mano d'uomo) addensandosi insieme, formano una smisurata e variopinta selva incantata, che offre il più sicuro ricovero a immense torme di gazzelle d'antilopi, tigri, leoni, pantere, iene, giraffe, rinoceronti, ed altre fiere silvestri, che si familiarizzano con altre infinite steppe di serpenti d'ogni qualità e grandezza: dall'altra parte altre selve di mimose e tamarindi, ed ambai etc. compariscono vestiti di verbène, e d'una certa erba folta e seguace che formano come delle naturali capanne, ove certo si starebbe al sicuro dalla più diluviante pioggia.
Centinaia di amenissime isole, fertili, grandi, piccole, leggiadramente vestite di verde smalto, l'una più bella dell'altra, offrono da lungi l'aspetto di amenissimi giardini. Queste vaghe isolette sono ombreggiate da una serie di superbe mimose ed acacie, che lasciano appena penetrare qualche raggio del cocente sole africano, e formano per più di 200 miglia un arcipelago, che offre l'aspetto il più incantevole.
Infinite torme di uccelli d'ogni grandezza, varietà, colore; uccelli perfettamente dorati, altri argentati etc. svolazzano modestamente senza alcun timore su e giù pegli alberi, fra l'erba, sulle sponde, sopra le corde della barca. Ibis bianchi e neri, anitre selvatiche, pellicani, abusein, gru reali, aquile d'ogni specie, aghironi, pappagalli, marabuh, abumarcub, ed altri uccelli svolazzano, o passeggiano su e giù per le sponde collo sguardo rivolto al cielo; sì che par che benedicano la benefica Provvidenza di quel Dio che li creò.
Torme di scimmie accorrono al fiume per dissetarsi, saltano su e giù pegli alberi, scherzando lietamente colle più ridicole smorfie proprie della loro natura. Centinaia di antilopi gazzelle van pascolando fra quelle selve, che mai udirono il rimbombo di una schioppettata, o esperimentarono l'astuta arte dei cacciatori di tender loro insidie per ucciderle. Immensi coccodrilli sdraiati sugli isolotti, o sulla riva; smisurati ippopotami sbuffando su dall'acqua, specialmente sulla sera, intronano l'aria dei più furibondi ruggiti, che echeggiando nella foresta, mettono in sulle prime terrore, destano nell'animo l'idea più sublime di Dio.
La nostra barca cammina, si può dire, sulle spalle degli ippopotami; i quali per essere grandi come quattro volte un bue, e numerosi, perché a centinaia, potrebbero affondarci in un istante; ma Dio fa sì, che quegli animali ferocissimi fuggano dinanzi a noi. Quanto è grande, e potente il Signore!” (Al Padre dalla tribù dei Kich, 5 marzo 1858, S 242-246).
B) Il Cantico dell’ordine della Provvidenza e il proposito di combattere da forte
L’opera meravigliosa della creazione è nell’animo di Comboni simbolo della presenza provvidente di Dio in tutti i luoghi. Quest’opera raggiunge il suo vertice nella Risurrezione di Gesù, suprema manifestazione della Provvidenza divina, che per mezzo della Croce penetra anche nel regno della morte.
Il Comboni era convinto che nessuna salvezza, e quindi neppure quella dell’Africa, era possibile senza la Croce. Egli aveva posto la Croce come “un’inevitabile grazia suprema, garanzia di apostolato e di santità”. Gesù, infatti, vince morendo e anche le membra del suo corpo vincono vivendo le vicissitudini della vita con la mentalità del Signore, che oppose al male la debolezza della bontà, generando così rapporti nuovi con gli uomini tutti (Cf Rom 12, 21).
Le parole rivolte al papà, in occasione della morte della mamma, sono un vero “Cantico dell’ordine della Provvidenza”, che egli vedeva realizzarsi nella Storia della Salvezza dell’umanità attraverso il Mistero della Croce, che culmina nella Risurrezione. Così Comboni approfondisce il suo Cantico delle creature, facendosi cantore della sapienza della Croce e invitando a combattere da forti al fianco “del medesimo Cristo che combatte e patisce per noi e con noi; fiancheggiati ed assistiti da sì generoso e potente Capitano e Signore”:
“Volgete uno sguardo all'ordine della Provvidenza, al modo che tiene Iddio verso dei fedeli suoi servi, cui predestina all'eterna beatitudine. La Chiesa di Cristo cominciò sulla terra, crebbe e si propagò tra le stragi e i sacrifizi dei suoi figli, tra le persecuzioni e tra il sangue de' suoi Martiri e Pontefici. Lo stesso suo Capo e Fondatore Gesù Cristo spirò sopra di un infame patibolo, vittima del furore d'una crudele ed empia nazione: i suoi Apostoli subirono la medesima sorte del Divino Maestro.
Tutte le Missioni, ove si diffuse la Fede, furono piantate, s'accrebbero, e giganteggiarono nel mondo tra il furore dei principi, tra i patiboli, e le persecuzioni che distruggevano i credenti. Non si legge di verun santo, che non abbia menato una vita tra le spine, i travagli, e le avversità: delle stesse anime giuste che noi pur conosciamo, una non v'ha che non sia tribolata, afflitta, e disprezzata. Oh la palma del cielo non si può acquistare senza pene, afflizioni e sacrifizi; e quelli che si trovano visitati con questa sorta di favori celesti, possono a buon diritto chiamarsi beati su questa terra, mentre godono della beatitudine de santi, pei quali fu somma delizia il patire gran cose per la gloria di Cristo.
L'umana miseria s'adopera a toglierci la pace del cuore, e la speranza d'una vita migliore; e noi al fianco di Gesù crocifisso che patisce per noi, tripudiamo in mezzo all'avversa fortuna, mantenendo intatta quella pace preziosa, che solo appiè della croce e nel pianto può trovare il vero servo di Dio. Siamo nel campo di battaglia, vi ripeto, e bisogna combattere da forti. A grandi premi e trionfi giungere non si può se non per mezzo di grandi fatiche, travagli e patimenti. Ci sia adunque di sprone e ci consoli la grandezza del premio che ci aspetta nel cielo; ma non ci sgomenti e non ci atterrisca la grandezza e la difficoltà della pugna.
Abbiamo al nostro fianco il medesimo Cristo che combatte e patisce per noi e con noi; e noi fiancheggiati ed assistiti da sì generoso e potente Capitano e Signore, non solamente potremo sostenere con gaudio e costanza quei travagli e patimenti che il Signore ci manda, ma sarà nostro perenne esercizio il chiederne di maggiori, perché solo con questi, e col disprezzo di tutto il mondo, si può fare acquisto dei preziosi allori del Cielo”. (Lettera al padre dalla tribù dei Kich, 20 novembre 1858, S 420- 422; 424-425)
P. Carmelo Casile
Casavatore, Gennaio/Febbraio 2021