Lunedì 8 luglio 2019
Anche a me, come ad altri confratelli comboniani che lavorano in Europa, è stato chiesto di raccontare un’esperienza personale nell’ambito del tema dell’interculturalità. Ho accettato soprattutto perché mi è stato detto di raccontarla in 500 parole. Tutto sommato, mi si chiedevano poche righe sulla mia esperienza personale. Non potevo rifiutare. Nella foto: P. Arlindo Pinto all'entrata della catedrale di Nampula (Mozambico) nel 2017.
TUTTI DIVERSI TUTTI UGUALI
Testimonianza sull’interculturalità
Uno degli slogan che, negli ultimi anni, mi ha fatto maggiormente pensare è proprio questo: “Tutti diversi tutti uguali”. Ho anche scritto su questo tema, negli anni 90, per la nostra rivista comboniana “Além-Mar”.
Sembra che oggi sia più moderno parlare di culture e di interculturalità. Non a caso, i Missionari Comboniani stanno dedicando alla riflessione sull’interculturalità questo 2019.
L’interculturalità è qualcosa di più che un tema teorico e astratto di riflessione. È, secondo me, uno stile di vita. In poche parole, è un arricchirsi l’uno con l’altro e un arricchire l’altro.
Dal 1997 al 2010, è stata questa la mia esperienza di parroco nella parrocchia di Santa Croce, a Nampula, in Mozambico, e di cappellano e docente presso le Facoltà di Diritto e di Educazione e Comunicazione dell’Università Cattolica del Mozambico. Tredici anni di vita interculturale, di intenso dialogo e di arricchimento reciproco.
Nella parrocchia di Santa Croce, ho dovuto confrontarmi con Macuas e Macondes – due etnie mozambicane, due culture con storie molto diverse – con bianchi, neri, meticci, con la cultura urbana e quella rurale, con le più ancestrali tradizioni africane e con le mentalità occidentali post-moderne.
Una vita pastorale interculturale, di continuo dialogo. Dura, perché fatta di successi e sconfitte, ma di dialogo. Ho imparato che il parroco non è quello che comanda, ma quello che ascolta. Non è quello che decide, ma quello che incontra consensi nella complessità delle relazioni personali e delle diverse realtà socioculturali. In realtà, gli altri sono diversi da me, ma sono uguali a me. Nell’Economia della salvezza, gli altri fanno parte della mia stessa Famiglia, della stessa Fraternità universale. È questo il Piano di Dio.
Nella pastorale e nella docenza universitaria, mi sono confrontato con le varie cosmovisioni culturali degli studenti e dei colleghi docenti, con le differenze di fede e di culto – dei cristiani, dei musulmani, dei buddisti e delle religioni tradizionali africane – con la diversità dei valori familiari e sociali, con le differenze nei concetti di tempo e di spazio. L’Università è uno degli areopaghi più privilegiati per l’interculturalità, perché è nell’Università che si realizza il vero processo di insegnamento/apprendimento. L’Università è un autentico laboratorio di interculturalità: nell’universalità del sapere e dei saperi, del saper fare e, anche, del saper stare nella società e nel mondo.
L’interculturalità, quindi, si vive, si sperimenta nella con-vivenza, nel saper stare con l’altro, molto diverso da me – nel modo di vestire, di mangiare, di ragionare, di agire, di celebrare i momenti decisivi della vita umana, dalla nascita alla morte, dai riti di iniziazione al matrimonio e al funerale – nel saper ascoltare e dialogare, nel lasciarsi interrogare, nel lasciarsi trasformare nel proprio modo di essere e di vivere. L’interculturalità è lasciarsi incontrare dall’altro e incontrare l’altro, incontrare l’altra persona che ha costumi molto diversi dai miei.
Oggi mi sento un altro, vedo che sono un altro. Non sono, culturalmente, la stessa persona, non sono lo stesso Arlindo che ero prima di partire per il Mozambico.
Concludendo, l’interculturalità è uno stile di vita che ci arricchisce soltanto.
Arlindo Pinto