Sabato 21 ottobre 2017
Negli USA tutelerà i diritti di chi non può difendersi, poi tornerà nella “sua” Africa. «Lì, se non hai fede, scappi via. Ma per me la “periferia” è la vera dimensione della fede», dice P. Daniele Moschetti. «A Korogocho in Kenya – continua il missionario –, o in Sud Sudan, vedi a occhio nudo la dimensione di povertà, invece nel mondo occidentale ci nascondiamo molto. Recentemente sono stato al santuario di Fatima per confessare pellegrini di tutto il mondo. Ho incontrato drammi personali, divisioni familiari, malattie e tanta, tanta sofferenza, a cui nella nostra società, dove prevale l’immagine di perfezione, non viene data visibilità. Capisci che chi sente dentro di confessarsi, lo fa davvero per chiedere la forza e il coraggio a Qualcuno che è al di là di noi stessi, sapendo che da soli arriviamo poco lontano e allora dobbiamo affidarci».
Avrebbe potuto scegliere la carriera, l’appartamento vicino alla famiglia, il matrimonio, la macchina lussuosa; invece ha scelto gli ultimi, ha scelto di vivere a fianco dell’umanità ferita, che si trova a tutte le latitudini, anche se in alcuni luoghi è più visibile.
«A Korogocho in Kenya, o in Sud Sudan, vedi a occhio nudo la dimensione di povertà, invece nel mondo occidentale ci nascondiamo molto. Recentemente sono stato al santuario di Fatima per confessare pellegrini di tutto il mondo. Ho incontrato drammi personali, divisioni familiari, malattie e tanta, tanta sofferenza, a cui nella nostra società, dove prevale l’immagine di perfezione, non viene data visibilità. Capisci che chi sente dentro di confessarsi, lo fa davvero per chiedere la forza e il coraggio a Qualcuno che è al di là di noi stessi, sapendo che da soli arriviamo poco lontano e allora dobbiamo affidarci».
L’AFRICA NEL CUORE
Padre Daniele Moschetti, missionario comboniano, negli ultimi sei anni provinciale della congregazione comboniana in Sud Sudan, dovrà a breve confrontarsi con un nuovo incarico. Volerà negli Stati Uniti per un’attività di advocacy e lobbying (ovvero di tutela dei diritti di chi non può difendersi, ndr) presso le Nazioni Unite; collaborerà con altri religiosi e con due organizzazioni umanitarie: a New York con Vivat International, e a Washington per il Congresso americano con l’African Faith and Justice Network (Rete per le fede e la giustizia africana, ndr). «Ma non lascerò l’impegno sul campo, mi occuperò dei latino e afro-americani, le fasce di popolazione più emarginate».
Padre Moschetti ha dato la sua disponibilità ai superiori per cinque, sei anni, per poi tornare in Africa, là dove tutto è cominciato: negli anni Novanta come seminarista a Nairobi, in Kenya, poi nel 2001 sempre a Nairobi, per coadiuvare e poi sostituire padre Alex Zanotelli a Korogocho, lo slum diventato famoso perché sorge ai piedi della discarica di Dandora, che esala fumi tossici e dove i bambini rovistano alla ricerca di qualcosa da vendere.
«Da quel momento l’Africa è stata la mia casa. A Korogocho ho visto la miseria, il vero degrado, l’emarginazione, l’abbruttirsi totale dell’uomo e della donna. Se non hai fede, scappi via. Per la delinquenza, per le fogne a cielo aperto e perché non è facile stare accanto ai poveri. Togliamo il velo di romanticismo: i poveri spesso sono malati, sporchi, puzzano. Eppure c’è in loro una disponibilità interiore, un desiderio di cambiamento, di voglia di vita, che non trovi nella nostra realtà. Porto con me i volti e le storie delle persone, la preghiera serale nelle baracche semibuie assieme ai malati terminali di aids. La “periferia” per me è la vera dimensione della fede. Se non ti sporchi le mani e non senti l’odore delle pecore, non puoi capire quanto il Vangelo diventa vero dentro a quelle situazioni. Tutto questo mi ha toccato il cuore, tanto da aver scelto di prendere lì a Korogocho i voti perpetui, accompagnato all’altare da quei poveri, che sono diventati miei amici fraterni e maestri di vita. Il mio impegno con Dio preso davanti a loro, è per me ancora più significativo».
UNA VOCAZIONE COMBATTUTA
Eppure la scelta sacerdotale non è stata indolore, a volte non capita fino in fondo dalla famiglia. Una famiglia che adesso ci accoglie per quest’intervista, che è fiera dell’operato di Daniele, e che lo ha sempre supportato, che fosse in Kenya, Sud Sudan o Palestina. Quella di Daniele Moschetti è stata una vocazione matura, costellata in età giovanile da dubbi, momenti di crisi, e rigetto per chi frequentava la Chiesa solo per tradizione, ma con tanta “ipocrisia”.
Nato a Castiglione Olona, in provincia di Varese, 57 anni fa, un diploma come corrispondente inglese-tedesco, apprendista impiegato a quindici anni e mezzo in un’azienda in espansione dove c’erano tutti i presupposti per una carriera sicura. Accanto a Daniele per tre anni c’è anche una ragazza, che fatica a stare al passo con il fidanzato, diviso tra il desiderio di una famiglia e la ricerca del vero senso della vita.
Galeotto fu il settimanale Famiglia Cristiana che promuoveva un campo estivo di Mani Tese, associazione che si batte per la giustizia sociale, ad Andria, in provincia di Bari. «Lì ho incontrato don Vito Miracapillo. Fidei donum in Brasile ai tempi della dittatura, era stato espulso per aver difeso i diritti dei contadini. Giunto in Italia, don Vito chiese di essere mandato in un quartiere emarginato, tra prostitute, drogati, alcolisti, disabili. Questo mi colpì molto. Quando tornai a casa, sostituii la mia Lancia Prisma con una Cinquecento, cambiando totalmente stile di vita. Poi costituimmo un gruppo di Mani Tese a Gallarate, per sensibilizzare sul Sud del mondo».
GLI INCONTRI CHE TI CAMBIANO
La vocazione comincia a farsi largo, ma ancora non c’è piena chiarezza se sia laica o religiosa. «L’incontro con testimoni autentici dei valori evangelici e il viaggio in Centrafrica, organizzato dai comboniani di Padova e Venegono, sono stati risolutivi per la mia crescita spirituale. Poiché la mia ricerca era sempre più personale, lasciai la ragazza. Piano piano tornai in chiesa e mi riconciliai profondamente con Dio».
Ormai il Signore bussava alla porta di casa Moschetti. «Iniziai il postulato a Firenze, dove ho vissuto uno dei periodi più belli della mia vita: esperienze con i rom, con gli immigrati, così ho cominciato davvero a capire che cosa significa essere missionario». Da lì, Korogocho, Palestina e Sud Sudan. «Io provinciale? Non mi sento pronto». E invece provinciale per sei anni, vivendo prima l’entusiasmo del popolo sud sudanese – che finalmente, dopo quarant’anni di guerra, nel 2011 otteneva la sua indipendenza dal Sudan – e poi il dolore per la riaccensione del conflitto nel 2013, non più tra nord e sud, bensì etnico e interno al sud, tra il presidente Salva Kiir e il vice-presidente Riek Machar, in un’escalation che ha creato una crisi umanitaria tra le più drammatiche di ogni tempo. Così ad aprile 2017 padre Moschetti è partito pellegrino per 1.100 chilometri sulla via di Santiago di Compostela per pregare per quel popolo senza pace.
«In cammino con la bandiera del Sud Sudan, scoprivo anche lì ancora un’umanità dolente. Persone che arrivavano da tutto il mondo, tutte accomunate dalla stessa ricerca di qualcosa di vero e autentico. Nell’incontro con queste persone ho riscoperto ancora una volta che Dio è sempre a fianco di chi lo cerca con il cuore».
Famiglia Cristiana