P. Daniele Moschetti: "Anche nel deserto, fiorisce sempre la speranza!"

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Domenica 23 ottobre 2016
In occasione della Giornata missionaria mondiale, che oggi si celebra, riportiamo la testimonianza diretta di padre Daniele Moschetti [a sinistra nella foto, nella missione di Old Fangak, in Sud Sudan, con il suo confratello P. Christian Carlassare], che già lo scorso anno – durante un suo passaggio in Italia – ci ha offerto un sguardo "Dall’altra parte del Mondo". Questa volta ci parla direttamente da Juba (Sud Sudan), in collegamento skype, in una tarda serata di ottobre, nel bel mezzo della stagione delle piogge, a circa 30° C. Padre Daniele sta chiudendo il suo mandato di superiore provinciale dei Missionari Comboniani in Sud Sudan – lascerà il paese al termine del 2016 – e sta programmando, per il 2017, 850 km di pellegrinaggio a piedi verso Santiago di Compostela. Una camminata di preghiera, meditazione e silenzio per catturare energia nuova da impiegare nella nuova esperienza che lo attende dopo questo lungo periodo in Africa.


P. Daniele Moschetti parla
direttamente da Juba,
in collegamento skype.

 

Giulia Sergiacomo: Qual è in questo momento la situazione in Sud Sudan?

P. Daniele Moschetti: Da quasi tre anni imperversa una guerra civile che ha di fatto devastato il paese. Numerosi gruppi ribelli, anche sconnessi fra di loro, combattono contro l’esercito con l’obiettivo di destabilizzare il governo in carica. Il risultato è la distruzione totale: edifici, strade, scuole. Ma c’è di più: viene destrutturato il cuore del tessuto sociale. Il paese risulta paralizzato dal terrore, indebolito e terribilmente ferito dalla continua perdita di vite umane; l’economia è al collasso e con essa frana ogni premessa di ricostruzione. Un paese in guerra, ancorché popolato dal 70% di giovani sotto i 25 anni, a guardarlo così è un paese senza futuro.

Nella manovra economica varata la scorsa settimana, dei 23 miliardi di dollari messi a budget per il 2017, il 50% - quasi 12 miliardi di dollari - è destinato alle azioni militari e solo il 2-3% è riservato all’educazione e alla sanità. Si tratta di una cifra ridicola, ulteriormente erosa da un sistema corrotto che impoverisce tutto l’impianto sociale. Che futuro possono avere i bambini e i giovani, senza educazione? La prospettiva militare, essere arruolati dall’esercito o dai gruppi ribelli, è l’unica possibile. Non ci sono alternative, se non la fuga. Si calcola che 176.000 persone siano fuggite dal territorio di Juba negli ultimi mesi. E questo segnale, oltre che essere indicazione incontrovertibile della insostenibilità delle condizioni di vita, è un ulteriore presagio negativo del futuro del Paese, che perde ogni possibilità di costruire coesione sociale ed emancipazione culturale. Un’intera nazione viene consegnata nelle mani della gun class, la casta dei signori della guerra.

Essi, pur appartenendo a schieramenti diversi, coltivano comuni interessi economici ed egemonici: la guerra, l’instabilità politica, la corruzione, il degrado sociale sono gli elementi strategici che consentono loro di ampliare il loro potere e di perseguire maggiore ricchezza. E’ così che pochi, spietati personaggi, diventano i padroni del territorio, delle sue ricchezze, del suo patrimonio materiale, naturale e umano. Un patrimonio che diventa merce di scambio, in un mercato mondiale senza scrupoli, che trova complicità in un occidente miope, disposto a tutto pur di “fare affari”. La miopia sta tutta nell’inganno di ignorare il dramma di una forbice fra ricchi e poveri sempre più ampia, quando si è dalla parte più fortunata. Ma proprio l’esplosione del fenomeno migratorio, che si manifesta in forme sempre meno controllabili e in episodi anche fortemente minacciosi, dimostra quanto l’indifferenza cieca perpetuata per decenni, si stia inesorabilmente rivelando un pericoloso boomerang capace di destabilizzare l’intero occidente “emancipato”.

juba: Good Shepherd Peace Center

A Juba (Sud Sudan):
Good Shepherd Peace Center.

 

Detta così, si consolida la prospettiva di un hopeless country, un paese senza speranza...

Assolutamente no. C’è tanta gente che non intende arrendersi e che profonde energia e impegno per costruire un futuro diverso. Ne abbiamo avuto la prova di recente con l’apertura del Good Shepherd Peace Center (Centro della Pace del Buon Pastore). Si tratta di un Centro di formazione umana e spirituale costruito a Kit, una località che dista 15 km dalla città di Juba, nato come attuazione di un progetto che punta alla formazione umana e spirituale della persona, alla promozione della pace e all’avvio di percorsi di trauma healing (superamento dei traumi conseguenti alla guerra, alla violenza, al lutto). Sono tutti elementi indispensabili per avviare un processo di risanamento sociale, percorsi di riconciliazione e integrazione tra etnie diverse.  Questo centro, promosso dall’Associazione dei Superiori Religiosi del Sud Sudan (RSASS), è partito e grazie alla cooperazione di tanti uomini e donne di buona volontà, è diventato realtà: religiosi e laici cattolici e di altre Chiese cristiane, cooperanti delle ONG, fedeli di altre confessioni religiose. Un lavoro ecumenico, un sogno trasformato in realtà, un segno di speranza per tutti, aperto a tutti: cristiani e non, adulti, giovani, bambini... anche ai militari.

Alla vigilia della Giornata missionaria mondiale, cosa suggerisci a noi, tuoi connazionali, perché questo giorno acquisti davvero un senso e non si riduca ad essere una colorata giornata di folclore religioso?

Suggerisco di cogliere l’occasione per riscoprire l’identità missionaria acquisita nel Battesimo, per risvegliare la nostra coscienza missionaria che non può accontentarsi di gioire delle opere missionarie o magari di sostenere i missionari sparsi nel mondo. È molto, molto di più. È coscienza che mi apre alla volontà di Dio, mi richiama al mio impegno quotidiano di moglie, marito, madre, figlio, di insegnante, di impiegato, di avvocato…all’interno della mia famiglia, del mio lavoro, del mio territorio. È coscienza che mi spinge ad uscire dal mio egoismo, ad andare incontro all’altro; mi richiama ad un impegno operoso, coerente e rispettoso nella società, ad un senso di responsabilità nella ricerca del bene comune, alla fiducia operosa di migliorare il mondo che mi circonda con i miei piccoli gesti compiuti insieme ad altri.

Vivere la giornata missionaria è essere disposti a spostare l’attenzione da se stessi all’altro, lasciarsi interpellare dalla solitudine e dal disagio di chi anche vive nel lusso e sembra non aver bisogno di nulla. È sforzarsi di leggere la vita tua e di chi ti vive accanto con gli occhi della fede, con la saggezza del Vangelo che squarcia il velo della superficialità, della mondanità, della esteriorità e ti spinge ad andare oltre, a cercare l’essenziale. Tutto questo è rivoluzione che ringiovanisce la Chiesa, anche concretamente. Perché una comunità credibile, una testimonianza autentica, hanno sui giovani una forza attrattiva molto più efficace di tante omelie, discorsi, lezioni di catechismo e gite fuori porta. I nostri giovani contestano l’ipocrisia, fuggono i maestri, ma non rimangono indifferenti di fronte al bene, cercano esempi di coerenza, amano i testimoni veri.

Il nostro impegno, come persone e come comunità, può davvero dare un contributo importante a questo mondo, può generare un cambiamento. Questa è la forza dell’amore. La missionarietà richiama tutta la Chiesa a non rimanere seduti nella sacramentalizzazione della vita delle parrocchie e dei vari gruppi. La coscienza missionaria spinge ad uscire, ad incontrare, e tentare strade e percorsi nuovi, chiede di rischiare, se necessario di incassare critiche, di suscitare perplessità, spinge a coinvolgersi e a pagare di persona...io penso che solo così la Chiesa in Italia può sopravvivere a questa società.

Se dovessi condividere una esperienza, un episodio importante della tua vita di missionario…

Vi parlerei di Makeo, un uomo incontrato a Korogocho, la baraccopoli di Nairobi, in Kenia dove ho vissuto per 7 anni. In quegli anni, agli inizi del 1990, il leader della comunità era ancora Padre Alex Zanotelli, grande missionario ed amico, ed io ero uno studente di teologia prima di diventare prete. Makeo era un alcolista, viveva di espedienti, nella miseria e nel degrado. Aveva tanti figli e una moglie, era uno scavenger, un raccoglitore di spazzatura nella vicina e più grande discarica di Nairobi, chiamata Dandora. Io ero semplicemente un suo amico. Lui faceva parte della nostra piccola comunità cristiana, quella della discarica. Nella nostra comunità c’erano i poveri, i ladri, le prostitute… Arrivato per me il momento dei Voti perpetui, ho chiesto di poterli vivere a Korogocho, con la gente di là, nella Chiesa di St John che si trova proprio vicino alla grande, tristemente famosa discarica.

Quel giorno io ero già pronto, con indosso la mia veste bianca, di fronte all’altare, insieme ad altri due miei compagni di teologia comboniani. Makeo è arrivato in chiesa ed è subito venuto davanti, particolarmente ubriaco, ma non con le mani vuote. Si è presentato con un sacco di patate, che aveva inizialmente comprato per la sua famiglia, per sfamare i suoi tanti figli, ma ha voluto regalare a me dicendomi, nonostante i fumi dell’alcol: «Daniele questo è tutto quello che ho, ma te lo do con grande affetto e amore. Tu sei un amico e compagno. Ti sono vicino in questa grande festa».  

Quelle patate erano il segno della nostra amicizia, le ho accettate con tanta difficoltà, perché sapevo che avrei privato i bambini del cibo quella sera. Ma sapevo che per Makeo era molto importante mostrarmi il suo grande affetto, la sua amicizia. Era importante ricevere un dono dalle sue mani. Era l’obolo della vedova. Quel giorno ho avuto prova che il Vangelo può essere vissuto, Makeo ha dato tutto ciò che aveva, tutto quanto aveva per vivere. Anche nel deserto, fiorisce sempre la speranza!
Intervista di Giulia Sergiacomo
 

L’interminabile guerra
del Sud Sudan

Il conflitto del Sud Sudan è entrato in una nuova fase e più pericolosa. Mentre non vi sono stati altri nuovi scontri nella capitale, Juba, dal mese della pazzia e della violenza inaudita del mese di luglio, la ribellione lentamente si sta diffondendo in tutto il paese. Sull’onda di questo, migliaia di persone sono fuggite nella vicina Uganda, Sudan ed Etiopia, temendo che ci fosse ancor più spargimento di sangue. È molto difficile essere chiari in ciò che realmente sta succedendo nel paese quando c’è molta ostruzione a far conoscere la verità, nel dare false informazioni o non informare del tutto. In questi giorni è stata data una notizia che “il Servizio di Sicurezza Nazionale ha arrestato e torturato un giornalista per un articolo che criticava il Presidente Salva Kiir per aver portato alla rovina il paese”. Questo report continuava dicendo: “il Sud Sudan sta aumentando la pressione e violenza contro i giornalisti dalla metà del 2013 prima ancora della guerra civile in atto fino ad ora”. In questi tre anni ci sono stati giornalisti uccisi, picchiati e torturati e lasciati feriti per strada o nei cimiteri cittadini. Molti di loro hanno lasciato il paese per motivi di sicurezza con la conseguenza che ci sono sempre meno notizie critiche e veritiere su ciò che sta avvenendo veramente nel più giovane paese al mondo.

Ma a che punto siamo?

Alla radice del conflitto è una lotta politica per il potere tra il presidente Salva Kiir e il suo rivale, l'ex vice presidente Riek Machar. Dopo quasi tre anni di guerra civile, Machar ha accettato di ritornare a Juba nel mese di aprile 2016 per cementare un accordo di pace traballante firmato nell’Agosto 2015 che aveva dato al suo gruppo di opposizione (SPLA-IO) una partecipazione nel governo di unità nazionale. Ma questo accordo è saltato dopo i cinque giorni di duri combattimenti nel mese di luglio 2016 nella capitale Juba, tra le due fazioni militari assurdamente presenti contemporaneamente nella città come da accordo di pace del 2015. La sconfitta fu evidente dell’esercito di protezione dell’opposizione di Machar proprio per lo squilibrio delle forze sul campo ma con molte perdite di soldati da entrambe le parti e di molti civili. Si calcola che più di mille siano stati i morti di quei pochi giorni di conflitto nella capitale, anche se ufficialmente il governo ha riportato 300 morti.

Alla fine del mese di settembre 2016, Machar ha annunciato da Khartoum (Sudan), dove era andato a curarsi dopo un lungo cammino a piedi fuggendo da Juba verso il Congo e poi verso la capitale del Sudan, che avrebbe continuato a combattere e invitando alla lotta armata tutti i cittadini del Sud Sudan contro il governo del presidente Salva Kiir. Allo stesso tempo anche il veterano politico dissidente Lam Akol, ha lanciato anche lui il suo Movimento Nazionale Democratico per combattere il governo in carica ma non necessariamente nella stessa scia e sostegno a Riek Machar.

Il Sud Sudan è un paese ostaggio dei “gun class” come viene considerato da alcuni analisti politici, cioè uomini come Kiir e Machar, etichettati "signori della guerra" settari che hanno utilizzato storicamente la violenza, canalizzandola attraverso appelli al nazionalismo etnico, e dirottando risorse e finanze dello stato per un proprio guadagno personale. Recentemente è stato presentato un report chiamato The SENTRY REPORT ON CORRUPTION IN SOUTH SUDAN, commissionato tra gli altri anche dall’attore George Cloney, da Sentry organizzazione investigativa e altre associazioni americane, che con dati alla mano, foto e documentazioni varie hanno comprovato il coinvolgimento di alcuni personaggi di primo livello che si sono arricchiti durante questo periodo di guerra e di governo. L’investigazione ha toccato proprietà, conti bancari e investimenti all’estero del presidente Kiir, Riek Machar, altri ministri e generali dei due eserciti e di altri gruppi ribelli.

Questo ultimo conflitto sembra vedere vincente il presidente Salva Kiir, emarginando e facendo fuggire da Juba il suo più grande nemico e oppositore Riek Machar e i suoi fedeli e insediando al suo posto Taban Deng Gai, membro dell’opposizione e ex alleato di Riek Machar ma ora diventato vice presidente al posto dello stesso,  sembra con grandi interessi personali finanziari e di potere dei suoi e anche dei membri dell’opposizione che hanno accettato di continuare con il governo attuale in carica .

 L'intenzione del governo è di presentare all’interno e soprattutto all’estero, Taban Deng Gai, come una credibile alternativa a Machar. Taban ha visitato recentemente New York e il governo americano, funzionari delle Nazioni Unite e diversi esponenti di governi occidentali, proprio per convincerli a sostenere lui e il governo di Salva Kiir.

Nella politica interna, il governo cerca di mostrare l'idea che c'è ancora un governo di unità nazionale, in base all'accordo di pace di Agosto 2015 di Addis Abeba, che è stato uno sforzo di mediazione estenuante e frustrante da parte dell'Autorità regionale intergovernativa per lo sviluppo (IGAD). La scelta di Taban Deng da parte del governo in carica sta ponendo un grande dilemma alla comunità internazionale dei donatori e possibili investitori: “si continua a lavorare con questo governo che abbiamo oppure ritorniamo al cavallo di battaglia precedente Riek Machar che era quello che legittimamente aveva firmato gli accordi di pace con Salva Kiir ?”

Questa scelta dipende moltissimo da come si muoverà Riek Machar perché già da Khartoum ha pubblicamente lanciato un grido di lotta armata a tutti i cittadini sud sudanesi contro il governo che lui giudica razzista, di etnia unica, anti democratico e dittatore. In questo momento il Sudan, dove Machar era andato a curarsi, non ha interesse a lungo termine di armare e sostenerlo per una eventuale continuazione della guerra civile nella nuova nazione. Soprattutto perché ora il Sudan sta costruendo nuovi rapporti diplomatici positivi con l’Uganda del suo acerrimo e antico “nemico” Museveni, presidente dell’Uganda e da sempre coinvolto al fianco dell’SPLA nella lunga guerra civile tra Sudan e Sud Sudan degli ultimi 21 anni prima dell’indipendenza del Sud Sudan. Ora Machar è andato recentemente in Sud Africa per ulteriori visite mediche per poter ristabilirsi definitivamente e poter ritornare in Sud Sudan molto presto così afferma. Vuole, a suo dire, far “risuscitare” il trattato di pace del 2015 e il governo di transizione di unità nazionale. Ma sappiamo che ciò che invece conterà sono le azioni militari devastanti per la gente che questi leaders continueranno a gestire segretamente con i loro generali in varie parti del paese al di là della facciata positiva e disponibile al dialogo e magari ritornare tra non molto ad un tavolo di trattativa. Da notare che anche il presidente Salva Kiir sembra malato da tempo e crea molta preoccupazione nel governo e nel paese.

L’appartenenza ad un’etnia piuttosto che all’altra è spesso usata come spiegazione del conflitto del Sud Sudan e delle atrocità commesse contro i civili da entrambe le parti dal Dicembre 2013. Sicuramente le uccisioni di massa dell’etnia Nuer da parte di gruppi paramilitari Dinka nella capitale Juba è stato il grilletto che ha fatto scoppiare questa assurda guerra che era inizialmente una disputa politica, sulla base del partito SPLM e del’opposizione interna a Kiir che è stata elaborata da più fonti ed etnie.

Kiir e Machar da allora con successo hanno mobilitato gruppi chiave delle loro rispettive comunità Dinka e Nuer, i due maggiori gruppi del paese. Ma mentre Kiir è visto dai suoi avversari come colui che promuove interessi etnici ristretti, sostenuti dal gruppo conservatore del Consiglio Dinka degli anziani. Vi è anche il risentimento tra alcuni clan Dinka verso il clan del presidente, che sono visti particolarmente favoriti rispetto a loro. E neanche i Nuer sono un gruppo monolitico. Ci sono leaders Nuer che sono rimasti fedeli all’esercito  SPLA, soprattutto dello Stato di Unità settentrionale vicino alla sua capitale Bentiu che corrisponde ad alcuni clan fedeli ora a Salva Kiir, un esempio lo è Taban Deng Gai e molti altri generali e ministri.

Ci sono quindi divisioni interne molto chiare e devastanti in entrambe le etnie e quindi l’etichetta etnica tende a coprire le dinamiche pericolose che portano alla divisione la stessa etnia, vista esternamente come coesa ma non è così nella realtà.

Infatti il grande problema dell’accordo di pace del 2015 dell'IGAD è stato quello di vedere la lotta esclusivamente come una gara tra Kiir e Machar che era quella che si mostrava più evidente. Ma è stato un errore perché il problema era molto più ampio e bisognava raggiungere un accordo più globale, perché si erano ignorate da sempre le richieste di altri gruppi etnici più piccoli e concorrenti per il potere che dovevano precedere il processo di pace. Ricordiamo che in Sud Sudan ci sono 64 gruppi etnici differenti, con numeri piccoli o grandi.

E in effetti in questo particolare momento si hanno due guerre diverse in corso: quella tra Kiir e l’opposizione di Riek Machar per il potere assoluto nel paese e tanti altri gruppi ribelli più piccoli ma che rappresentano la loro etnia (Shilluk, Bari, Zande, Balanda ecc.)  che combattono il governo al potere, in questo momento Salva Kiir, o chiunque sia al potere in futuro sino a che non vengono ascoltati e coinvolti nel futuro delle loro etnie. Anche se alcuni gruppi della regione Equatoria hanno collaborato con SPLA-IO, sono tutti contrari all'egemonia di entrambe le parti.  Si sta mostrando all’orizzonte la possibilità di una struttura che è più simile a una unione politica piuttosto che un governo unico e centrale. Ci sono altri gruppi come la fazione militare Cobra, che trae il sostegno tra l’etnia Murle. Mentre l'ex leader David Yau Yau è rimasto fedele all’attuale governo, ed è anche vice ministro agli Interni,  il suo vice nel gruppo militare Cobra si sono uniti alla lotta contro, secondo loro, il governo autoritario e regime “tribalista” di Juba. E di tanto in tanto si registrano nuovi gruppi che potrebbero uscire allo scoperto contro il governo al potere ma non necessariamente legati all’oppositore Riek Machar.

Mi è stato riferito che ci sono più di 600 “generali” nel paese che quasi raggiungono come numeri gli eserciti di Stati Uniti d’America e la Russia, ma operando in molto piccole aree del paese. Alcuni generali sono dell’esercito regolare, altri dell’opposizione ma altri hanno la loro milizia privata e etnica. Alcuni passano da una fazione politica all’altra, dipende dagli interessi personali e della loro tribù. La prima fedeltà di questi generali e delle loro truppe comunque è alla loro tribù e al leader di questa. Sono molto forti nelle loro aree ma sono alleate al governo o all’opposizione soltanto per quanto può essere di loro interesse. Il rischio è che il Sud Sudan si potrebbe muovere da una guerra civile in atto all’anarchia totale. E sappiamo come sia più difficile uscir fuori dall’anarchia specialmente se è mischiata con sentimenti tribali forti e violenti. 

Dall’indipendenza di Luglio 2011 in poi, il governo Kiir aveva cooptato a sè molti gruppi ribelli integrandoli nell’esercito nazionale e dando riconoscimenti militari e finanziari a centinaia di generali e soldati vari alcuni dei quali diventando ministri o vice ministri nel governo nazionale o locale dei 10 stati che facevano parte del Sud Sudan. La risorsa che aiutava a fare questo scambio era il petrolio e la sua risorsa finanziaria. Ma ora l’estrazione del petrolio sono ai minimi termini perchè molti dei pozzi petroliferi sono avariati e distrutti dalla guerra di questi tre anni. Quindi ci sono solo due pozzi che continuano ad estrarre e a mandare il greggio attraverso l’oleodotto che passa tramite Khartoum a Port Sudan per l’esportazione.

Wau, seconda città più grande del Sud Sudan, ha sentito l'impatto di questa strategia di retribuzione. E’stata “depurata” dall'esercito SPLA, presumibilmente perchè si riteneva che le etnie Fertit locali sostenevano l’opposizione SPLA-IO. Gruppi per i diritti umani hanno riferito di fosse comuni e le Nazioni Unite hanno stimato 125.000 persone che sono rimaste senza casa dovuti agli scontri e uccisioni del mese di Maggio/Giugno 2016.

Nel complesso, più di un milione di sudanesi del Sud sono ora rifugiati nella regione dell’Africa dell’Est, con più di 200.000 persone nei campi di sfollati interni nelle più grandi città del paese e con circa 174.000 in fuga dall'inizio di luglio 2016 dopo la guerra a Juba. Dati dell'UNHCR hanno avuto un’impennata brusca a fine settembre.

Le persone in fuga dalla violenza in Central Equatoria parlano di villaggi che sono stati attaccati e saccheggiati, le donne vittime di abusi sessuali, e ragazzi che ancora vengono arruolati per entrare in questi gruppi ribelli. Si percepisce secondo la gente che qualcosa può ancora avvenire prima o poi e che possa diventare ancora qualcosa di grave. La gente si sente molto insicura e senza protezione. Molta gente, inclusi soldati e poliziotti, non vengono pagati da molto tempo. Non possono comprare cibo e altro per le proprie famiglie e così prendono con la forza da altri ciò che hanno bisogno. Questo si può anche capire per assurdo ma quando la legge e l’ordine diminuisce a vista d’occhio, saccheggi, stupri e uccisioni crescono a dismisura dovunque.

Un giornalista locale, Jacob Lagu, invita a pensare fortemente che la violenza in Sud Sudan sta polarizzando le comunità etniche. Egli scrive: “La guerra è uno sporco business. Inevitabilmente degrada tutti noi. Fa diminuire la nostra umanità così come disumanizza i nostri nemici e avversari. Siamo tutti bloccati in una narrativa di vittimizzazione. Tutte le parti si credono e sentono fortemente vittima delle ingiustizie. Ogni parte nel conflitto crede che il loro avversario è un aggressore che non vuole pentirsi. Questo stato di cose  che si vive a tutti i livelli è causato dal tribalismo. È ciò che causa l’associazione di una persona con la sua comunità etnica. Ha sviluppato ancora di più un solco profondo tra “noi” e “loro”. Ci ha portato una tragica calamità che ci stiamo infliggendo che è una punizione collettiva”.

La risposta delle Nazioni Unite alla violenza luglio 2016 in cui i suoi caschi blu non sono riusciti a intervenire proteggendo non solo i civili locali ma anche gli internazionali, è stato quello di duri scontri politici e diplomatici con il governo al potere e di proporre un’ulteriore Forza di protezione regionale di altri 4.000 soldati sotto l’egida delle Nazioni Unite. L'RPF (Forza di Protezione Regionale) ha la "pacificazione" di Juba come parte del suo mandato. Ma il governo ha messo in chiaro che non accetterà alcuna forza in grado di offrire una reale interferenza, e il fatto che l’SPLA esercito governativo non ha mostrato alcun rimorso ad uccidere caschi blu (sono morti e stati feriti diversi UN caschi blu in questo paese negli ultimi anni e specialmente negli ultimi scontri) ed è anche un messaggio da riflettere per le nazioni potenziali contributori di truppe che non sarà facile accettare questa particolare presenza in Juba e in Sud Sudan.

Il Sud Sudan, già povero e sottosviluppato, è costretto ancora di più ad un’ulteriore povertà assurda che continua a crescere in tutto il paese per l’effetto di una economia collassata nelle città e anche nelle campagne per via di questo conflitto in atto dovunque ora. E anche per la crisi alimentare e rischio fame per oltre 5 milioni di sud sudanesi in varie parti del paese come riportato da diverso tempo dal WFP (Programma alimentare delle Nazioni Unite). Una possibile ecatombe!

E la gente che ha già vissuto decenni di guerra civile precedentemente stanno sopportando ancora più questa violenza inaudita. Nella guerra non esistono vincitori. Ci sono solo vinti e nel caso del Sud Sudan, è diventato un paese alla deriva totale e all’ultimo posto degli indici mondiali di vita per i propri cittadini pur avendo una potenzialità di sviluppo economico e sociale enorme. Un sogno infranto dopo solo 5 anni dalla sua indipendenza. E ciò che sorprende è che c’è ancora tanta speranza nei cuori dei giovani e delle donne nonostante tutto!

Per molti la situazione può apparire senza speranza ma c’è molta gente di buona volontà e di varie Chiese e religioni che sta offrendo sostegno e assistenza molto concreta alla gente del Sud Sudan cercando di coinvolgerla in questo cammino di ricerca di pace e riconciliazione nonostante una leadership che sta lottando per motivi molto diversi dalla propria gente. Noi tutti, nella Chiesa locale, religiosi, missionari, volontari e laici, stiamo lavorando  insieme alla gente per ristabilire “pockets of peace” luoghi di pace…e da questi cercare insieme di far emergere una pace più ampia e duratura per tutti. Una delle tante buone notizie da questo paese che molti considerano hopeless (senza speranza) è l’apertura recente del centro nazionale GOOD SHEPHERD PEACE CENTER (centro della pace del Buon Pastore) a Kit circa 15 km dalla capitale Juba da parte dell’associazione RSASS (Associazione dei religiosi del Sud Sudan che comprende 47 congregazioni e più di 500 religiosi) in collaborazione con la Chiesa locale e la società civile per offrire alla gente comune e al personale presente in South Sudan, programmi di integrazione delle etnie, riconciliazione, formazione umana e spirituale, costruzione della pace e guarigione dai traumi delle guerre vissute fino ad ora. Sarà un segno di speranza e un supporto alla ricerca insieme di una pace duratura per la gente del Sud Sudan.
P. Daniele Moschetti
Missionario comboniano