Mercoledì 19 novembre 2014
Mons. Giuseppe Franzelli, vescovo della diocesi ugandese di Lira, scrive agli amici dopo le vacanze in Italia, nel mese scorso, dicendo che ha avuto l’impressione di aver visto “una Chiesa eccessivamente preoccupata e assorbita dai propri problemi interni e arroccata in difesa dalle minacce esterne”. Padre Giuseppe, così firma la sua lettera, aggiunge ancora che “per tanti motivi e in modi diversi, siamo tutti un po’ miopi, presbiti e ipovedenti, incapaci di vedere cose e persone nella loro vera luce”. Di seguito pubblichiamo la sua lettera.
“È solo la luce della fede che ci permette di avere uno sguardo nuovo e di uscire incontro agli altri alla scoperta o riscoperta del loro vero volto. Per voi, questo significa uno sguardo nuovo sulla vostra famiglia, comunità parrocchiale, vicini, colleghi, immigrati, cercando di guardare sempre più in là, alla periferia e ai margini della vostra abituale sfera di attenzione ed interessi, andando incontro ai poveri, agli emarginati... Sicuramente i poveri non mancano...”.
Mons. Franzelli.
Carissimi,
Sono rientrato appena una decina di giorni fa dall’Italia, dopo un mese tutto di corsa, fra esercizi spirituali, esami medici, una operazione di cataratta, incontri vari, visite a parenti ed amici e, nella misura in cui è stato possibile, un po’ di riposo. A Lira ho trovato naturalmente un sacco di lavoro arretrato da sbrigare e mi ci sono immerso a pieno ritmo, tanto che la vacanza sembra un ricordo ormai lontano.... La Giornata missionaria mondiale (Gmm), celebrata il 19 ottobre, mi invita però a fermarmi e a riflettere un attimo sul significato vero ed ultimo di tutto ciò che faccio e del lavoro di tutti i missionari sparsi nel mondo. Cosa stiamo facendo, perché e per chi lavoriamo?
Nel suo messaggio per questa giornata, Papa Francesco va dritto al cuore della questione: “ Oggi c’è ancora moltissima gente che non conosce Gesù Cristo. Rimane perciò di grande urgenza la missione ad gentes, a cui tutti i membri della Chiesa sono chiamati a partecipare, in quanto la Chiesa è per sua natura missionaria: la Chiesa è nata in ‘uscita’.” Due punti semplici e chiari: la necessità di conoscere e incontrare Gesù, e il dovere di annunciare il suo vangelo perché tutti lo possano incontrare. Tutta l’attività della Chiesa, anche le iniziative in campo educativo e di sviluppo sociale, tende a questo scopo.
Quanto al primo punto, l’incontro e la conoscenza di Gesù, c’è da dire che, aldilà del grande numero di non cristiani nel mondo, dopo duemila anni Gesù Cristo resta una presenza marginale e saltuaria anche nella vita quotidiana di molti cristiani. Un Gesù appannato e sbiadito, che dice ben poco all’uomo d’oggi e non incide sulle scelte quotidiane della sua vita.
In quanto alla Chiesa missionaria e “in uscita” evocata da Papa Francesco, non vorrei sbagliarmi ma nel mese passato in Italia ho avuto l’impressione di una Chiesa eccessivamente preoccupata e assorbita dai propri problemi interni e arroccata in difesa dalle minacce esterne. Immersa e condizionata da una società che vive male la difficile situazione politica e la crisi economica, afflitta da un senso di confusione e quasi di impotenza che spinge ognuno a rinchiudersi nel proprio guscio, concentrando e limitando l’attenzione al proprio piccolo mondo.
“Periferie, cuore della missione”, ho letto sui manifesti per la Gmm. Mi sa che c’è ancora tanto da fare per vivere la missione fino in fondo, giungendo alle periferie spesso dimenticate di chi è povero, lontano, diverso, immigrato... E questo vale dappertutto, in Italia come in Africa. Abbiamo davvero bisogno di uno sguardo nuovo per vedere, ri-scoprire e incontrare il Signore Gesù nella sua luce vera. Come pure di un nuovo coraggio apostolico per uscire sulle strade della missione ed annunziare e condividere con tutti “la gioia del vangelo”.
Permettetemi a questo proposito una riflessione ed un riferimento personale. Durante le vacanze, mi sono sottoposto all’operazione di cataratta all’occhio destro. Non so descrivervi la sorpresa e l’emozione provata quando, tolta la benda, ho visto le cose intorno a me nei loro colori reali, vivi e smaglianti come non mai: i melograni nell’orto di casa, le immagini nitide della TV, i caratteri sullo schermo del computer... Tutto un mondo nuovo, grazie al nuovo cristallino immesso nel mio occhio.
Penso che spesso, per tanti motivi e in modi diversi, siamo tutti un po’ miopi, presbiti e ipovedenti, incapaci di vedere cose e persone nella loro vera luce.
Più di una volta in Italia ho respirato aria di pessimismo. Molti vedono tutto nero. Incontrando i ragazzi nelle scuole, ho cercato di aprire loro gli occhi e il cuore su un mondo più vasto di quello dei loro piccoli interessi e orizzonti quotidiani. È solo la luce della fede che ci permette di avere uno sguardo nuovo e di uscire incontro agli altri alla scoperta o riscoperta del loro vero volto. Per voi, questo significa uno sguardo nuovo sulla vostra famiglia, comunità parrocchiale, vicini, colleghi, immigrati, cercando di guardare sempre più in là, alla periferia e ai margini della vostra abituale sfera di attenzione ed interessi, andando incontro ai poveri, agli emarginati. Per me, qui in Uganda, vuol dire scorgere aldilà delle ombre di un anno particolarmente difficile, la luce e i colori vivi e belli della Chiesa-Famiglia di Dio nella diocesi di Lira. Riscoprire il desiderio di comunione e la possibilità di rinnovamento nel volto dei miei sacerdoti diocesani che proprio in questi giorni hanno terminato gli esercizi spirituali. E ripartire insieme, per andare oltre.
Pochi giorni fa sono andato a fare le cresime in un villaggio chiamato Entebbe, vicino al Nilo, ai confini della diocesi, in una zona in cui finora nessun vescovo era mai arrivato. Certo, qui in Africa siamo già alla “periferia” del mondo, lontano dai paesi che contano sulla scena internazionale. Sicuramente i poveri non mancano e molti sono ancora lontani, ai margini del progresso. Ma la tentazione e il rischio di fermarci e chiuderci in noi stessi vale anche per noi.
In queste settimane, anche in Uganda si è diffusa la paura dell’ebola. Come misura prudenziale, è stato quindi deciso di sospendere il gesto di pace dandosi la mano durante la messa. Va bene. Purché ci ricordiamo che noi cristiani abbiamo la capacità, anzi l’obbligo di diffondere e condividere con tutti non un virus malefico ma la “gioia del vangelo”. È la sfida lanciata a Kampala nel 1969 da Paolo VI, il primo papa a visitare l’Africa nell’era moderna. Beatificato proprio il giorno della Gmm, a conclusione del sinodo dei vescovi sulla famiglia, il suo invito è ancora attuale: “Africani, siate missionari della vostra gente!” È quanto hanno fatto cinquant’anni prima, nel 1918, David Okelo e Gildo Irwa, i catechisti martiri di Paimol che festeggeremo domani, morti per diffondere il vangelo.
Essere missionari, sia pure in modi diversi, è il dovere di tutti i cristiani. Per me, significa concretamente seguire le orme di San Daniele Comboni. Il 15 settembre scorso a Roma ho avuto il dono di celebrare l’Eucarestia sulla tomba di San Pietro, assieme ad un gruppo di rappresentanti di tutta la famiglia comboniana. In quello stesso giorno, 150 anni prima, inginocchiato in preghiera sulla tomba di Pietro, Comboni ebbe una forte esperienza religiosa che segnò la sua vita. Contemplando il Crocifisso, si sentì investito dall’amore di Cristo, sgorgato come una fiamma dal Suo Cuore. Guardando all’Africa “al puro raggio della Fede... scorse colà una miriade infinita di fratelli appartenenti alla sua stessa famiglia, aventi un comun Padre su in cielo; sentì battere più frequenti i palpiti del suo cuore; e gli parve che una forza divina lo spingesse a quelle terre, per stringere tra le braccia e dare il bacio di pace e di amore a quegl’infelici suoi fratelli”. Dietro lo stile ottocentesco del racconto emerge un’esperienza di vita sempre attuale.
Da quella esperienza prese forma definitiva l’ispirazione del “Piano per la rigenerazione dell’Africa” a cui Comboni consacrò poi tutte le sue energie e il resto della sua vita. Anche oggi le sorgenti della missione sono sempre le stesse: uno sguardo nuovo, quello della fede, e un impeto di amore, quello di Cristo, che spinge a partire e stimola la creatività’ di progettare e portare avanti la missione. Chiediamo insieme nella preghiera lo stesso dono: sguardo di fede e coraggio di amare e uscire incontro all’altro. Non occasionalmente, ma con un “piano” e uno stile di vita. Chiedendoci con onestà: come penso di vivere e portare avanti oggi, in Italia o in Uganda, la missione personale che il Signore mi ha affidato? Un caro saluto a tutti, con l’augurio di “ Buona missione!”
P. Giuseppe Franzelli
Vescovo di Lira (Uganda)