Lunedì 14 aprile 2014
“La missione ci permette di capire la risurrezione come il miracolo della vita che non si lascia distruggere dall’egoismo e dall’ambizione senza limiti, ma che s’impone come gioia che sorge dal cuore divino che portiamo nella fragilità del nostro essere umano. Per questo non c’è missione vera che non implichi morte in noi, morte non come sinonimo di distruzione, ma che si trasforma in opportunità per rinascere finalmente alla vita vera che solo il Signore può offrirci come dono del Padre”. Con queste parole finisce il messaggio pasquale inviato da P. Enrique Sánchez G. a tutti i confratelli comboniani. Di seguito pubblichiamo il messaggio. Buona Pasqua a tutti.
LETTERA DEL SUPERIORE GENERALE
MISSIONE, MORTE E RISURREZIONE
“Le grandi opere di Dio non nascono che appiè del Calvario”
(Scritti 2325)
Mancano pochi giorni alla celebrazione della Pasqua, mistero per eccellenza, che ci fa entrare nella morte che segna la nostra umanità e nella vita senza limiti, dono di Dio, che nella risurrezione del Signore Gesù ci fa vivere nel tempo della speranza e della fede.
Come vivere questo mistero in modo che diventi sorgente di vita in questo tempo di contrasti, in cui l’aridità delle nostre fragilità si confronta con l’invito a vivere la gioia del Vangelo riscoprendo la presenza sempre nuova del Signore che, dal fondo della tomba vuota, ci ricorda che è vivo in mezzo a noi?
Vita e morte, passato e futuro, dolore e gioia, tenebre e luce, guerra e pace, odio e amore. Quanti altri binomi, oltre a questi, contrassegnano la nostra esistenza, il nostro andare umano sulle strade divine che ci portano verso quell’eternità che non riusciamo a definire e ancor meno a pronunciare, con le povere parole del nostro agire quotidiano?
Immersi nella frenetica corsa delle nostre imprese e dei nostri sforzi per cambiare il mondo, ognuno percorre l’intera giornata con la sua visione, i suoi interessi, le sue idee, i suoi programmi. Con la pretesa di possedere tutta la verità, di sapere e di potere tutto e anche più che gli altri.
Viviamo con un’arroganza diventata malattia infettiva, che non fa distinzione fra ricchi e poveri, piccoli e grandi; tutti ci sentiamo in diritto di criticare, segnalare i limiti, i difetti, i peccati degli altri. I criteri della diffidenza, del sospetto, del vantaggio, della competizione cercano d’imporsi e la fiducia, la condivisione, il sostegno dell’altro, la misericordia e il perdono suonano come musica che disturba l’orecchio e non penetra il cuore.
Non è forse questo lo scenario in cui ci troviamo a vivere la missione come proposta antica e sempre nuova che impedisce di perdersi nella visione tragica, pessimista e deprimente dell’oggi della nostra storia? Non è la missione vissuta nel silenzio, nel nascondimento, nell’anonimato che ci fa diventare “pietre nascoste” che parlano di una vita che non fa rumore, che non ha bisogno di pubblicità? Non è questa la missione che ci fa vivere dall’interno il mistero della morte che diventa vita?
Morte che non ha l’ultima parola
Oggi più che mai, ci confrontiamo con situazioni che vanno oltre l’immaginabile, le notizie si trasformano in cronaca gialla, rossa, di tutti i colori.
La violenza e la guerra distruggono intere popolazioni e condannano milioni di persone a fuggire, non si sa più dove, come rifugiati, profughi, migranti o semplicemente prigionieri nei propri paesi. Queste immagini sono diventate coreografie di puntate televisive che fanno, dei drammi umani, degli episodi di un film che si svolge realmente ma che a noi viene presentato come se fosse il vincitore dell’Oscar.
Fortunatamente la missione ci permette di raccontare la storia in un altro modo: diventa impossibile far tacere la testimonianza di quanti hanno visto la distruzione e la morte non attraverso uno schermo ma sul volto e nei corpi di fratelli e sorelle con cui fino a poco tempo prima si lavorava, si celebrava l’Eucaristia, si studiava nelle piccole scuole con i tetti in paglia, si festeggiava la vita e la gioia di essere in questo mondo.
La morte di Cristo non la vediamo più sulla croce di legno. Come missionari abbiamo scoperto, attraverso gli occhi e il dolore del cuore di tanti nostri confratelli, che oggi il Signore sale sulla croce dell’indifferenza dei potenti del nostro tempo, della dimenticanza dei più poveri, dell’esaltazione del potere e dell’idolatria del denaro.
Le rivolte, le proteste, le contestazioni, raccolgono il grido disperato di tanti fratelli e sorelle che non ce la fanno più, che non sanno come fare per sopravvivere in una realtà che sembra negare quelle condizioni minime che servono per chiamare l’esistenza, vita.
La grande tentazione è di cadere nella trappola di pensare che l’ombra della morte si sia impadronita del nostro tempo e si sia imposta come criterio per governare la nostra storia.
Ma quante altre morti scopriamo, più vicine a noi? Non è forse morte, la distruzione delle missioni in cui siamo presenti in Sud Sudan, o la violenza che non finisce, in Centrafrica, dove ci sono ancora tante persone costrette ad abbandonare le loro case per paura di essere uccise?
Non è forse morte, la diminuzione del numero dei missionari nel nostro Istituto? O il dover rinunciare a certe presenze missionarie là dove vediamo chiaramente che potrebbero fare tanto del bene? E non è forse vero che viviamo come un vero e proprio funerale il fatto di dover chiudere delle comunità, perché non abbiamo nessuno da inviare?
Non ci sentiamo forse morire quando ci viene rifiutato il permesso per entrare in un determinato paese o ci è negata la possibilità di continuare il nostro servizio ai poveri, alla Chiesa locale, semplicemente perché i politici di turno vivono di ideologia? Non è forse morte, la mediocrità che ci minaccia ogni volta che cerchiamo di organizzare la nostra vita secondo i nostri interessi personali, quando cerchiamo scuse per giustificare la nostra indisponibilità a partire, a obbedire, ad accettare la missione come un dono che andrebbe accolto senza porre condizioni?
La missione ci introduce e ci accompagna nel mistero della morte, perché quando è vissuta in tutta onestà, non possiamo dire altro che quello che il Signore stesso ha gridato dal profondo del suo spirito: Padre, si compia in me la tua volontà.
San Daniele Comboni lo dice con parole che descrivono lo scenario contemplato nel cuore dell’Africa: “Di fronte a tante afflizioni, fra montagne di croci e di dolori... il cuore del missionario cattolico è rimasto scosso; tuttavia egli non deve per questo perdersi d’animo; la forza, il coraggio e la speranza non possono mai abbandonarlo” (S 5646).
La missione ci introduce nel mistero e nella bellezza della risurrezione
C’è un aldilà della morte che per la missione è il fondamento di tutto, la garanzia di un futuro che si costruisce non sulla base delle nostre risorse, capacità o forze. La missione ci fa toccare con mano e contemplare con i nostri occhi quel progetto sempre attuale di Dio che non si riposa, cercando di costruire un’umanità in cui tutti possiamo scoprirci fratelli e sorelle.
Dio è all’opera e, nonostante il nostro andare per strade che non portano alla vita, Egli non rinuncia al suo sogno di vedere un giorno tutti i suoi figli e figlie radunati in una famiglia, dove non ci sia più bisogno di attaccare etichette di religioni, ideologie, preferenze politiche, razze, culture o colori.
Il Cristo risorto ci ricorda che per Dio il tempo è arrivato, ma che Egli non ha fretta, sarà sempre disposto ad aspettare il nostro arrivo, sperando che, in questo tempo dell’attesa, non vi sia uno spreco di vite sacrificate a causa della nostra incapacità a ragionare meno con la testa e più con il cuore.
La missione ci permette di capire la risurrezione come il miracolo della vita che non si lascia distruggere dall’egoismo e dall’ambizione senza limiti, ma che s’impone come gioia che sorge dal cuore divino che portiamo nella fragilità del nostro essere umano.
Per questo non c’è missione vera che non implichi morte in noi, morte non come sinonimo di distruzione, ma che si trasforma in opportunità per rinascere finalmente alla vita vera che solo il Signore può offrirci come dono del Padre.
“Egli ha portato nel suo corpo i nostri peccati sul legno della croce, perché, non vivendo più per il peccato, conducessimo una vita secondo giustizia. Infatti siamo stati guariti dalle sue piaghe” (1Pt 2,24-25).
Buona Pasqua a tutti.
P. Enrique Sánchez G., mccj
Superiore Generale