Roma, lunedì 10 giugno 2013
I 23 missionari del 45° Corso Comboniano di Rinnovamento sono appena tornati alle loro province per riprendere le attività apostoliche che avevano interrotto per dedicare un periodo di tempo – da gennaio a maggio 2013 – alla formazione personale, alla riflessione, al silenzio e alla convivenza fraterna. P. Saverio Paolillo (foto), uno dei partecipanti, di ritorno in Brasile, ci racconta “le meraviglie che Dio ha compiuto” nella sua vita e nel gruppo, durante questi cinque mesi.
P. Saverio Paolillo
tra due bambini
al Cairo (Egitto).
Carissimi,
Dopo un periodo di vacanze in famiglia, a gennaio 2013 sono partito per Roma per cominciare la prima tappa del Corso Comboniano di Rinnovamento che si è conclusa alla metá di aprile.
Sono stati mesi fecondi, un vero momento di Grazia, durante i quali ho avuto l´opportunitá di fare una forte esperienza di preghiera, di ascolto della Parola di Dio, di revisione della mia vita e di valutazione delle mie opzioni fondamentali. È stato come sedere sul bordo del pozzo di Giacobbe e, alla stregua dell´esperienza della Samaritana, avere un incontro personale con Gesù per rivedere i miei 28 anni di vita consacrata dei quali, 25 dedicati alla Pastorale dei Minori. È stata l´occasione per scavare nel profondo della mia anima, per illuminare tutto quello che rimaneva nascosto, di entrare in contatto sincero con le mie ferite, imparare ad accogliere e accettare i miei limiti come opportunitá di conversione, ringraziare il Signore per tutto quello che ha realizzato servendosi di me e malgrado me e sperimentare in Gesù la condizione di figlio amato dal Padre in ogni circostanza.
Da Roma all’Egitto
Durante la mia permanenza a Roma ho avuto la fortuna di essere testimone oculare di grandi avvenimenti, tra cui l´elezione di Papa Francesco che ci ha subito affascinati e che, con il suo sorriso e con i suoi primi gesti di accoglienza, ha mandato segnali di un rinnovamento per tutta la Chiesa e di speranza per il mondo. La lavanda dei piedi che lui ha voluto realizzare nel carcere minorile l´ultimo Giovedí Santo rappresenta per me non solo un gesto di solidarietá con gli ultimi, ma soprattutto una “approvazione ecclesiale” del lavoro svolto dalla Pastorale dei Minori e di tutti coloro che si dedicano alla difesa e promozione della dignitá umana dei carcerati.
A metà aprile abbiamo cominciato la seconda tappa del corso che è itinerante. È un pellegrinaggio fino alle sorgenti della pienezza della Vita. Siamo passati, per primo, per i luoghi in cui è nato ed è vissuto San Daniele Comboni (Limone sul Garda). E poi abbiamo visitato i posti in cui hanno avuto origine le congregazioni dei Missionari e Missionarie Comboniani (Verona). Questa tappa ci ha fatto riavvicinare alle sorgenti del nostro carisma e a rafforzare il senso di appartenenza alla Famiglia Comboniana che ha come missione l´annuncio del Vangelo del Regno ai piú poveri e abbandonati.
La seconda tappa del nostro pellegrinaggio si è svolta in Egitto dove siamo entrati in contatto con i primi passi che San Daniele Comboni ha fatto per inaugurare il suo lavoro missionario nell´Africa Centrale a partire dal 1857, quando nessuno credeva negli Africani, venduti come schiavi e esportati in navi negriere verso il “Nuovo Mondo” dove diventavano manodopera nelle grandi piantagioni scrivendo, con il loro sudore e sangue, una delle pagine piú sanguinose del popolo africano e una delle piú vergognose della storia della dis-umanitá.
L´Egitto, nel progetto di San Daniele Comboni, era una base di appoggio per la missione in Africa Centrale. Le difficoltá dei missionari europei di adattarsi al clima del Sudan spinse il Comboni a utilizzare l´Egitto come luogo di adattamento prima che i missionari affrontassero i lunghi viaggi per il Nilo e per il deserto per arrivare al cuore dell´Africa. Allo stesso tempo, volendo che sin dall´inizio gli africani fossero protagonisti dell´evangelizzazione e promozione umana dei loro popoli, si serví di alcune congregazioni religiose per accogliere giovani africani perché potessero studiare e diventare collaboratori di questa grande opera.
Durante il nostro pellegrinaggio abbiamo visitato i posti in cui questo progetto ha avuto inizio e abbiamo incontrato le comunitá della Famiglia Comboniana che oggi animano la piccola chiesa locale e offrono un servizio silenzioso, ma efficace, attraverso le scuole dove studiano bambini e adolescenti cristiani e musulmani.
Nelle nostre tappe abbiamo incontrato alcuni leaders cristiani, sia cattolici che copti ortodossi che ci hanno parlato della vita delle piccole comunitá cristiane in un paese quasi prevalentemente islamico e, attraverso, le visite alle moschee e il canto dei muezzin che, dall´alto dei minareti invitavano alla preghiera cinque volte al giorno, abbiamo avuto un rapido e superficiale contatto con la spiritualitá musulmana.
L´incontro con le persone e le loro tradizioni è avvenuto per strada, soprattutto nei mercati. Variopinti e pieni di animazione, essi avvengono in un labirinto di stradine dove si trova di tutto, soprattutto l´artigianato locale. Nonostante le difficoltá di comunicazione (non conosco l´arabo), ho recepito che il popolo egiziano è molto accogliente.
Nella citta del Cairo abbiamo visitato due esperienze interessanti: la prima sulla montagna di Mokattam, dove abita una comunitá di Zabaleen (in arabo: raccoglitori di cartoni e materiali riciclabili) che è responsabile per la raccolta del 90% dell´immondizia della cittá. La regione dove vivono, chiamata anche Zabbaleen, è una “cittá” che ospita migliaia di persone, costruita tra la spazzatura dei piú ricchi, uno scenario che fa impallidire perfino alcune favelas brasiliane. La maggior parte delle persone vive con meno di un dollaro al giorno. Uomini, donne e bambini si dividono il compito di separare l´immondizia organica da tessuti, carta, metalli e plastica. Ci sono associazioni che organizzano il lavoro. Alcuni abitanti creano prodotti come borse, giocattoli, tessuti e tappeti che sono rivenduti in Egitto e all´estero.
L´odore e la presenza della spazzatura sono percepiti in ogni angolo. Il lavoro è diffcile, faticoso e il rischio di contaminazione è molto grande. Il quartiere è il maggior ghetto di cristiani copti. Con tatuaggi di croce sulla mano o sul polso, confermano con orgoglio la loro opzione religiosa. Ma la piú grande sorpresa la si scopre sulla cima della montagna dove sorge un complesso religioso della comunitá copta, costituita da sette chiese e cattedrali scavate nella roccia. Nella principale grotta, trasformta in una grande chiesa a forma di anfiteatro, nel passato funzionava una discarica. Gli abitanti del posto dovettero fare un grande lavoro per ritirare tutta l´immondizia e trasformare la discarica in un bellissimo luogo di preghiera e di pace. È una cosa impressionante per l´imponenza e per la bellezza delle sculture nella stessa pietra che ritraggono le principali scene della vita di Gesù. È come se fosse un immenso vangelo scritto sulla roccia. Per me è stato un segno di speranza. Mi ha fatto toccare con mano la fede dei piccoli e dei poveri che, pur nella durezza della vita, hanno desiderato sentire la presenza concreta di Dio in mezzo a loro. È un capitolo, per me inedito, del Mistero dell´Incarnazione: Dio si fa piccolo e povero e pianta la sua tenda tra i raccoglitori di materiali riciclabili di Mokattan.
Questa storia mi ha ricordato il percorso che le comunitá di San Pietro, immondezzaio di Vitoria dello Spirito Santo (Brasile) fino agli anni ottanta, hanno dovuto fare perché si trasformasse in un luogo in cui la gente potesse vivere con piú dignitá. Fu in quello scenario dantesco che volle recarsi anche Giovanni Paolo II durante la sua visita a Vitória nel 1980. Durante il suo discorso ricordo che Gesù si identifica con i piú poveri e alzó la voce contro tutte le forme di povertá che impediscono alla gente di vivere con dignitá.
L´altra visita l´abbiamo fatta alla comunitá di Sakakini con i profughi sudanesi che, soprattutto negli anni della guerra di indipendenza del Sud Sudan, spinti dalla miseria, si sono rifugiati in Egito alla ricerca di migliori condizioni di vita. Negli ultimi tempi, dopo la proclamazione dell´Indipendenza del Sud Sudan, alcuni stanno rientrando al loro paese, ma, delusi, fanno ritorno in Egitto. La maggior parte di loro riceve un aiuto dall´Agenzia delle Nazioni Unite che si occupa dei rifugiati. Ma si tratta di un contributo insufficiente per sostenere una famiglia. Un gruppo di comboniani mantiene una scuola per i bambini e gli adolescenti sudanesi, dall´asilo fino alle superiori.
Tra le tante altre cose che abbiamo visto, quella piú mi ha colpito è stata la “Cittá dei Morti”. Percorrendo una delle principali arterie del Cairo si passa davanti a un grande cimitero dove, tra le tombe, vivono migliaia di persone che non hanno altre possibilitá. Il cimitero si è trasformato in un quartiere dove funziona perfino un piccolo comercio. Ripresomi da un momento di sconcerto, mi sono accorto che da quelle case costruite tra le tombe o utilizando le stesse tombe si innalzava nel cielo un aquilone. Mi sono subito ricordato dei ragazzi brasiliani che hanno nell´aquilone il loro principale divertimento. Quell´aquilone colorato profetizzava che tra quelle case mischiate con le tombe c´erano bambini con la testa rivolta verso il cielo e con occhi brillanti di sole. Per altri poteva essere una cosa insignificante o un semplice gioco di bambini, uno come tanti altri, ma per me è diventato un segno profetico. Dove solo si vedeva la miseria, apparivano gli aquiloni varipionti, che svolazzavano ognuno per la sua strada, aspettando il giorno in cui avrebbero potuto unirsi a quelli dei bambini brasiliani e di tanti altri ragazzi del mondo per formare un bellissimo arcobaleno. Questa mia visione non è paranoia, ma un´utopia possibile. Basta deporre l´arco della guerra. Basta disarmarrsi perché l´arco della pace, fondato sulla giustizia e sulla solidarietá, si estenda tra il Cielo e la terra, tra Dio e l´Umanitá e in tutta la comunitá umana.
Come ho giá detto in altre opprtunitá, possono apparire molte sfide, ma come l´aquilone solo riesce a prendere il volo quando è collocato contro vento, cosí il peggiore degli nostri ostacoli puó essere un´occasione per fare un passo in piú verso l´alto se tutti restiamo uniti nella voglia di costruire quel mondo nuovo che è alla portata di mano di tutti coloro che ne hanno veramente voglia. La speranza è un sogno ad occhi aperti e con le maniche rimboccate.
In Egitto abbiamo approfittato per rivivere l´esperienza dell´Esodo, facendo memoria del Dio che sente compassione del popolo sfruttato dai faraoni e chiama Mosé perché lo conduca alla Terra Promessa.
La sontuositá delle piramidi e delle altre costruzione dell´antico Egitto, se da una parte ci hanno mostrato la grandezza delle civilizzazioni che hanno popolato queste terre, dall´altra ci hanno fatto immaginare la sofferenza e le dure pene che hanno dovuto sopportare gli schiavi durante la loro costruzione. È stato possibile sentire il dramma degli Ebrei e capire il loro grido che raggiunge e commuove le viscere di Dio convincendolo a coinvolgersi nella loro storia. È stato um peccato non aver potuto raggiungere Il Sinai che attualmente è diventato un posto molto pericoloso per causa di gruppi armati che agiscono come “coioti” e praticano il traffico di esseri umani. Questi, infatti, in cambio di grandi somme di denaro, promettono l´entrata clandestina in Israele di Etiopici, Eritrei e Sudanesi in fuga dalla miseria alla ricerca di migliori condizioni di vita. In realtá queste bande o li abbandonano nel deserto, come avviene al confine tra Il Messico e gli Stati Uniti, o rapiscono i loro clienti per estorcere ingenti somme di denaro dai loro parenti. Un´attenzione speciale merita Suor Azezet, missionaria comboniana, che da alcuni anni lotta contro il traffico umano. Recentemente il suo lavoro è stato riconosciuto dall´ONU. In Egitto abbiamo visto anche che la Primavera Araba, movimento popolare che ha coinvolto vari paesi della regione dal 2010 al 2012 per abbattere governi dittatoriali non ha ancora raggiunto i risultati desiderati.
Israele e la Terra Santa
Terminata la tappa egiziana, ci siamo trasferiti a Israele per visitare la Terra Santa. Subito, durante il tragitto dall´aeroporto di Tel Aviv a Gerusalemme, ci siamo resi conto delle tensioni che ci sono in Israele. Alcuni chilometri dopo l´aeroporto, ci siamo imbattuti in un grande e lungo muro che è stato costruito per separare i territori occupati da Israele da quelli che sono sotto la tutela dell´Autoritá Palestinese. Il principale motivo per giustificare la costruzione di questo muro è sempre stato il discorso della sicurezza, secondo il quale il muro isolerebbe i palestinesi evitando possibili attacchi a Gerusalemme. Il muro di Israele possiede enormi dimensioni, con uma estensione di 721 km, 8 metri di altezza, trincee con 2 metri di profonditá, fili spinati e torri di controllo ogni 300 metri, tutto per essere insormontabile.
In realtá i muri sono due: uno circonda la cittá di Gerusalemme, bloccando il passaggio libero dei palestinesi alla parte occidentale di Gerusalemme; l´altro è stato costruito esternamente, dove Israele ha preteso proteggere le sue colonie che sorgono a macchia di leopardo su tutto il territorio del paese. Nel 2004, il Tribunale Internazionale di Giustizia ha dichiarato l´illegalitá del muro e ha denunciato che la sua costruzione solo serve a separare e isolare 450 mila persone. Oltre a questo, secondo lo stesso Tribunale, alcune parti del muro invadono territori palestinesi. Nonostante queste denunce, le autoritá israeliane, tutte le volte che sono interpellate sulla costruzione del muro, affermano che esso ha portato la diminuzione dei conflitti e degli attentati. Per cui non pretendono demolirlo. Dalla parte palestinese, il muro è diventato un murale su cui diversi artisti di varie parti del mondo esprimono, attraverso l´arte, il loro sdegno.
Nella casa dove eravamo ospiti, nella parte orientale di Gerusalemme, tradizionalmente occupata dai Palestinesi, il muro ha diviso Il cortile e ha separato le famiglie. Una parte dei palestinesi è rimasta da un lato e un´altra parte è rimasta in territorio israeliano. Per andare da una parte all´altra bisogna fare varii chilometri e passar per un “checkpoint”, dove i soldati israeliani effettuano i controlli e lasciano passare solo quelli che hanno la dovuta autorizzazione. Al mattino presto centinaia di palestinesi che lavorano in Gerusalemme fanno una lunga fila e aspettano l´apertura del checkpoint per poter passare. I checkpoints, oltre ad ostacolare gravemente gli spostamenti delle persone e il traffico delle merci, costituiscono una ulteriore causa diretta di violazioni ai diritti umani, di ferimento e di morte di civili innocenti.
Tra i tanti, vorrei ricordare il caso di Radi Alwahash, 18 anni, morto il 29 giugno del 2007 ad un checkpoint tra Gerusalemme e Betlemme, perchè all'ambulanza che lo trasportava (una ambulanza israeliana!) era stato impedita di passare e di raggiungere l'ospedale di destinazione per non meglio identificati "motivi di sicurezza". I checkpoints sono situati non già alle frontiere con Israele, ma piuttosto ben all'interno della Cisgiordania, riducendola ad un insieme di bantustan senza o con pochi e difficoltosi collegamenti tra loro, con l'unico fine di opprimere e di rendere ancora più miserevoli le condizioni di vita dei Palestinesi.
Israele, nonostante le critiche internazionali, continua a costruire case nella parte orientale di Gerusalemme e ad occupare varie regioni del paese con la costruzione di insediamenti abitati da Israeliani che provengono da altri paesi. È vero che c´è Il pericolo degli attentati, ma non si puó trattare un intero popolo alla stregua di terroristi. In questa maniera è impossibile arrivare all´unica soluzione possibile che è la costituzione di due stati con territori continui, perché i territori che dovrebbero fare parte della Palestina vengono occupati da Israele. La tensione è molto alta. In Gerusalemme è molto diverso lo standard di vita tra la parte palestinese e quella israeliana. Questa differença è percettibile su tutto il territorio nazionale. È impressionante, peró, vedere come Israele sia riuscito a trasformare regioni desertiche in bellissimi boschi e piantaggioni con l´uso razionale delle risorse idriche, soprattutto in Galilea. Credo che questa esperienza di Israele dovrebbe servire da parametro per altre regioni aride nel mondo.
La tensione che regna in Israele la si respira, per motivi di intolleranza religiosa, anche tra i cristiani in alcuni “luoghi santi”. Sono rimasto un po´deluso con il clima che si respira nella Basilica del Santo Sepolcro divisa tra varie confessioni cristiane. Ognuna di esse ha il suo spazio e il suo tempo per la celebrazione delle sue liturgie ostentando la scandalosa divisione tra i cristiani. In alcuni momenti sembra di essere nella torre di babele. È difficle costruire la pace quando neanche chi professa lo stesso Dio riesce a convivere pacificamente.
Nonostante queste sfide, l´esperienza è stata molto forte e intensa, perché abbiamo avuto la possibilitá di vedere con i nostri occhi e toccare con le nostre mani i luoghi in cui è iniziata la Storia della Salvezza. È bene percorrere i luoghi dove è passato Gesù per annunciare il Regno di Dio. È forte la tentazione di guardare tutto con l´occhio superficiale del turista. In realtá bisogna concentrarsi per mantenere sempre l´atteggiamento del pellegrino che osserva tutto, ascolta la Parola, prega, interiorizza, rinnova la sua fede per tornare a casa e vivere in maniera ancora piú intensa la sua esperienza di Dio.
Lagrange, famoso studioso della Sacra Scrittura, diceva che la Bibbia è una storia e una geografia della salvezza. È la memoria di un popolo che, a un certo punto della sua storia, soprattutto nell´esperienza della schiavitú, ha incontrato un Dio non piú distante, ma prossimo, viandante, pellegrino, che si è fato solidale con le sue sofferenze e, in Gesù Cristo, ha assunto la condizione umana per mostrare il suo amore e realizzare il suo progetto di salvezza.
Leggere e toccare con mano questa esperienza, camminare sulla terra dove tutto ci è avvenuto, vedere i luoghi e respirare l´atmosfera dove tutto è successo, serve soltanto se aiuta ogni pellegrino a rifare questa stessa esperienza nella sua vita e nella realtá in cui vive quotidianamente.
Il nostro pellegrinaggio in Terra Santa è iniziato in Gerusalemme, perché è li che è avvenuta la Pasqua, l´avvenimento fondamentale della nostra fede. Il mistero di Gesù di Nazareth lo si capisce solo alla luce dell´avvenimento pasquale. Come dice l´apostolo Paolo e gli fa eco Sant´Agostino, senza la Ressurrezione la nostra fede è vana. È stata questa la comprensione delle prime comunitá cristiane che fecero della Pasqua il nucleo del primo annuncio (kerigma) e rilessero tutta la vita di Gesù alla luce di questo Mistero. Partendo da Betfagé, abbiamo percorso tutti i luoghi dove sono avvenuti gli ultimi momenti della vita di Gesù. Abbiamo visitato il cortile del Tempio, dove attualmente sorgono due grandi moschee. Siamo stati al Muro delle Lamentazioni, luogo sacro per i Giudei, perché sono l´ultimo vestigio del Tempio di Gerusalemme. Abbiamo percorso la Via Dolorosa. Siamo entrati nella “stanza di sopra” dove è avvenuta l´Ultima Cena. Abbiamo celebrato l´Eucarestia nel Santo Sepolcro o nella Basilica della Resurrezione come affermano i cristiani ortodossi. Siamo andati al luogo dove Gesù è asceso al Cielo e ci siamo fermati, proprio nel giorno di Pentecoste, nel Cenacolo dove gli apostoli e Maria hanno ricevuto il dono dello Spirito Santo e hanno cominciato la storia delle comunitá cristiane.
La missione di Gesù è un camminare verso Gerusalemme. All´epoca di Gesù, Gerusalemme era il centro dei poteri. Del potere religioso: era li che c´erano Il tempio, l´Arca dell´Alleanza e i Sommi Sacerdoti. Del potere politico: in essa risiedevano il re, il governatore e le altre autoritá. Del potere economico: là si concentravano i proprietari di terra, i commercianti e i funzionari del sistema. Gesù si dirige là per mettere in discussione i meccanismi del potere: se esiste la Galilea è perché esiste Gerusalemme. Se ci sono i poveri è perché esistono sfruttatori che massacrano la gente. Se ci sono situazioni di esclusione è perché la política non è piú l´arte del servizio al bene comune; la cultura dominante è quella che trasforma la persona in un vorace consumatore; l´etica è macchiavellica: il fine giustifica i mezzi; la religione dominante è quella che professa il dio capitale, predica la rassegnazione e diffonde una spiritualitá legalista e formale che mantiene le persone sottomesse con il ricorso alla paura del castigo di Dio. Gerusalemme è Il momento del confronto tra opzioni diverse. Non ci si puó appolaiare sul muro in una presunta neutralitá. Bisogna prendere posizione. Gesù affronta tutto ciò per dire che il suo Regno non è di questo mondo. Il suo progetto ha come punto di partenza un Dio trinitario, cioè, un Dio che è comunione, amore, donazione reciproca e ha come programma tre P: la Parola che libera; il Pane che genera comunione e i Piccoli che vivono in comunitá. È molto differente dal “progetto del demonio” che ha come riferimento “la trinitá maledetta”: l´economia a serviço del capitale finaziario; la politica a servizio del potere e lo spirito predatorio che schiaccia tutto e tutti per fare emergere il proprio ego. “Chi tace acconsente”. Il silenzio è sinonimo di omissione e complicitá. Il conflitto fa parte della missione e deve essere affrontato. Non vale fuggire, come fanno i discepoli di Emmaus. Il Risorto è il Crocifisso. Ma Gesù, al perdonare i suoi aguzzini, ci insegna che il conflitto deve essere vissuto evangelicamente: non c´è spazio per atteggiamenti rancorosi, aggressivi e violenti. Anche la maniera di vivere il conflitto deve impregnarsi d´amore. Gli oppositori e perfino i nemici devono essere evangelicamente amati. Alla base del conflitto non ci puó essere il desiderio di distruggere l´altro, ma la preoccupazione con l´altro, il desiderio di metterlo in guardia sulle sue pratiche che conducono sulla strada della distruzione di se stesso e dell´umanitá.
Il cristiano non è uno che vive sempre all´opposizione. Al contrario, è qualcuno che, avendo incontrato il Dio vivo e vero nella sequela di Gesù Cristo, assume la Buona Novella del Regno e l´annuncia nella sua totalitá, senza tagli o sconti, senza addomesticarla alle logiche delle diplomazie, senza preoccuparsi di scomodare coloro che seguono una mentalitá che non ha niente a che vedere con quella del Dio di Gesù Cristo. Il conflitto, quando è vissuto in questa maniera, è un atto di evangelizzazione.
Dopo la visita a Gerusalemme, siamo andati a Aim Karen dove nacque Giovanni Battista e avvenne l´incontro tra Maria ed Elisabetta. Nell´aria sembra risuonare ancora il canto di allegria e le urla di gioia che le due donne intonarono per esprimere la gratitudine a Dio che le aveva visitate e rese destinatarie della sua predilezione. Il cuore del pellegrino si coinvolge in questa danza e esulta per i prodigi che Dio è capace di realizzare. Il prologo del Mistero dell´Incarnazione ha come protagoniste due donne: una povera adolescente di un villaggio sconosciuto e una vecchia donna sterile. In un´epoca in cui le donne contavano poco, la storia terrena di Gesù inizia con due donne e finisce con le donne, tra cui una ex prostituta, che all´alba della domenica di Pasqua si diressero alla tomba di Gesù e, trovandola vuota, corrono trepidanti di allegria diventando le prime testimoni della Ressurrezione.
La partecipazione effettiva delle donne nella vita di Gesù, soprattutto nel Mistero dell´Incarnazione, non è pura coincidenza. La prima abitazione di Dio sulla terra è stato l´utero di una donna, perché Lui, sin dall´inizio, ha voluto mnifestarsi come un Dio misericordioso (EL RAHUM). Misericordia è un termine che nei Vangeli è attribuito solo a Dio. La palavra significa maternitá e feconditá. A partire dalla sua radice si formano parole che significano utero, seno, viscere, amore, pietá, grazia, cuore, bontá e tenerezza. Il gesto di abbracciare è legato a questo termine. Perfino la parola civetta (raham) significa uccello che ama teneramente i suoi figli. Gli aggettivi buono, compassionevole, amorevole vengono dalla stessa radice. In arabo, lingua sorella, è la stessa parola e indica accarezzare, riscaldare, fare le coccole. Nella parabola, quando il Padre vede il figlio prodigo tornare a casa, sentí misericordia. L´amore toccó il suo cuore e gli diede una forte voglia di abbracciare il figlio. Si usa anche l´espressione “viscere di misericordia”. Lo sentí nelle viscere, cioè nell´intimo. La preoccupazione di Dio verso i piccoli e i sofferenti coinvolge la sua intimitá, contorce le sue viscere. È per questo che nel momento decisivo della storia della salvezza, quando la sua intenzione era mostrare la sua maniera di essere misericordiosa, fece ricorso alle donne, alle viscere materne, che accolgono con allegria la maternitá perché nessuno meglio delle donne sa che cosa vuol dire amare la vita che sboccia dal di dentro di loro e che portano in sé durante tutta la gestazione.
Il giorno successivo siamo andati verso la Galilea. Per me è stato commovente la visita a Nazareth. Nella Basilica dell´Annunciazione si conserva, secondo la tradizione, la casa in cui Maria ricevette l´annuncio dell´Arcangelo Gabriele. Nella grotta impressiona la frase: “Qui Dio si è fatto carne”. Quanto è grande e ineffabile il Mistero dell´Incarnazione. Fu a partire da quell´umile casa, nel ventre di Maria, che Dio entró “anima e corpo” nella storia, mise il suo piede per terra, assunse la nostra condizione umana per rendere piú facile la riscoperta della nostra identitá di figli e figlie amati da Lui. Fu in Nazareth che Gesù visse la quotidianità, arricchendola con il senso autentico della Vita. Venendo al nostro incontro Gesù pose fine ad ogni sforzo disumano e quasi sempre frustrato di “elevarci” a Lui. Egli stesso si è abbassato inaugurando una spiritualitá che parte dal basso, dalla nostra realtá con tutte le sue contraddizioni e limiti. Il Dio misterioso, invisibile trascendente, si è fatto discendente, ha assunto in Gesù un volto umano, si è fatto conoscere, si è reso vicino, prossimo, presente e solidale. Ha strappato da se stesso ogni tipo di mistificazione. Si è scrollato di dosso tutte le interpretazioni ideologiche e le visioni distorte che ne facevano un padre padrone da temere per mantenere le persone soggiogate con la paura e ci ha mostrato il suo volto paterno, premuroso, pieno d´amore e di tenerezza. Fu in Nazaret che, nella sinagoga, pronunciou la seconda Parola chiave “hoje” che segnó definitivamente l´ingresso dell´Eterno nel ritmo del tempo che, a partire da quel momento, non è piú un vagare senza senso verso l´abisso del nulla, mas è diventato un “Kairós”, cioé, un´opportunitá per sperimentare la Grazia del suo amore. Dal “qui” e dall´”oggi” di Gesù la storia di Dio e quella dell´umanitá si sono incrociate e i due hanno cominciato a camminare insieme verso la realizzazione piena del Regno.
A partire da Nazareth abbiamo girato per la Galilea rivivendo i principali avvenimenti della vita di Gesù. Abbiamo riletto il discorso programmatico che Gesù pronunciò nella sinagoga, facendo memoria del suo progetto missionario. Abbiamo visitato i luoghi in cui Gesù si fece prossimo degli ultimi rinnovando la nostra opzione preferenziale per i poveri. Ci siamo fermati a Cafarnaum per vivere la “giornata missionaria di Gesù” divisa tra la condivisione della vita di preghiera della sua comunitá nella sinagoga, la visita alla suocera di Pietro che era ammalata (posizione orizzontale di chi vive l´esperienza della morte) per rimetterla in piedi (posizione verticale di chi vince le resistenze alla luce dello spirito del Risorto) e consacrarla al servizio della comunitá; abbiamo ricordato il contatto con la gente davanti alla porta di casa e l´attenzione verso gli ammalati e, infine, il silenzio della preghiera al sopraggiungere della notte.
Da Cafarnaum siamo partiti in direzione di Tabga, il luogo dove è avvenuta la moltiplicazione dei pani e dei pesci ricordandoci che nell´Eucarestia Gesù dona la sua vita e ci invita a condividere quello che siamo e abbiamo. Abbiamo celebrato l´Eucarestia sulla riva del Mar di Tiberiade, vicino alla roccia dove Gesù Risorto, dopo aver messo per tre volte alla prova l´autenticitá dell´amore di Pietro, gli consegnó il pastorale, ricordandoci che alla base dell´esercizio di ogni ministero ci sono l´amore e lo spirito di servizio. Abbiamo navigato sulle acque del Lago di Tiberiade lasciandoci accarezzare dalla brezza che sembrava portarci la voce del Maestro che chiamava i suoi apostoli. Siamo passati da Cana dove avvennero la festa di nozze e il miracolo dell´acqua trasformata in vino. Abbiamo chiesto di non far mai mancare in ciascuno di noi la gioia e la festa. Siamo saliti sul Monte delle Beatitudini, “luogo teologico” dove Gesù, il nuovo Mosè, mise un punto finale ad ogni forma di legalismo e di formalismo e, al posto di leggi e prescrizioni scritte sulla pietra, propose ai suoi discepoli una maniera di essere impregnata di amore, pace, mansuetudine, mitezza, purezza, misericordia e giustizia. Siamo andati al Tabor dove Gesù, attraverso la Trasfigurazione, riveló ai due apostoli la sua vera identitá, realizzando una trasformazione della sensibilitá dei suoi collaboratori che finalmente si resero conto che Colui con il quale avevano condiviso un tempo della loro vita non era un uomo qualunque, ma il Figlio amato da Dio. Qui ci siamo fermati per un momento prolungato di riflessione personale. Era necessario. La trasfigurazione di Gesù mette in discussione la nostra “desfigurazione”. Dobbiamo riconoscere che viviamo sempre piú “desfigurati’ dall´egoismo e dalla cattiveria che si stanno impossessando del nostro cuore. Stiamo assumendo sempre piú una “figura” che ci allontana dagli altri, che ci rende nemici gli uni degli altri, che ci porta a credere che in questi momenti di crisi l´unica alternativa è sviluppare le unghie predatorie. Invece di dare la vita agli altri, gliela strappiamo. Stiamo assumendo una “figura” contraria a quella che Dio ha impresso in ciascuno di noi. Sul Monte Tabor Gesù si trasfigura, cioè, rivela se stesso e rende piú trasparente la nostra immagine. Siamo figli di Dio nel Figlio amato. Il nostro vero volto è quello di Cristo che si dona fino alle ultime consequenze. La nostra “figura autentica” è quella dell´amore. È questa l´immagine che noi cristiani siamo chiamati a fare trasparire. Perció il monte Tabor è anche il monte della nostra trasfigurazione. Siamo convocati a togliere la maschera, a strappare la corteccia dura dell´egoismo e a fare apparire i tratti originali del Padre, soprattutto la tenerezza e l´attenzione amorevole verso tutti, anche verso i nostri nemici. Senza questo volto perdiamo la nostra credibilitá.
Scesi dal Monte Tabor ci siamo fermati a Tel Dan. Siamo rimasti impressionati con il parco naturale in cui si trovano le sorgenti del Giordano. Sembrava di essere nel Paradiso Terrestre. Qui ci siamo bagnati in quell´acqua che sgorgava soavemente dalle viscere della terra e, all´improvviso, diventava un torrente impetuoso. Giá sulla strada del ritorno a Gerusalemme abbiamo fatto una sosta sul Monte Carmelo per lasciarci contagiare dallo spirito profetico di Elia.
Dopo un giorno di riposo, da Gerusalemme siamo andati in Samaria dove ció che piú mi ha colpito è stato il pozzo di Giacobbe. Fu proprio li che Gesù incontrò la Samaritana. Non ci sono limiti all´azione liberatrice di Gesù. Entra nei territori degli “eretici” e si avvicina a una donna con uma storia infangata dal peccato. Eccoci di fronte a un´icona della metodologia missionaria di Gesù. Il Dio di Gesù Cristo è Il Dio di strada, il Dio sulla strada, che cammina per le vie degli uomini, perfino per le stradine e le viuzze malfamate e va all´incontro di persone che non godono di buona fama. Non fa una predica piena di buoni principi e di veritá astratte. Non realizza un culto, ma parte proprio dalla storia di quella donna. L´ascolta con rispetto, senza sottometterla a domande imbarazzanti. Le dá valore, perché è proprio a lei che chiede l´acqua per porre fine alla sua sete. La comprende. L´ama, creando cosí il terreno perché la Samaritana, entrando dentro di sé, possa scoprire che in fondo al suo cuore Dio, sin dall´inizio, le ha messo una fonte d´acqua viva che è rimasta otturata dal peccato, ma che ora Gesù può riaprire perché essa possa attingere da essa per soddisfare la sua sete di pienezza di vita.
La scoperta che nasce da questo incontro, mediazione tipica della pedagogia della presenza che Gesù utilizza nel suo servizio missionario, fa della Samaritana una donna totalmente rinnovata al punto di sentire una voglia matta di comunicare agli altri l´esperienza fatta perché anch´essi possano sentire quello che lei sta provando. È interessante notare che in Samaria la Samaritana è venerata dai cristiani come Santa Fotina (da Fotos che in Greco vuol dire luce). È la donna che ha portato la luce di Cristo agli altri proprio perché ha permesso che la sua vita fosse illuminata da Cristo. Eccoci di fronte al percorso che ognuno di noi è chiamato a fare per aiutare gli altri. Solo se illuminati da Cristo possiamo essere luce per altri in maniera tale che di luce in luce si crei quella luminositá radiante capace di sconfiggere le tenebre. Il sole è l´insieme delle stelle che nelle tenebre della notte vanno ognuna per la sua strada, aspettando il momento di riunirsi per illuminare il giorno.
Infine, l’ultimo giorno siamo andati a Betlemme. Puó sembrare strano terminare il pellegrinaggio proprio nella cittá che, seguendo una logica piú cronologica, avrebbe dovuto essere una delle prime. Ma, in fondo in fondo, anche se la scelta ha obbedito a esigenze organizzative, quest´ ultimo momento è diventato fortemente significativo. La sfida inizia già al momento di entrare. Per aver accesso alla Basilica della Natività bisogna abbassarsi. Le porte sono strette e basse, perché furono fatte per impedire l´accesso dei cavalli dei predatori. Nel “mondo di Dio che si fa piccolo” solo si entra se ci si fa piccoli. La grotta è di una semplicitá disarmante. Non c´è stato tempo per fermarsi molto vicino alla Stella che segna Il luogo in cui, secondo la tradizione, nacque Gesù, ma è stato sufficiente per chiedere a Gesù Bambino un regalo speciale: il dono della kenosis, cioè, dello svuotamento, dell´abbassamento, della detronizzazione dell´ego, dell´umiltá per lasciare piú spazio al suo amore e partire per la missione con i suoi stessi sentimenti e con i suoi atteggiamenti.
Il tempo a Betlemme è stato breve, ma sufficiente per contemplare un Mistero che ancora ci lascia storditi Come ho giá scritto in altre occasioni, non è facile capire le sue uscite al nostro incontro quando noi fuggiamo continuamente dalla sua presenza. Non è facile comprendere la sua ostinazione nel scendere tra di noi, mentre noi farremmo qualsiasi cosa per essere lasciati in pace. Non è facile capire la sua voglia matta di immergersi nei nostri problemi, mentre noi faremmo di tutto per liberarcene. Non si riesce a capire come Lui sia capace di spogliarsi della sua divinitá mentre noi non riusciamo a scendere dal piedistallo dell´idolatria del nostro ego. Non si riesce ad immaginare come Lui senta la voglia di assumere la fragilitá della natura umana mentre noi non riusciamo a liberarci dalla nostra sete di potere. Non é facile affrontare la sua debolezza mentre noi facciamo di tutto per apparire autosufficienti. Non si capisce la sua ostinazione a farsi bambino mentre noi ci teniamo ad essere grandi. Non si capisce perché si è fatto povero, mentre noi spendiamo un sacco di energie per riempirci di cose inutili e ci ammazziamo di lavoro per possedere il superfluo. Non riusciamo a comprendere il suo amore per noi mentre noi non siamo capaci neanche di amare a noi stessi. Non si capisce la gratuitá del suo amore, mentre noi non riusciamo a rinunciare al nostro tornaconto. Non riusciamo a capire la sua passione per la vita, mentre noi ci inchiniamo al potere della morte. Non riusciamo a capirlo, ma la sua maniera di essere ci affascina. Ci vorrá tempo per comprendere e assimilare pienamente il suo stile, ma desideriamo essere come Lui. Siamo presi dalla stanchezza e dalla delusione, ma rinnoviamo il nostro impegno in difesa della vita e della dignitá umana. La fragilitá di Dio sia la nostra forza.
Dio mi ha suggerito tre parole: speranza, sapienza e fedeltà
Il 29 maggio, penultimo giorno del nostro pellegrinaggio, ritornato a Gerusalemme, ho passato la notte in bianco. È difficile dormire con la testa piena di tutte queste esperienze e di molte altre che, piano piano, riaffioreranno nei prossmi giorni. Vi ho sempre rircordati nelle mie preghiere. Ho con me, nel breviario, una lista di nomi e di gruppi per non dimenticarmi di nessuno di voi. Durante la preghiera Dio mi ha suggerito tre parole: speranza, sapienza e fedeltà. Non possiamo perdere la speranza, perché Dio è sempre fedele alle sue promesse e ci concede, come ha fatto fino ad ora, la sapienza per conoscere ció che piú Gli sta a cuore, prendere la migliore decisione e agire secondo la sua volontá. Anche quando ci siamo sbagliati o abbiamo voluto fare di testa nostra, Lui è sempre stato viicno a noi e ha fatto tante cose belle per mezzo di noi e nonostante noi. A Dio sta a cuore soprattutto che ci prendiamo cura dei piccoli: “Lasciate che i bambini vengano a me, perché ad essi appartiene il Regno di Dio... E abbracciandoli li benediceva” (Mc 10,13-16).
La Chiesa e i cristiani aprano le porte dei loro cuori e delle loro strutture per accogliere e proteggere i bambini, soprattutto i piú poveri e abbandonati. A qualunque prezzo. Non si tratta soltanto di aprire progetti o altre opere asssitenziali, ma soprattutto di interessarsi dei loro problemi, di prendere a cuore le loro necessitá, di vigilare perché i loro diritti siano rispettati, di esigere dalle istituzioni politiche pubbliche in grado di garantire a tutti una vita all´altezza della dignitá della persona. I bambini costituiscono una profezia, perché ci ricordano che l´unica maniera per aver accesso al Regno di Dio è farsi come loro, cioè, pieni di voglia dell´abbraccio paterno, ciecamente fiduciosi e bisognosi del suo affetto, ripieni del desiderio di imitare Il Padre cosi come i piccoli amano identificarsi con Il loro papá, felici di vedere il padre orgoglioso di loro. Ho chiesto in tutto chiesto tempo la speranza, la fedeltá e la sapienza per me e per tutti voi. Non arrendiamoci. Oggi siamo stimolati anche dalla parola forte e chiara di papa Francesco che ci spinge ad andare verso le periferie sociologiche.
Voglio approfittare per ringraziare tutti voi per l´amicizia, l´appoggio e la solidarietá. Vi ho sentiti vicini con la preghiera e l´affetto.
Grazie per esservi presi cura di me in questo tempo sabbatico in cui ho deciso di fermarmi per “lasciarmi rifare” da Colui che sa fare nuove tutte le cose. Un grazie speciale alla mia famiglia e agli amici che mi sono stati accanto, alla congregazione che mi ha dato la possibilitá di fare questo cammino, all´equipe della formazione permanente che ha coordinato il corso e a tutti i confratelli con cui ho condiviso questa esperienza.
Grazie alla coordinatrice e ai collaboratori dei progetti della RETE AICA, alla Cáritas e alla Pastorale dei Minori che, con grande generositá e competenza, hanno continuato il lavoro in Brasile. Grazie ai benefattori che rendono possibile il nostro servizio. Dio benedica ciascuno di voi.
Una delle immagini piú forti che dalla Terra Santa porteró per sempre nel mio cuore, è quella di una piccola scuola di bambini beduini nel deserto. I beduini sono un popolo che vive in una situazione di esclusione. Abituati a vivere come nomadi nel deserto in una marcia continua alla ricerca di acqua e pascoli per i loro greggi, ora sono costretti a vivere in accampamenti provvisori lungo le autostrade perché per loro e per le loro tradizioni non c´è piú posto in Israele. Le fonti d´acqua a cui abbeveravano i loro greggi e i pascoli in cui sfamavano i loro animali sono stati occupati da insediamenti israeliani. Senza la pastorizia, loro principale attivitá, sono condannati alla piú assoluta miseria. L´unica soluzione che è stata loro proposta è quella di rinunciare alla loro cultura e di “urbanizzarsi”. In questo caso i loro giovani devono sottomettersi a due anni di servizio militare. I beduini resistono. Non vogliono perdere le loro tradizioni. È diritto di ogni popolo aver un pezzo di terra e vivere secondo i propri costumi. Per la loro resistenza i beduini pagano un prezzo molto alto. L´accampamento che abbiamo visitato lotta da oltre quattro anni contro quattro ordinanze di sgombero.
Nonostante questa sofferenza, i beduini mantengono il loro spirito di accoglienza. Abbiamo visto la scuola dei loro bambini. È costruita con pneumatici riempiti di terra. È l´unica maniera che è stata trovata per avere una scuola, visto che, per causa delle ordinanze di sgombero, non si puó erigere nessuna struttura in mattoni. Nella scuola studiano 87 bambini e adolescenti. L´autoritá palestinese mette a disposizione i professori. La precarietá della struttura rivela l´ostinazione di un popolo che non si arrende e che capisce che l´educazione è l´unico mezzo per garantire la cittadinanza dei loro figli. Di fronte a questa scuola, monumento alla resistenza del popolo beduino per la difesa dei diritti umani, dovremmo impallidire tutti noi, soprattutto gli studenti che, pur avendo strutture molto migliori, banalizzano gli studi e danneggiano le strutture costruite con i soldi pubblici. I beduini, in un deserto in cui le temperature durante il giorno superano abbondantemente i 40ºC, senza aria condizionata e senza nessuna comoditá, hanno dato prioritá alla scuola e ne hanno fatto un laboratorio di formazione di cittadini che credono che un cervello ben formato e un cuore traboccante di amore autentico siano gli ingredienti necessari per essere persone veramente libere che vivono da protagonisti principali nella costruzione di quel mondo migliore che tutti desideriamo.
Un grazie speciale alla consorella che ci ha fatto vivere questa esperienza e che generosamente condivide la lotta dei beduini e fa la “custodia di questo popolo”. Questo accampamento è una di quelle “periferie sociologiche” di cui noi cristiani dovremmo prenderci cura molto di piú di come ci prendiamo cura dei tradizionali “luoghi santi’.
La lezione che dobbiamo imparare
Mi avvio alla conclusione parziale. Come ho già scritto, con il passare del tempo questo testo si arricchirá di altre esperienze che mi affioreranno con calma nei prossimi mesi. Voglio concludere con un appello. Conosco la sofferenza del popolo di Israele. Siamo stati a visitare il Museo dell´Olocausto (Yad Vashem) in Gerusalemme per fare memoria della tragedia che il nazifascismo e l´antisemitismo hanno provocato ai danni dei Giudei. Le immagini, gli oggetti, le testimonianze e i commenti fanno immergere in una realtá di orrori che fanno impallidire chi ancora mantiene un pizzico di dignitá umana e fanno toccare con mano quanto sia forte il rischio dell´uomo di diventare un mostro. Sono rimasto molto commosso con la sala dei nomi che danno un volto e un´identitá concreta alle vittime per zittire definitivamente chi ancora osa mettere in discussione l´esistenza dell´olocausto.
Ancora piú dura è stata la visita al memoriale dei bambini morti nei campi di concentramento. È una specie di tempio buio, tutto di vetro, illuminato da centinaia di candele che brillano come stelle nella notte, avvolto in un silenzio rotto soltanto da una voce che pronuncia lentamente i nomi dei bambini, al ritmo di una interminabile litania a cui viene voglia di rispondere “presente”. “Presente” per non dimenticare mai piú. “Presente” per non ripetere mai piú questi orrori. “Presente” perché il silenzio e l´omissione di molti in quella e in altre tragedie contro la dignitá umana lascino oggi spazio al coraggio di denunciare e combattere ogni forma di violazione ai diritti umani. Ho avuto i brividi. Mi sembrava di vedere i loro volti e di sentire le loro voci, i loro canti, il loro pianto, gli schiamazzi dei loro giochi e le urla strazianti del loro dolore. Ho provato una sensazione di soffocamento. Mi sono ricordato della testimonianza di Elie Wiesel, oggi uomo di 80 anni, uno dei tanti altri ebrei costretti a vivere l'incubo dei campi di concentramento:
“Un giorno che tornavamo dal lavoro vedemmo tre forche drizzate sul piazzale dell'appello: tre corvi neri. Appello. Le S.S. intorno a noi con le mitragliatrici puntate: la tradizionale cerimonia. Tre condannati incatenati, e fra loro il piccolo pipel, l'angelo dagli occhi tristi.
Le S.S. sembravano più preoccupate. Più inquiete del solito. Impiccare un ragazzo davanti a migliaia di spettatori non era un affare da poco. Il capo del campo lesse il verdetto. Tutti gli occhi erano fissati sul bambino. Era livido, quasi calmo, e si mordeva le labbra. L'ombra della forca lo copriva. Il Lagerkapo si rifiutò questa volta di servire da boia. Tre S.S. lo sostituirono.
I tre condannati salirono insieme sulle loro seggiole. I tre colli vennero introdotti contemporaneamente nei nodi scorsoi.
– Viva la libertà! – gridarono i due adulti.
Il piccolo, lui, taceva.
– Dov'è il Buon Dio? Dov'e? – domandò qualcuno dietro di me.
A un cenno del capo del campo le tre seggiole vennero tolte.
Silenzio assoluto. All'orizzonte il sole tramontava.
Scopritevi! – urlò il capo del campo. La sua voce era rauca. Quanto a noi, noi piangevamo.
– Copritevi!
Poi cominciò la sfilata. I due adulti non vivevano più. La lingua pendula, ingrossata, bluastra. Ma la terza corda non era immobile: anche se lievemente il bambino viveva ancora...
Più di una mezz'ora restò così, a lottare fra la vita e la morte, agonizzando sotto i nostri occhi. E noi dovevamo guardarlo bene in faccia. Era ancora vivo quando gli passai davanti. La lingua era ancora rossa, gli occhi non ancora spenti.
Dietro di me udii il solito uomo domandare:
– Dov'è dunque Dio?
E io sentivo in me una voce che gli rispondeva:
– Dov’è? Eccolo: è appeso lì, a quella forca...
Quella sera la zuppa aveva un sapore di cadavere.” (La Notte)
Alla fine di questo lungo pellegrinaggio si corre il rischio di uscire con la bocca amara. Nella “Terra Santa” sofferenze di ieri e di oggi si intrecciano. Ferite aperte del passato e mai cicatrizzate rischiano di creare altre ferite nel presente. Le vittime di allora possono generare altre vittime nel presente in una spirale di odio e di violenza interminabile che può coinvolgere tutti noi. C’è chi ci fa poco caso perché magari si limita a visitare più o meno frettolosamente i “luoghi santi”. Ma non possiamo restare indifferenti alle persone. La Terra Santa, per noi cristiani, è sicuramente un luogo significativo. È importante preservare i luoghi in cui la storia umana si è intrecciata con quella di Dio trasformandosi in Storia della Salvezza. Ma, oltre alla Custodia dei Luoghi Santi, bisogna custodire le persone, preservare la loro vita, impegnarsi perché Ebrei, Cristiani e Musulmani possano vivere in pace nel rispetto reciproco. La persona è il luogo che, per eccellenza Dio ha scelto como tempio della sua presenza. Dio è presente soprattuto laddove la vita è massacrata e violata. Anche se nel momento del dolore si ha l´impressione che Dio sia assente, Lui è lí, accanto a chi soffre. Chi manca all´appello siamo noi. Gli assenti sono coloro che, per comodismo o per indifferenza, restamo muti e insensibili di fronte al dolore degli altri. Dio “è reso assente e indifferente” proprio dalle persone che dovrebbero rendere evidente e efficace la sua presenza attraverso la denuncia dei sorprusi e la solidarietá con le vittime.
La persecuzione sofferta dagli Ebrei lungo la storia merita la nostra solidarietá e la nostra richiesta di perdono per quello che non abbiamo fatto per impedirlo. Il popolo di Israele ha diritto alla sua terra. Ma anche i Palestinei e Beduini hanno questo stesso diritto. Nessuno puó garantirsi un diritto a scapito dei diritti degli altri, approfittandosi di una evidente sproporzione di forza e di mezzi. Bisogna mettere fine alla guerra. Le vittime di ieri non possono trasformarsi negli aggressori di oggi. La lezione che dobbiamo imparare dalla sofferenza degli Ebrei è che mai più si ripeta con nessun´altro popolo del mondo. È necessario, quindi, costruire un percorso che guarisca le ferite e promuova il dialogo, il rispetto reciproco e la garanzia di condizioni degne per tutti. In questo percorso tutti devono darsi le mani. É bello vedere che ci sono giá Ebrei, Cristiani e Musulmani che hanno cominciato a camminare insieme dimostrando che è possibile una buona convivenza.
Uno dei segni di accoglienza nella Terra Santa è il dono di una mandorla, simbolo biblico della fedeltá di Dio. Forse è per questo che nei confetti che si distribuiscono nel giorno del matrimonio ci sia una mandorla. Ce ne ha parlato il vescovo di Nazaret. Il fiore del mandorlo è uno dei primi a fiorire dopo il rigore dell´inverno, come una sentinella che annuncia l´arrivo della primavera. L´”inverno” passerá perché Dio ha deciso che la Vita deve sbocciare. Attraverso il profeta Geremia (1,11-16), Dio, con il simbolo dell´albero del mandorlo in fiore, dice al popolo che, nonostante i suoi errori, Lui è disposto a ricominciare tutto di nuovo perché è fedele alla Sua Parola. Basta che il popolo si converta. Spero che la primavera della pace possa fiorire anche in questa terra bellissima. Il Dio dei nostri padri, che sono comuni ai Cristiani, agli Ebrei e ai Musulmani, tocchi il cuore di tutti, perché deposte le armi e abbattuti i muri fisici e ideologici, possa risplendere su tutti l´arcobaleno della pace.
Un forte abbraccio
Dio dica bene di tutti noi
P. Saverio Paolillo, mccj
Lista dei partecipanti al Corso Comboniano di Rinnovamento - 2013, a Roma,
con l’indicazione della provincia comboniana in cui il missionario stava lavorando:
Fr. Baldo Guerrino (KE)
Fr. Enríquez Sánchez David (M)
Fr. Fregonese Gino Angelo (I)
P. Aguiñaga Pantoja Guillermo (M)
P. Andrés Miguel Pedro (E)
P. Cavalieri Giuseppe (BS)
P. Estrada Santoyo Gabriel (M)
P. Franco Lorenzo Conrado (E)
P. Garbagnati Alessandro (I)
P. Goffredo Donato (LP)
P. Guirao Casanova Antonio (E)
P. Joaquim Pinto da Fonseca (P)
P. José Francisco de Matos Dias (P)
P. Mazzon Renato (I)
P. Munguía Granados Francisco (KE)
P. Paoli Paolo (ET)
P. Paolillo Saverio (BS)
P. Pérez González Mariano (RSA)
P. Sandoval Luiz Dutra da Luz (BS)
P. Tapia Bustamante Jorge Hernán (PE)
P. Verdoscia Luciano (EG)
P. Wilkinson Patrick Michael (LP)
P. Woldai Agostino Tesfai (ER)