“Coraggio per il presente e soprattutto per l’avvenire”
Carissimi confratelli,
Vengo a voi con questa lettera, che non ha nessuna pretesa, se non quella di condividere ciò che sento personalmente e ciò che ho ascoltato da voi negli incontri e contatti avuti.
Scrivo anche mosso da sentimenti di riconoscenza verso il Signore per quello che la nostra Famiglia Comboniana è e fa.
Scrivo per interrogarci con fiducioso ottimismo, pur senza sottovalutare i problemi che toccano anche la nostra vita missionaria e religiosa.
E sempre con ottimismo e sentimenti di ringraziamento, ci mettiamo in cammino insieme verso l’Assemblea Intercapitolare, chiedendo a Dio che l’incontro del prossimo settembre sia tempo di grazia per l’Istituto e la missione.
Con l’ottimismo di Comboni
Scrivo ricordando alcuni sentimenti di Comboni presenti nei suoi scritti. Sono sentimenti che dobbiamo apprezzare, imitare e vivere.
Sono i sentimenti di ringraziamento per i suoi missionari e missionarie, e di stima per il loro lavoro. Comboni è orgoglioso dei suoi collaboratori e contento delle loro opere: “Ho gran consolazione nello scorgere tutti i Missionari e tutte le Suore sempre allegri e contenti e disposti a sempre più patire e morire. Essi ed esse parlano di fame, di sete, di malattie, di morte, come di cose belle. Sono convinto che in fatto di abnegazione e spirito di sacrificio, nessuna missione ha missionari così solidi come la mia” (S 6751).
Comboni è anche fiducioso in Dio. Guarda al futuro con ottimismo, convinto che l’opera che ha nelle mani è voluta da Dio. Scrive sin dall’inizio della sua missione, nel 1866: “Confidenza in Dio tutta. Quello che so di certo è che il Piano è volontà di Dio. Dio lo vuole per preparare altre opere di sua gloria: quello che so di certo ancora è che fra gli ostacoli che incontrerò, v'è pure la circostanza dei tempi difficili. (…) Quello ancora che è certo è che Dio mi ha dato un’illimitata confidenza in lui, che non mi allontanerò dall'impresa per verun ostacolo, e che certo incomincerà fra non molti anni un'era novella di salute per l'Africa Centrale” (S 1390).
Questi sentimenti di ottimismo di Comboni devono accompa-gnare le nostre valutazioni e programmazioni durante l’Assemblea Intercapitolare.
Col primo amore nel cuore
Il nostro Istituto ha scritto pagine di grazie, di sacrificio e di donazione nel libro della storia della missione. Il passato dell’Istituto è orgoglio di Dio e di Comboni. Dio è contento del nostro Istituto, ma ha anche qualcosa da suggerirci. Possiamo usare, simbolicamente, alcune parole dell’Apocalisse per descriverci, per dire che Dio ha benedetto l’operato dell’Istituto e che, al tempo stesso, ha qualcosa da rimproverarci: “Conosco le tue opere dice il Signore. Conosco la tua fatica e la tua costanza. Sei costante e hai molto sopportato per il mio nome, senza stancarti. Ho però da rimproverarti che hai abbandonato il tuo amore di prima. Ricorda dunque da dove sei caduto, ravvediti e compi le opere di prima” (Ap 2,2-5).
Il Signore ci sta dicendo che è bene ritornare a quella forza originaria, a quell’amore di una volta che ha sostenuto l’Istituto nei momenti più difficili. L’amore e la donazione a Dio e alla Sua missione.
Iniziamo, allora, la nostra riflessione proprio con l’invito del Signore: vedere con serenità le nostre difficoltà e debolezze e, con fede, proporre risposte di buona volontà e fedeltà al carisma comboniano.
DIFFICOLTÀ E PERICOLI
Il pericolo esiste sempre ed è facile che la zizzania cresca anche nel nostro campo. “Vigilate”, ci dice il Signore. Con realismo e senza perdere l’ottimismo, vediamo insieme alcuni tipi di quella zizzania che minaccia di mettere radici nel campo della nostra famiglia missionaria. O, usando termini più attuali, esaminiamo alcuni virus sempre in agguato, pronti ad attaccare la nostra missione.
1. Spiritualità insufficiente
È facile cadere nella trappola dell’ateismo, cioè lavorare senza Dio o con una spiritualità poco profonda (cfr. AC ’03, 22). È facile costruire sulla sabbia, col pericolo che tutto venga spazzato via dal primo vento (cfr. Mt 7,24-27). Comboni ci dice, anche, che è facile “essere persone precipitose nell'operare, senza testa e senza spirito” (S 4260).
Ricordiamo un episodio significativo, a questo riguardo, nel Vangelo di Marco: “Gli apostoli si riunirono attorno a Gesù e gli riferirono tutto quello che avevano fatto e insegnato. Ed egli disse loro: ‘Venite ora in disparte, in un luogo solitario, e riposatevi un poco’. Difatti, era tanta la gente che andava e veniva, che essi non avevano neppure il tempo di mangiare” (Mc 6,31).
Forse, anche per noi, quell’attività frenetica ci ha portato a non aver tempo per fermarci, riflettere e ossigenarci spiritualmente e teologicamente per una missione più evangelica e più incisiva. La preghiera è la prima attività del missionario. La preghiera è mettere Dio al centro della nostra vita e del nostro apostolato.
Pregare e meditare la parola di Dio significa permettere che il nostro cuore sia evangelizzato, per poi essere persone evangelizzanti.
2. Isolamento dalla vita dell’Istituto
Gli individualismi ed i personalismi (cfr. AC ’03, 74.3) indeboliscono la vita dell’Istituto e tradiscono i valori della consacrazione religiosa. Il giorno dei voti ci siamo consacrati a Dio in una comunità, con una comunità. Ma è estremamente facile dimenticare le promesse fatte a Dio ed agli uomini.
Gli individualismi vanno anche contro quel desiderio di Daniele Comboni, che ci voleva insieme in un cenacolo missio-nario di fratellanza. “Splendere insieme, riscaldare insieme, rivelare insieme, evangelizzare insieme” era il sogno di Com-boni. Insieme, per Comboni, vuol dire non gruppo di persone, ma famiglia di fratelli e sorelle che vivono per lo stesso amore: la missio Dei (cfr. AC ’03, 74.4).
Il cenacolo (cfr. AC ’03, 35.3), chiaramente, non è un gruppo che sta sempre necessariamente insieme fisicamente, ma una famiglia apostolica che ama la missione con lo stesso cuore e lo stesso entusiasmo.
3. Resistenza al rinnovamento
Rinnovarsi è grazia per la missione (cfr. AC ’03, 51). La formazione permanente è amare la missione. Un missionario stanco, non rinnovato ed arretrato fa ingiustizia alla missione e al popolo di Dio.
Il giorno dello Shabbat era giorno di intimità. Non era il giorno in cui non si faceva niente; era il giorno in cui uno aveva i suoi cari per sé, era il giorno di comunione intima con Dio nella preghiera.
Un tempo sabbatico ben programmato e ben vissuto signi-fica fare spazio per la propria crescita spirituale, per l’intimità con Dio, con i fratelli, con la missione. È anche un tempo propizio per guarire dalle ferite causate, nel tempo, dal lavo-ro.
4. Complesso messianico
L’onnipotenza ed onnipresenza sono caratteristiche di Dio e non nostre. Noi dobbiamo calcolare le forze e riqualificare le presenze. Anche il tempo delle grandi opere monumentali è finito. C’è anche da dire che, forse, dedicarsi troppo alle opere è incorrere nel pericolo di poca attenzione alle persone.
Le grandi opere, anche necessarie nel passato, devono la-sciare spazio a forme più flessibili, più necessarie e più accettabili, in mezzo alle nuove povertà e alle nuove emergenze. Questo implica l’esplorazione di nuovi modelli e spazi di diaconia, guidati dal primato della collaborazione con la Chiesa locale e dalle vere esigenze della gente, con nuove forme di risposta alle emergenze in ogni campo.
5. Complesso culturale
“Ci ritroviamo in una nuova geografia vocazionale e sentiamo che con essa arriva il dono dell’interculturalità” (AC ’03, 17). La RV 162.1 ci ricorda anche che la ricchezza più grande dell’Istituto sono le persone. Proprio perché di questo siamo convinti e in questo senso si vuol operare, non possiamo esimerci dal dovere di denunciare alcune distorsioni che occorrono tuttora in questo campo e che, per comodità, sintetizziamo nel termine “complesso della cultura”.
Senza dubbio, sbagli ve ne sono stati e ve ne sono ancora nelle nostre comunità. Vi sono confratelli, però, che si abbandonano troppo facilmente a dietrologie e vittimismi. Il passato diventa campo di scontro e recriminazioni, se non anche, a volte, una memoria da usare “contro”. Ciò genera chiusura reciproca e ostilità; in tale clima, il riferimento alla propria cultura, allora, viene usato non come momento per costruire e arricchirsi reciprocamente, quanto piuttosto per recriminare diritti, spazi di responsabilità o incarichi e giustificare atteggiamenti a volte discutibili. Dobbiamo preoccuparci (AC ’03, 74.7), perché tutto ciò non aiuta a radicare il carisma nella cultura né a far appartenere la cultura al carisma. Non si crea, cioè, identificazione e senso di appartenenza.
È un campo da analizzare con cura per favorire e valorizzare l’attenzione alla persona e alla sua identità culturale, la bellezza e l’arricchimento della creatività dei nuovi confratelli (cfr. AC ’03, 18). È importante, allo stesso tempo, evidenziare anche la “zizzania” seminata da chi, in vari modi, vorrebbe usare la cultura per non mettersi in discussione o, peggio, per poter fare i propri comodi.
La cultura “santificata” è segno di altri malesseri che vanno individuati e curati. Il “preziosismo culturale”, poi, è un limite alla risposta-impegno vocazionale della persona verso Dio e la Missione.
6. Tendenza alla missione facile
C’è uno specifico comboniano: la missione in prima linea, tra i più poveri. È ancora triste notare la tendenza a fuggire dalla missione difficile e bisognosa. Si nota anche una fuga da certe zone difficili, specialmente in Africa, pensando ad una missione più facile (cfr. AC ’03, 36-37).
Tornare alla missione difficile e di sacrificio è vivere il carisma comboniano.
Missione è anche fedeltà al posto e fedeltà al tempo. Con troppa facilità si abbandona il posto di lavoro per periodi prolungati e non giustificabili. Si nota anche una poca disponibilità ad andare dove si è mandati o dove c’è veramente bisogno. Il dialogo falso porta sempre a scegliersi il posto di missione e ad essere poco disponibili per essere mandati dove si pensa ci sia veramente bisogno. Scegliersi “la missione” non sempre è un diritto. Potrebbe essere anche segno di comodità personale in nome di un’interpretazione egoista dell’attenzione alla persona.
7. Debolezza nell’obbedienza
È stato notato che negli Atti Capitolari 2003 la parola obbe-dienza non appare. Ciò nonostante tutto il tono dei documenti parla di obbedienza evangelica: obbedienza a Dio, obbedienza alla missione, obbedienza alla comunità, obbedienza alla propria vocazione, obbedienza ai poveri, obbedienza ai superiori e obbedienza all’obbedienza.
Oggi, a chi esercita il ministero dell’autorità, è chiesto un servizio pesante e scomodo. Per tale ragione chi serve nell’autorità ha bisogno della creatività, cooperazione e responsabilità da parte di tutti.
In altre parole, abbiamo bisogno di crescere tutti nello spirito di obbedienza, comunione e senso di appartenenza alla provincia o delegazione, all’Istituto e alla missione. Siamo tutti chiamati a vivere l’obbedienza in un modo concreto e maturo, evitando attitudini di individualismo, personalismi o autosufficienza, a volte con l’unico proposito di “castigare il superiore”.
Il grado di maturità di un consacrato si può vedere nella sua capacità di obbedienza, di comunione e collaborazione con i confratelli e con tutta la comunità. Obbedire è donarsi per il bene di tutti. Il contrario dell’obbedienza non è la disobbedienza, ma è mancanza di fiducia, di donazione, di re-sponsabilità. È mancanza di maturità vocazionale e, soprattutto, mancanza di presenza nel cenacolo di apostoli.
8. Povertà un po’ comoda
Stile di vita povero e vicinanza ai poveri sono i temi più sottolineati negli Atti Capitolari (cfr. AC ’03, 34-36). Il nostro essere consacrati fa nostra la scelta fatta da Cristo, scelta di solidarietà, disponibilità, provvidenza e vicinanza agli ultimi e dimenticati. Il nostro annuncio, non dobbiamo dimenticarlo, si svolge in un mondo concreto, lacerato da divisioni; in un mondo dove l’abisso tra ricchi e poveri si fa sempre più profondo.
È quindi vitale interrogarci sulla nostra povertà, sul nostro stile di vita, cercando di evitare quel modello di fare missione che ci fa gestire molti soldi, da cui è difficile restare completamente liberi.
Per coerenza al voto di povertà ed al nostro carisma, dobbiamo anche restare vigilanti su un certo spirito borghese e di consumismo, che la società di oggi ci propone continuamente.
Uno stile di vita che poi si ritorce sulla disponibilità a lasciare sicurezze ed abitudini, a prendere il largo e andare in qualsiasi missione. Uno stile di vita che ci mantiene nel rischio della contraddizione di vivere tra poveri con la sicurezza dei ricchi.
PRIORITÀ – URGENZE – RISPOSTE
Presentiamo alcune urgenze e priorità sentite dal XVI Capitolo Generale e dal Consiglio Generale. Sono priorità sentite anche a livello provinciale e di delegazione e continentale. Le priorità possono portare a visioni e proposte che vorremmo esaminare insieme. Le priorità manifestano desiderio di rinnovamento, di rinascita. È chiaro che rinnovare non significa aggiustare o mettere pezze nuove a vestiti vecchi. Ogni rinnovamento, ogni rinascita domanda la rottura.
“Rottura: questa è una parola che carica di ansia chi è custode della normalità, dello status quo, perché c’è una errata equiparazione tra rompere e distruggere. Rottura non è per la non continuità, ma ricerca di un piano diverso di attuazione: capacità di rottura significa capacità di far nascere” (Testimoni n. 12, 2004). In altre parole: non tagliare le radici alla pianta, ma potarla, per avere frutti più abbondanti.
Proponiamo alcuni suggerimenti su urgenze e priorità che riteniamo importanti con la sola intenzione di favorire la riflessione nel cammino di ogni provincia o delegazione e continente.
9. Lettura sapienziale
È tempo per una lettura sapienziale del cammino di questi anni. Per questo è prioritario tornare alla parola di Dio, ritornare al Vangelo e alla Regola di Vita (cfr. AC ’03, 52.1).
I problemi e le sfide sono troppo grandi perché la risposta si possa trovare solamente in una valutazione, in una lettura che parta esclusivamente da un esame sociologico, psicologico e umano. Dobbiamo prenderci una sosta, in compagnia del Vangelo, che ci consenta di andare più in profondità.
Tutti gli Istituti hanno fatto letture e tentato rinnovamenti e aggiornamenti. Tutti hanno fatto programmi e riscritto regole, redattato documenti per tutti i settori. E, tuttavia, viviamo in un momento di insicurezza e disagio: le norme e i Capitoli Generali devono essere assimilati di più. Bisogna andare più in profondità: una Regola di Vita o un Capitolo Generale non si assimilano se non si assimila il Vangelo. Il passaggio non è dalla Regola o dal Capitolo Generale al Vangelo, ma il contrario.
10. Riqualificazione spirituale
Tutti desideriamo rimettere Dio al centro della vita religiosa, perché la vita religiosa dia visibilità al Vangelo. Tutti desideriamo rigenerarci, attingendo alla parola di Dio ed alla vera tradizione teologica e spirituale. L’apostolo vero cerca una spiritualità che crea brama di santità: la vera santità che nasce dalla missione e si trasforma in dono per la missione (cfr. AC ’03, 54.1).
È chiaro che molte cose, pur avendo avuto un passato glorioso, sono arrivate al capolinea e quindi dobbiamo senz’altro entrare in fase di rigenerazione della nostra spiritualità: scegliere Cristo e il Vangelo, come unica ragione di vita e di “servizio” apostolico. Dio vuole riportare a sé questo Istituto; lo vuole tutto per sé, per una missione specifica comboniana (cfr. AC ’03, 54.2-4).
11. Riqualificazione degli impegni
(cfr. AC ’03, 30.1-2)
Il divario tra impegni e personale continua ed ogni giorno si fa più preoccupante. Gli impegni da tempo restano al di sopra delle nostre forze. Il processo di revisione e riqualificazione è irreversibile e nelle programmazioni deve essere prioritario.
Un compito che non può attendere è riprogrammare l’Istituto, le province e le delegazioni, ridisegnare e riqualificare le nostre presenze in linea col nostro carisma e secondo le scelte e criteri suggeriti dal XVI Capitolo Generale.
12. Vita comunitaria
(cfr. AC ’03, capitolo IV)
La comunità non è opera nostra, ma di Dio, e può essere accolta solamente come dono: “Chi ne fa un progetto suo distrugge la comunità invece di costruirla” (Bonhoeffer).
Lasciare che la vita fraterna favorisca l’individualismo, significa lasciar crescere il tumore nella carne dell’Istituto e condannarlo a morte.
Un religioso che gestisce da solo la propria vita, sempre assente dalla mensa fraterna, dalla mensa della condivisione e dalla mensa eucaristica, si stacca dalla fecondità della propria vocazione.
La Chiesa missionaria ha bisogno di comunità vive che siano un richiamo alla grazia del vivere insieme. La vita missionaria troverà nella comunione e nell’unità percorsi inediti nei quali vale la pena avventurarsi.
13. Formazione
(cfr. AC ’03, 63-64)
Crediamo che sia arrivato il tempo per una revisione totale del nostro sistema formativo. Crediamo che il nostro sistema formativo non risponda più alle esigenze delle nuove generazioni e abbia bisogno di nuove strategie pedagogiche ed evangeliche.
Il sistema formativo non riesce a dare una risposta alle problematiche che l’insieme delle diverse culture presenta. Segni concreti ci dicono che l’Istituto deve credere nei giovani e prepararli alla missione con qualità missionaria migliore.
La formazione deve formare credenti: credenti in Dio e nel suo Vangelo; credenti nell’uomo e nella sua cultura; credenti nella missione come unica passione della vita; credenti nel sogno di Dio, quel sogno che porta a creare, osare, sfidare e donarsi senza riserve.
14. Internazionalità
È un cammino di grazia che dobbiamo continuare (cfr. AC ’03, 52.5). È un cammino irreversibile, che ci impegna nell’accogliere con gratitudine il dono di Dio dei confratelli, della ricchezza che essi sono per l’Istituto, promovendone la crescita e responsabilizzazione graduale in tutti i settori. L’internazionalità è una delle testimonianze di cui il mondo di oggi ha particolarmente bisogno.
Ma senz’altro questa grazia dell’internazionalità, se non gestita bene, potrebbe trasformarsi in un peso faticoso. C’è da dire subito che l’internazionalità non è un mezzo per aumentare in quantità e salvare l’Istituto dall’estinzione.
L’internazionalità genuina non entra nei giochi della sopravvivenza. Un Istituto cresce non solamente con i numeri ma con la qualità. Un Istituto può anche scomparire. L’importante è che abbia compiuto bene la sua missione. L’internazionalità deve essere simbolo della Trinità: differenza ed uguaglianza allo stesso tempo. Il congregavit nos in unum diventa scuola di amore, di fratellanza e di missione evangelica. La vita comunitaria internazionale va contro il peccato della torre di Babele, cioè il negare la diversità, la pluralità. È peccato chiudersi in un’unica lingua o cultura per evitare la fatica di vivere e comprendere la diversità.
L’internazionalità deve diventare Pentecoste, cioè celebrazione delle diversità ricondotte ad unità di Spirito. Vivere l’internazionalità non è cosa facile. Dobbiamo continuare con la consapevolezza che l’altro sarà sempre diverso e come tale dobbiamo amarlo. Amarsi e vivere la fratellanza anche quan-do non si riesce a capire l’altro.
È una sfida, come è una sfida amare e vivere il futuro dell’Istituto, cioè un Istituto completamente nuovo, ricreato da una nuova geografia vocazionale, rigenerato nelle nuove generazioni.
15. Ministero dell’autorità
Tutti siamo chiamati a coordinare l’Istituto. Dobbiamo aiutarci pensando al bene di tutto l’Istituto, evitando di chiuderci ciascuno nella propria provincia o delegazione e di fossilizzarci in problematiche locali, a volte minori e passeggere. I consigli provinciali e continentali sono “occhi vigilanti e cuore a-perto” al vero cammino che l’Istituto deve percorrere. A questo punto il Consiglio Generale sente l’esigenza di incontrarsi anche più spesso con tutti i provinciali e delegati e pensa di convocarli qualche volta in più.
Non ci si può ridurre ad attendere un Capitolo Generale per affrontare i problemi. L’incontrarsi, allora, è di estrema importanza, perché insieme possiamo scrutare costantemente, valutare, leggere la realtà e proporre nuove mete.
Ormai lo stile di governo si è visto costretto a grandi cambiamenti di senso e priorità, di corresponsabilità e progettazione: non più vigilantes della disciplina e fautori di sottomissione ma guide al discernimento (cfr. AC ’03, 99.5); non più pilotare per salvare norme, leggi e tradizioni, ma per essere ispiratori di iniziative coraggiose; per essere garanti di un dialogo efficace, partecipato e non strozzato dal centralismo o dal verticismo. Insieme possiamo essere più capaci di rischi profetici e creatività sapiente.
La fragilità che stiamo patendo in tanti settori può essere il grembo di una grande fecondità. Se rimaniamo uniti in questo momento di difficoltà e cambiamento, possiamo prepararci a nuove stagioni di grazia per la missione.
16. Ratio Missionis: in cammino tutti insieme
Il processo della Ratio Missionis, già in cammino, vuole esattamente essere questa lettura sapienziale della vita dell’Istituto, della sua attività e dei diversi ambiti in cui ci muoviamo. Si è lavorato tanto da un Capitolo Generale all’altro e il rinnovamento non è arrivato. Anzi, c’è stata an-che una disobbedienza ai Capitoli Generali. E la disobbedienza, negli anni, si paga cara.
A che si deve questo? Forse al fatto che certi processi hanno un percorso lento e bisogna semplicemente aver pazienza; oppure al fatto che abbiamo mancato in qualcosa e occorre una correzione di rotta.
Ogni Capitolo Generale fa analisi cliniche: da tempo notiamo che da ogni Capitolo Generale risultano le “stesse analisi cliniche”, le stesse malattie. Si è tentati di concludere o che i Capitoli Generali non hanno fatto bene le analisi, non hanno identificato bene le malattie o che le medicine proposte non hanno fatto effetto.
Siamo tutti d’accordo che il nostro è ancora il tempo del silenzio, dell’ascolto, della riflessione. Continuiamo pure a lavorare (ci mancherebbe altro!), ma ricordiamo che per ora non è il fare che conta. Per ora conta capire ciò che Dio vuole da noi. Tutti insieme.
La Ratio Missionis ha uno scopo: non arrivare ad un documento, ma riflettere, valutare e raccontarci. La meta del nostro cammino è riconfermare la missione e riconfermare il carisma comboniano. Per questo è necessaria una lettura dalla base, andando più in profondità e domandandoci: chi siamo, quanti siamo, dove siamo, che facciamo e come facciamo ciò che facciamo.
La Ratio Missionis ha un metodo: deve diventare un processo di formazione permanente missionaria in ogni provincia o delegazione.
È importante saper coinvolgere tutti per rinnovare la nostra spiritualità missionaria, per mettere combonianità nella nostra evangelizzazione, per mettere contemplazione nella nostra azione e missione nella nostra formazione e animazione.
La lettura sapienziale della realtà, fatta attraverso il processo della Ratio Missionis, potrebbe portarci all’esigenza di un Capitolo Generale speciale. Forse, dopo trentacinque anni, lo Spirito ci dice che è arrivato il tempo di un Capitolo Generale profetico. Un Capitolo Generale che ci porti a mordere la polvere e sporcarci realmente le mani per arrivare a “cambiamenti che cambino davvero”.
Troppe volte, per amore alla concordia, per amore al si-è-sempre-fatto-così, la profezia di un Capitolo Generale evapora in propositi generici, in slogan roboanti, ma distanti dalla realtà della missione, dalle sofferenze della gente e dalle necessità vere dell’Istituto.
Così si continua a vivere fuori della storia con il pericolo di cadere nel gioco ridicolo di “cambiare tutto per non cambiare niente”.
CONCLUSIONE
La missione - lo abbiamo detto spesso - è partire, studiare tat-tiche, rinnovare metodologie e programmi di apostolato. Essa, però, è soprattutto credere. Ma credere in chi, in che cosa?
Credere in Dio che sceglie i suoi apostoli: “Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga”, dice il Signore (Gv 15,16).
Credere nella nostra vocazione: Dio ci ha dato il privilegio della vocazione missionaria. Dobbiamo, allora, credere nel Dio che crede in noi e che, con umiltà divina, ha manifestato di aver bisogno di noi per continuare la sua opera nel mondo.
Credere nella missione, nel servizio che ci è stato chiesto, nel compito che ci è stato affidato. E la missione è un servizio di amore e donazione totale: “Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici”, dice il Signore (Gv 15,13).
Credere nell’Istituto. L’Istituto è cenacolo missionario voluto dallo Spirito; è “forza sacra per la Missione di Cristo”. L’Istituto è aiutante dello Spirito, protagonista della missione, e, quindi, ha una vocazione che gli viene da Dio, per garantire la continuità della missione.
Amore all’Istituto è, quindi, amore all’azione missionaria. Credere nell’Istituto è credere nella comunione della provincia o delegazione, del popolo di Dio e della Chiesa.
Credere in Comboni. È credere nel Comboni che era convinto che la sua opera era di Dio. “La mia opera non morirà”, lo disse davanti a tempi umanamente fragili, davanti alla sua morte, convinto che un progetto di Dio va avanti con Dio. “L’apostolo, scrive Comboni, suda non per sé, ma per l'eternità; non cerca altrimenti la sua, ma la felicità dei suoi simili, sa che l'opera sua con lui non muore, che la sua tomba è una culla di nuovi apostoli: e perciò misura i suoi passi non sempre coi suoi desideri, ma sempre colla necessaria prudenza di assicurare l'esito della redentrice impresa” (S 2171).
Credere in Comboni non è un semplice imitare Comboni. C’è un solo Comboni e non può essere clonato, e noi non siamo chiamati ad essere brutte fotocopie di un gran campione dell’evan-gelizzazione. Comboni non si aspettava che i suoi missionari fossero a sua immagine e somiglianza. Voleva solo missionari con profondo amore. Quando Comboni vedeva amore per la missione era capace di redimere e canonizzare i suoi compagni (cfr. S 6851). Anche per Comboni, la missione esigeva una donazione totale, ad vitam: “Il più felice dei miei giorni sarà quello in cui potrò dare la vita per voi” (S 3159).
Carissimi confratelli, più che scrivere, ho desiderato parlare con l’unico desiderio di condividere con spontaneità ciò che sentiamo anche come Consiglio Generale.
E come Consiglio Generale stiamo sempre in ascolto e grati per la collaborazione, i suggerimenti e l’aiuto nel coordinare, camminare e accompagnare la vita dell’Istituto.
Che San Daniele Comboni ci accompagni e benedica, mentre ci avviamo verso l’Assemblea Intercapitolare. E che il nostro incontro di settembre sia grazia per la missione comboniana.
Insieme agli Assistenti Generali mando ad ognuno un saluto di stima ed affetto fraterno.
1 gennaio 2006
P. Teresino Serra, mccj
Superiore Generale
P. Teresino Serra - 1 gennaio 2006