In Pace Christi

Martinato Efrem

Martinato Efrem
Data de nascimento : 05/12/1926
Local de nascimento : Trebaseleghe PD/I
Votos temporários : 07/10/1946
Votos perpétuos : 07/10/1952
Data da morte : 27/07/1993
Local da morte : Nairobi/KE

Quella di fr. Efrem è una vicenda che va perfettamente a braccetto con la miglior tradizione del fratello missionario comboniano. Pienamente identificato nella sua vocazione. Fr. Martinato è stato un uomo schivo, sempre contento e sorridente, gran lavoratore, sempre disponibile e animato da abbondante spirito di preghiera, di servizio e di carità.

Chi scrive lo ha conosciuto a Trento nel 1949. Il Fratello si dedicava all'orto e alle galline che scherzosamente chiamava "le golz". S'intratteneva volentieri con i ragazzi parlando con semplicità proprio come un fratello un po' più grande e dava loro dei buoni consigli spronandoli allo studio che dovevano vedere come il loro dovere quotidiano che permetteva di mangiare il pane con dignità.

Parlava anche della sua vocazione di Fratello. "Vedete - disse una sera durante la ricreazione - io ho passato la giornata nel campo; voi sui banchi di scuola, pero siamo missionari tutti allo stesso modo perché tutti lavoriamo per la stessa causa, la salvezza delle anime". Parole semplici, pronunciate con ancor più grande semplicità, e forse per questo si imprimevano nella mente di quei futuri missionari.

Altre volte mostrava il cestello con qualche dozzina di uova appena sfornate. "Vedete come sono state brave le mie golz? Così domattina se c'è qualcuno un po' deboluccio ha di che tirarsi su. E sorrideva soddisfatto. Poi lo si vedeva in chiesa raccolto in preghiera dando a tutti un esempio di come pregava un missionario comboniano.

Se c'era bisogno di qualche lavoretto, come aggiustare uno strumento di giuoco o addirittura come riannodare il legaccio delle scarpe che si era rotto, fr. Efrem era sempre pronto con premura, accompagnando l'opera con qualche battuta allegra e umoristica. Insomma, era un vero amico.

Una cosa ha fatto particolarmente impressione a un gruppo di seminaristi. Uno di essi non sopportava i pomodori e non c'era verso che li mandasse giù. Il "prefetto", o assistente, aveva sfoderato tutti i suoi argomenti per convincere il ragazzo a prendere quel cibo buono, ricco di vitamine, ecc. Niente da fare. Poco dopo, in cortile, fr. Martinato si avvicino al gruppo dove c'era colui che non voleva pomodori e disse: "Io, da piccolo, ho patito la fame. Quante volte andavo con i miei fratelli a spigolare nei campi dove i contadini avevano raccolte le patate o altre cose per vedere se era rimasto qualcosa anche per noi. Delle volte, trovata una patata, la mangiavo così cruda com'era. E che buona!".

Il giorno dopo, con grande sorpresa del prefetto e dei compagni, si vide l'antipomodorista che si mangiava un bel piatto di rossi pomodori. E che buoni! E come facevano bene! (questo era il Gaiga)

Per molti di quei piccoli seminaristi fr. Efrem È stato il primo fratello comboniano incontrato, e si deve dire che ha contribuito a dare un'immagine giusta di quello che è e che deve essere il fratello comboniano. Onestamente si puo affermare che egli ha fatto stimare e amare il "Fratello" ai futuri sacerdoti comboniani. E si sa che la prima impressione, quella che si imprime nella mente da ragazzi, resta per tutta la vita. Grazie fr. Marinato.

L'esperienza dell'emigrante

Papà Guido era operaio; mamma Anna Casarini casalinga. Ma ben presto lo spettro della disoccupazione costrinse la famiglia, già numerosa (Efrem era il secondo di sei) ad emigrare in Lombardia che, a quel tempo, appariva per il Veneto depresso come una propaggine dell'America.

Era l'anno 1930. Efrem aveva quattro anni. Con le loro poche e povere cose i Martinato approdarono ad Appiano Gentile accolti con amore dal parroco che si interesso subito per una dignitosa sistemazione di quella famiglia ricca di fede e dai principi cristiani sodi.

Efrem frequento le elementari ad Appiano e fece parte del gruppo dei chierichetti. Trascorreva i pomeriggi all'oratorio dimostrando una predilezione non comune per il gioco del pallone.

"Amava la compagnia - dice il fratello Bruno - era vivace e sempre allegro, non aveva amici particolari, per lui tutti erano amici.

Dopo l'oratorio c'era il cortile. Quei bei cortili racchiusi dalle case e dalle stalle, così caratteristici nella zona tanti anni fa. Lì le amicizie erano più strette perché legavano anche i genitori dei ragazzi che spesso si davano una mano per tirare avanti. E poi ci si trovava tutti uniti nella recita del rosario e delle preghiere. In un clima così era impossibile non crescere sani, onesti e aperti alla chiamata del Signore.

"Ricordando quel periodo - riferisce il fratello Bruno - Efren soleva dire: 'Eravamo poveri, qualche volta abbiamo anche patito la fame, ma eravamo sempre allegri e contenti'".

La vocazione

E' ancora il fratello Bruno che ci parla della vocazione missionaria di Efrem: "A Lui è sempre piaciuto leggere, ma non avendo la possibilità di comperare libri o di abbonarsi a qualche rivista, faceva dei lavoretti per avere in cambio un buon libro. Tra questi gli capito tra mano la biografia di mons. Comboni. La lesse più volte e anche noi fratelli abbiamo dovuto impararla quasi a memoria perché ci raccontava con vera partecipazione le avventure, le sofferenze e i viaggi del grande missionario. Si vedeva chiaramente che era cotto per la personalità di Comboni e per il messaggio che scaturiva da quelle pagine. Ma non osava parlare del desiderio che certamente maturava in cuore, quello cioè di farsi missionario. Era il secondogenito: doveva pensare al lavoro per dare una mano alla numerosa famiglia.

Finalmente una mattina prese il coraggio a due mani e ne parlo col parroco, don Riccardo Gerla, un uomo che amava le missioni. Questi lo conosceva a fondo perchè era il nostro confessore e di noi ragazzi sapeva tutto. Don Riccardo, dunque, non spese tante parole con Efrem, ma chiamo la mamma e le disse: 'Anna, suo figlio Efrem ha la vocazione missionaria. Le raccomando di non ostacolare la volontà del ragazzo, anzi, ringraziamo insieme il Signore per questa chiamata'.

Dopo un comprensibile smarrimento, i genitori convennero che se quella era la volontà del Signore essi non avevano niente da obiettare.

Fu così - conclude il fratello - che nel 1939, all'età di 13 anni, Efrem entrò nell'Istituto comboniano di via Borgovico a Como".

La crisi

Da questo racconto (i documenti tacciono) deduciamo che Efrem inizialmente era partito per diventare sacerdote. Sappiamo, infatti, che Borgovico era la prima sede del piccolo seminario missionario che poi venne trasferito a Rebbio.

Qualche anno dopo troviamo Efrem a Thiene dove venivano preparati i futuri Fratelli. Perché questo cambiamento? Forse perché il giovane, che aveva terminato le elementari da un paio d'anni, si spaventò di fronte agli studi severi ai quali i seminaristi erano sottoposti? O forse perché si sentì portato a realizzare meglio la sua vocazione attraverso il lavoro? Non sappiamo. Sappiamo invece che, trovandosi a Thiene - la testimonianza viene da p. Rizzato - un giorno fu preso dalla nostalgia della famiglia, del paese, della vita di oratorio. Quei saloni, quelle falegnamerie, gli sembravano tanto freddi ed egli, giovane molto sensibile, sentiva il bisogno del calore della sua casa, povera si, ma accogliente. Anche il cibo buono e abbondante che trovava in tavola tutti i giorni, non serviva a saziare la sua fame.

Ed ecco che un bel mattino ci si accorse che Efrem non c'era più. Era sparita anche la sua valigetta di legno con la poca biancheria che possedeva. I superiori non riuscivano a spiegarsi che cosa fosse accaduto e già si accingevano a scrivere alla famiglia per sapere se il giovinetto era tornato a casa.

Si, Efrem voleva proprio tornare a casa. Ma quando fu a Vicenza, dal treno vide il campanile e la cupola della Madonna di Monte Berico. Ed ebbe un'idea: perché non andare a interpellare la Madonna?

A passo svelto, tenendo stretta la sua valigetta, salì l'erta del monte, pregò a lungo in chiesa e poi girò attorno all'altare maggiore fermandosi con la mano appoggiata dove la Madonna aveva posato il suo piede. Che cosa disse alla Madre di Dio non è dato sapere. Fatto sta che, appena tornato in chiesa, incontrò un frate che gli mise una mano sulla spalla. "Chi sei? Cosa avevi da chiedere alla Madonna? Dove stai andando?". Certamente quell'uomo di Dio aveva letto tante cose sul volto sconvolto del ragazzo.

"Vieni nel confessionale - proseguì il frate - e lì mi racconterai tutto".

Efrem si confessò e raccontò la sua storia. Il frate lo ascoltò, gli parlò come gli avrebbe parlato il miglior amico e poi gli disse di tornare a Thiene perché la Madonna voleva che lui diventasse fratello missionario.

"Ho speso tutti i soldi per il biglietto fino al mio paese... e poi chissà cosa mi dicono se torno a Thiene dopo che sono scappato senza avvisare il superiore!".

"Questi sono i soldi del viaggio - disse il frate mettendogli in mano qualche lira - e quanto ai superiori di' sinceramente che cosa ti è capitato questa mattina. Se non ti credono, fa il mio nome - e gli disse il nome - io sono sempre pronto a giustificarti".

A mezzogiorno Efrem era nuovamente seduto a tavola con i suoi compagni. Il suo sorriso e la sua voglia di raccontare facezie questa volta erano spontanee perché nella sua anima la coltre di nebbia era sparita e aveva lasciato il posto a un bel sole caldo e splendente. Né valse la guerra con le sue bombe (data la vicinanza della casa comboniana alla stazione ferroviaria) e le sue paure a turbare il cammino di Efrem e dei suoi compagni anche se, spesso, tutti si infilavano di corsa nel rifugio.

Anima e corpo al Signore

Il 29 luglio 1944 Efrem Martinato fece la sua entrata nel noviziato di Venegono Superiore, Varese. Era stato in famiglia per alcuni giorni e il superiore di Thiene gli aveva scritto in data 18 luglio: "Il Signore ha permesso che la nostra casa fosse completamente occupata dai soldati tedeschi. Sia fatta la volontà di Dio. Il giorno 29, quindi, invece di venire a Thiene, ti recherai nella Casa Madre di Verona e poi si andrà in un paesello fuori una decina di chilometri. Ricordati che sei della Madonna, quindi non aver nessun timore. Ella ti proteggerà".

Come riscontriamo dalle date, invece di raggiungere Verona da Appiano Gentile, andò direttamente a Venegono che da Appiano dista pochi chilometri. Dati i tempi, la cosa appare più che ragionevole.

Un lungo cammino

Al momento dell'entrata in noviziato, Efrem aveva ancora una lunga strada da percorrere nella via della perfezione per acquisire quelle doti che avrebbero fatto di lui uno zelante missionario. Ecco cosa ci dice p. Antonio Todesco, maestro dei novizi: "Sempre un po' leggerino e superficiale e non sempre generoso ed attivo. Ma la buona volontà di migliorarsi non manca. Il suo carattere non è ancora del tutto formato. La pietà è relativamente sentita e l'osservanza delle regole è talvolta mancante. È laborioso, sincero e attaccato alla vocazione".

Al termine dei due anni di noviziato, lo stesso Padre scriveva: "Ha fatto un buon cammino quanto a impegno e serietà. Ama il lavoro, È obbediente, la pietà è sentita. È uomo di sacrificio".

Il progresso spirituale di fr. Martinato non era fuoco di paglia se, qualche anno dopo, in occasione della rinnovazione dei Voti, p. Briani scriveva: "È buono e pieno si spirito di sacrificio". E p. Andriollo: "È un buon figliolo".

Nella domanda per i Voti il Fratello aveva dichiarato che voleva darsi anima e corpo al servizio del Signore attraverso la vita missionaria.

Cuoco e campagnolo

Dopo i Voti (7 ottobre 1946) il Fratello fu inviato a Verona e poi a Venegono come cuoco (1946-1949). Non abbiamo testimonianze sulle sue capacità culinarie. Tuttavia se la deve essere cavata discretamente perché in noviziato, a quei tempi, i fratelli facevano il loro turno anche in cucina, quindi qualcosa imparavano anche se non erano particolarmente dotati nel ramo specifico. Il fatto che sia stato tre anni in quell'incombenza significa che, per lo meno, non ha mai avvelenato nessuno.

Dal 1949 al 1954 fu a Trento come addetto alla campagna. Di questo periodo si è parlato all'inizio. Qui aggiungiamo che il Fratello fece un corso per corrispondenza come decoratore. Indubbiamente l'estro non gli mancava e p. Giorgio Canestrari, allora superiore, volle valorizzarlo al meglio. Inoltre a quel tempo c'era fr. Puppi che decorava la cappella della casa e, qualche volta fr. Martinato gli dava una mano se non altro per aiutarlo a spostare le impalcature.

Con l'uomo che guidava il camioncino di casa, il Fratello si recava spesso in Val di Non alla questua delle mele. La raccolta era sempre abbondante per cui i seminaristi avevano come pezzo forte per i loro pasti mele cotte mattino, mezzogiorno e sera. Cose da "spaventare" i denti e da farsi venire la pelle d'oca al solo vederle.

In missione

Fratello tuttofare e disponibilissimo, fr. Martinato, nei suoi primi dieci anni di missione, fu in sei missioni. La prima fu Kator (Sudan) dal 1954 al 1956; la seconda e la terza Lafon e Loa dal 1956 al 1958; la quarta e la quinta Kapoeta e Palotaka dal 1958 al 1963; la sesta a Lirya dal 1963 al 1964, anno dell'espulsione in massa di tutti i missionari dal Sudan meridionale. Maestro nei lavori di muratura fu, nei primi anni, fr. Pedrinolli dal quale fr. Martinato imparò le tecniche e i segreti del mestiere.

"Tutti questi cambiamenti - ci assicura p. Maccani - rispondono

all'esigenza di avere il Fratello nelle varie missioni dove urgeva un costruttore. Fr. Martinato, infatti, era diventato un abile costruttore senza rinnegare la sua primitiva passione per la terra, quindi per l'orto che ogni missione possedeva. Come stile di vita era un uomo calmo, sempre contento, schivo da avventure che hanno resi famosi altri missionari. Usciva poco dalla missione se non per accompagnare il Padre, alla domenica, per il ministero, preferendo il lavoro sodo e la preghiera.

Comunitariamente era piacevole per l'umorismo che sapeva mettere in tante sue battute e per il clima di serenità che sapeva creare. Anche con la gente e con le autorità ci sapeva fare. Quando eravamo a Kapoeta, e già era cominciata la sorda persecuzione da parte degli arabi, riuscì ad ottenere - con le buone maniere e con una tangente - il permesso di ingrandire la chiesa. Cosa che stupì tutti visto che nelle altre missioni c'erano restrizioni severissime.

Non aveva una grande conoscenza della lingua anche perché i troppo frequenti cambiamenti non gli consentirono di approfondirne neppure una, tuttavia si faceva capire dagli operai e dalla gente perché usava il linguaggio dei gesti e della bontà, si di tanta bontà. Posso affermare senza timore di essere smentito - conclude p. Maccani - che fr. Martinato seppe farsi amare dagli africani perché lui, per primo, li amava. In questo, e in tante altre cose, era un vero seguace di mons. Comboni".

A Kapoeta fr. Efrem fu colpito da un attacco di malaria che lo portò in fin di vita. Fu curato e guarì così bene che, da allora, non assunse più medicine contro la malattia. Ciò non fu un bene perché la sua morte repentina fu probabilmente causata da un eccesso di malaria accumulatosi nel sangue, che si manifestò con conseguenze devastanti.

Un atto di eroica carità

P. Marengoni ricorda un episodio riguardante il Fratello, che definisce "atto di eroica carità e di eroica obbedianza". Nel 1964 fr. Martinato si trovava ad Okaru. Già erano scoppiati i torbidi tra arabi e neri. Un capotribù, accusato di aver collaborato con gli arabi, fu assalito e gravemente ferito dalla gente infuriata. Si salvò a malapena rifugiandosi nel seminario con una freccia infissa nella schiena. Intanto scese la notte. P. Marengoni curò il ferito come poté e attese. Ma al mattino il ferito era gravissimo. Il Padre chiamò il Fratello e gli disse: "Vi sentite di portarlo all'ospedale? Lo so, i guerriglieri sono ai piedi della nostra collina, sanno tutto e attendono con le lance in mano. Il pericolo che corri è gravissimo, quindi non posso obbligarti". Fr. Efrem pregò un po' e poi disse. "Vado! Si tratta di salvare un uomo". Caricò il morente sulla macchina del seminario e partì a rotta di collo giù per la discesa che porta ai piedi del colle.

Accennando a questo fatto, fr. Efrem scrisse: "Accettai con fede l'incarico fiducioso nell'aiuto di Dio. Se era la mia ora, Lui mi avrebbe accolto nell'atto di salvare la vita di un mio fratello. Mi ricordo che feci quella strada tutte curve alla velocità di un razzo. Ogni tanto vedevo gente in agguato con frecce e lance in mano. da un momento all'altro mi aspettavo il colpo mortale. Invece, miracolosamente, passai indenne e raggiunsi Juba dove lasciai il ferito all'ospedale. Di ritorno, la gente mi bloccò chiedendo spiegazioni. 'Venite in seminario e lì vi spiegherò ogni cosa', dissi. In realtà sapevo che p. Marengoni avrebbe trovato le parole giuste per calmare quegli scalmanati".

Cinque anni in Italia

Giunto in Italia dopo l'espulsione, fr. Martinato fu inviato a Carraia come addetto alla casa (marzo-ottobre 1964), poi a Pellegrina come campagnolo (1964-1965), quindi a Verona (1965-1966) addetto all'orto. Lavorò con il suo solito stile, reso ancor più maturo dall'esperienza della missione.

Dal 1966 al 1969 fu a Roma con l'incarico di sistemare il parco nella nuova casa generalizia dell'EUR. Lavorò a fianco di fr. Spreafico. "Il ricordo dell'Africa e della vita di missione - ricorda costui - agiva negativamente su fr. Efrem. Gli sembrava che il clima italiano, e particolarmente la vita a Roma, non fossero più il suo clima e la sua vita.

'Ma come - sospirava ogni tanto - con tutto il lavoro che c'è da fare in Africa dobbiamo star qui a perdere tempo dietro le aiuole e le siepi!'. E non era facile convincerlo che anche quel lavoro, benedetto dall'obbedienza, faceva parte della vita missionaria.

Risolse la sua crisi, se crisi si può chiamare, quando nel 1969 fu inviato a Morulem in Uganda. Ho visto la sua reazione di gioia e di entusiasmo quando il p. Generale gli comunicò la lieta notizia. E come lo capivo!".

Tra i malati di lebbra

A Morulem c'era e c'è il centro di cura per hanseniani. Un centro molto grande quindi bisognoso di continua manutenzione. Fr. Martinato si mise dentro anima e corpo. I più "necessitosi" di cui parlava Comboni erano lì che condividevano la giornata con lui.

"Era preoccupato perché non mancasse niente ai malati - afferma la suora incaricata del Centro. - Diceva: 'Hanno già una brutta malattia sulla pelle, che almeno non manchi loro ciò che li può sollevare un pochino. Questo pensiero gli infondeva forza e coraggio. E come era contento quando vedeva qualche gruppo di ragazzi guariti che lasciavano quel luogo per tornare ai loro villaggi!".

Sistemate alcune fabbriche a Morulem, passò a Moroto (1970 - 1973) come addetto alle costruzioni. In questo settore era diventato maestro. Per questo, dal 1974 al 1975 venne trasferito a Langata, Kenya, dove, oltre alle costruzioni, si applicò anche all'officina meccanica ma con scarso successo in quest'ultima incombenza per cui, dal 1976 al 1984 fu a Gaicanijru, sempre in Kenya, impegnato nelle costruzioni. Dal 1988 venne inviato a Katilu come addetto alla casa.

La sua spiritualità

Nonostante l'apparenza piuttosto burbera, fr. Martinato era dotato di una fine spiritualità i cui riflessi possiamo trovare in alcune lettere scritte ai familiari.

"Il tempo stringe anche per me, operaio nella vigna del Signore - scriveva nel 1980. - Ed ogni giorno di più mi accorgo che devo essere sempre più oculato e pronto perché il Signore potrebbe chiedermi conto del mio operato. So che lavoro solo per Lui e non ho di mira altri scopi e per questo ho l'animo in pace. Questa mia serenità cerco di infonderla in tutti coloro che cooperano nei lavori di missione.

Alle volte mancano i materiali: il ferro, il cemento, il legname, e la mancanza di un cosa condiziona il resto del lavoro, ma non per questo perdo quell'equilibrio necessario per mantenermi allegro nei miei rapporti con i confratelli e con la gente.

Dal mio ritorno dopo la mia permanenza in Italia nel 1978 le cappelle nei villaggi hanno avuto un buon impulso. Quattro sono già fornite di tetto in lamiera e, ciò che più conta, tutte le spese sono state sostenute dai cristiani della parrocchia. Così le sentiranno come roba loro e ne avranno cura.

L'ospedale, poi, ha avuto il nuovo dispensario, il nuovo laboratorio e stiamo completando un nuovo locale per le mamme dove impareranno come curare e nutrire i loro bambini nei primi mesi in modo che non prendano malattie.

Se volgo lo sguardo a ciò che ho fatto finora, non ho molto da rallegrarmi per me stesso, ma mi consola il pensiero di aver sempre messo in cima ai miei desideri solo Lui, il Signore, e il bene di questa gente che amo di vero cuore".

Due anni dopo, nel 1982, scriveva: "Pensa, sono ormai trent'anni da quando sono venuto per la prima volta in Africa, e mi sembra che non sia passato tutto questo tempo. C'è stato di mezzo l'espulsione in massa del 1964, c'è stato quella specie di esilio in Italia di cinque anni nei quali mi sentivo come un anacoreta tanto ero segregato dalla missione, c'è stato, nel 1969, il ritorno in Uganda ma anche qui l'orizzonte si offuscava con la presenza di Amin che i suoi sudditi hanno definito 'gran macellaio'. Nel 1973 chiesi io stesso di far parte dei primi missionari che andavano ad aprire nuove missioni in Kenya.

La nostra esistenza è un dono di Dio, che non si finisce mai di apprezzare. Rimaniamo sempre in debito col Signore per qualunque cosa o impresa che noi siamo riusciti a fare perché è da lui che riceviamo tutto".

Nel 1987 fr. Martinato scriveva da Moyale: "Ho perso, per così dire, un mio carissimo amico, il vescovo mons. Mazzoldi. Proprio pochi giorni prima di morire era andato a trovarlo il p. Poda. Il Vescovo si è ricordato di me e mi ha mandato a salutare ricordando i bei giorni passati insieme nella vigna del Signore in Sudan, in Uganda, in Tanzania e qui in Kenya. Come è bello questo legame tra missionari, questo volersi bene, questo stimarci! È una cosa che moltiplica le energie e rende meravigliosa questa nostra vita missionaria".

Nel 1990 scrisse, sempre ai familiari: "Ho fatto gli Esercizi in un convento di giovani contemplativi dove ho potuto veramente raccogliermi in contemplazione, preghiera e meditazione. È una congregazione fondata da p. Marengoni, santa persona e mio amico fin dai tempi del Sudan. Con lui ho affrontato una bella avventura che poteva volgere in tragedia per salvare un capo villaggio. P. Marengoni, ispirato da Dio, trovò le parole giuste per salvarci tutti da una quasi sicura carneficina".

Da Katilo ricorda un episodio della sua infanzia. La lettera è del 1992. "A proposito di preghiera mi viene in mente di quando ero ragazzo in vacanza a Trebaseleghe nel 1942 presso lo zio Nanàn. In chiesa incontravo l'arciprete don Vittore Reginato. Lui che mi aveva battezzato e al quale papà e mamma erano molto affezionati per il gran bene ricevuto, mi diceva: 'Vedi, caro, quando preghi e parli con Signore, piglia bene la mira, e punta al suo Cuore perché è da lì che scaturiscono tutte le grazie".

Furono forse questi ricordi giovanili che instillarono in fr. Martinato una grande devozione al Sacro Cuore di Gesù.

Il 13 giugno 1993, neanche 50 giorni prima della morte - e il Fratello stava benissimo - Martinato passò in rassegna la sua vita e scrisse una lettera ai suoi che ha tutto il sapore di un testamento. "Ripassando la mia vita, non faccio altro che meravigliarmi della scelta di Dio su di me, mentre Lui poteva benissimo chiamare a seguirlo tanti miei compagni più buoni, più intelligenti e più capaci che avrebbero fatto molto meglio di me. Questo è il mistero del Signore nell'elargire i suoi doni lasciando poi a noi la libertà di accettarli e di corrispondervi.

Io mi immagino, carissimi, anzi ne sono pianamente certo, che voi vivete la vostra vita cristiana con forte fede, viva speranza e genuina carità senza lasciarvi trasportare dalle mode del tempo. Teniamoci uniti, siamo i primi a dare il buon esempio in casa e fuori non lasciandoci condizionare che dalla propria rettitudine e grande carità verso tutti".

Giustamente i fratelli hanno scritto: "Noi ricordiamo il nostro carissimo Efrem nella sua fede robusta e forte, nella sua carità generosa, delicata e umile, nel suo temperamento schivo e nello stesso tempo deciso e forte specialmente quando voleva e chiedeva qualcosa per il bene altrui".

In una delle ultime lettere, scritta a p. Ceriani l'11 luglio 1993, sedici giorni prima della morte, il Fratello ringrazia per un volontario falegname che si sarebbe recato a Katilo, indica gli attrezzi più opportuni e altre cose inerenti al lavoro, segno che stava ancora bene. Alla fine, tuttavia, aggiunge: "È chiaro, dobbiamo sempre dire come ci ha insegnato il Signore. 'Servi inutili siamo anche se abbiamo fatto miracoli'".

In prima linea

I Turkana, tra i quali fr Martinato trascorse gli ultimi anni della sua vita, gli fecero gustare in pieno il senso della missione.

"Ogni giorno è una lotta per un po' di acqua. Nella stagione secca gli uomini scavano pozzi profondi cinque-sei metri nel greto dei torrenti e poi fanno il passamano con catini e secchi. Le donne percorrono chilometri e chilometri con il prezioso liquido sulla testa. Le bestie attentano continuamente quelle piccole riserve per dissetarsi. Gli elefanti muovono a branchi facendo scempio dei magri campicelli di sorgo. I pastori spingono le greggi sempre in cerca di erba e di acqua. Che vita questa gente!

Eppure sento che qui mi trovo bene. Giorni fa mi sono trovato nel deserto - ma qui è tutto deserto - fatto di pietre vulcaniche e sabbia. La chioma di un unico cespuglio in non so quanti chilometri quadrati proiettava un metro quadrato di ombre. Lì ci saranno state venti teste di Turkana che cercavano un po' d'ombra. Quando mi videro, si spostarono perché anch'io avessi il mio pezzettino. Quel gesto mi commosse e dentro di me dissi: 'Valeva proprio la pena che lasciassi tutto per venire tra voi'. È bello condividere tutto: l'acqua, l'ombra, la fame ma anche... Cristo. Qui, in questo ambiente dove la poca acqua è spesso salmastra, sono sorte tante cappelle... Lokori, Kangakipur, Makaalei, Kangetet, Lokwii, Kasomalit, Kuruko. Kerio, Katoro, Loaciakula... Nomi un po' strani ma che per noi dicono schiere di ragazzini desiderosi di apprendere la parola di Dio e di pregare il Signore e la Madonna. È già arduo costruire cappelle e tettoie, ma più difficile è trovare cooperatori, cioè maestri e catechisti. Eppure la parola di Dio penetra in questa terra arida e mette radici in questi cuori semplici, aperti alla grazia".

Come un uragano

Fr. Martinato viveva in questa atmosfera di laboriosa e serena attività missionaria, quando la morte, con la velocità e la forza distruttrice proprie degli uragani che sconquassano la zona, si abbatté su di lui.

La febbre che non conosceva da anni, gli riempì di fuoco le vene e gli bruciò le ossa. Dice p. Ceriani, per anni compagno di missione: "La malaria non curata si era accumulata nel suo organismo. Quando si svegliò, fu devastante. Solo 15 giorni di malattia. Si pensò subito alla solita malaria che i missionari provenienti dal Sudan portano nel sangue. Una visita presso l'ospedale locale di Katilo. Niente di grave: un poco di vomito, un po' di diarrea. Ma i confratelli insistettero finché andò in un ospedale più attrezzato. Finalmente acconsentì di farsi portare a Nairobi. I medici non riscontrarono niente di grave. Ma lunedì 26 luglio il Fratello ebbe un'ispirazione: volle l'olio santo e pregò, pregò, pregò mantenendosi in una serenità ammirabile. Il 27 mattino, il cuore cedette. E proprio nel santo anniversario della beata morte di mons. Mazzoldi, fr. Martinato volò in Cielo, certamente accolto dal santo Vescovo che in terra gli era stato padre e amico. Così il buon soldato di Cristo, che teneva le missioni con scrupolosa cura perché non mancasse niente ai confratelli e perché la loro opera apostolica fosse il più possibile efficace, andò a ricevere il premio promesso", ha scritto p. Marengoni.

Oltre 40 confratelli sacerdoti, 30 fratelli e 50 suore, senza contare i fedeli che furono numerosissimi hanno pregato al suo funerale. Ci furono testimonianze commoventi che celebrarono la sua fedeltà, la sua fede, la sua laboriosità, il suo amore per la gente e per i confratelli. "Né le sofferenze e le paure in Uganda col dittatore Amin, né la solitudine di Moyale in Kenya, né il torrido clima di Katilo hanno minimamente fiaccato la fermezza missionaria di fr. Efrem che ha coronato questa fedeltà con una morte santa, serena, semplice", ha detto il superiore.

A nome di tutti i suoi cari p. Marengoni ha gettato una manata di terra sulla cassa ormai calata nella fossa, e più di uno hanno versato lacrime di commozione, di dolore, di gioia pregando per un arrivederci eterno.

"Tutta la notte seguente - scrive p. Marengoni - ho sognato la gloria di fr. Efrem, per tutta la sua vita missionaria, per la sua umiltà, per la sua disponibilità, per la sua vita missionaria e per la sua eroica obbedienza. Virtù che hanno fatto di lui un vero, un santo fratello comboniano".

A questa testimonianza aggiungiamo quella del suo p. Provinciale: "Ci ha lasciato un'immagine viva di fedeltà ai suoi doveri, un forte amore per la Chiesa e per l'Istituto, un esempio di gentilezza e di generosità".

Possiamo onestamente concludere che questi sono i Frateli di cui la Congregazione ha bisogno. Che dal Cielo fr. Efrem Martinato ce ne mandi tanti, proprio con il suo spirito.

P. Lorenzo Gaiga

Da Mccj Bulletin n. 181, gennaio 1994, pp. 104-112