L'esistenza terrena di p. Cesare Pellegrini è stata segnata dalla sofferenza, e ciò dagli anni dell'infanzia fino alla morte. Da ragazzino fu provato dalla povertà più estrema che gli fece sperimentare anche la fame; da giovane fu tormentato da una serie di interrogativi che lo fecero vivere in un continuo stato di crisi; da uomo maturo ebbe atteggiamenti di ordine teologico che provocarono la reazione e, qualche volta, l'incomprensione dei superiori; da anziano si chiuse in una strana forma di isolamento che egli, tuttavia, visse con molto spirito di fede.
Una decina di giorni prima della sua morte, lo incontrai nel refettorio di Casa Madre. Sapevo che era gravemente malato e che aveva le ore contate. Il suo aspetto fisico, del resto, manifestava la gravità del male che si portava addosso. Forte dell'amicizia che mi legava a lui, mi avvicinai e cominciai a parlare dei suoi fiori, degli amici fioristi che ci regalavano i bulbi, del suo giardino. Ad un certo punto si commosse ed ebbe un singhiozzo. "La mia vita è stata solo sofferenza ù disse ù ma sono contento, sai, sono contento". Poi si chiuse in un silenzio che era molto imbarazzante per tutti e due. Gli diedi un colpetto con la mano sulla spalla e lo salutai. Si sforzò di sorridere e aggiunse: "Ora vado perché non mi reggo più in piedi".
Mi fanno arrabbiare le formiche
Primo maschio di cinque fratelli e quattro sorelle, nati in una squallida soffitta, Cesare Pellegrini intercalò le scuole elementari con il mestiere di ciabattino-apprendista. A tavola, il più delle volte, la numerosa famiglia era costretta a tacitare le urla dello stomaco vuoto con un pugno di granone cotto in acqua salata.
Papà Cataldo, contadino a giornata e quindi, per molti giorni dell'anno, senza lavoro, era fatto a suo modo: nessuno doveva accorgersi dell'estrema povertà in cui viveva la famiglia. Il suo orgoglio di lavoratore disoccupato lo fece infierire, una sera, contro mamma Luisa Reggio che lo aveva umiliato chiedendo in prestito (non in elemosina) una pagnotta, per non mandare a letto i più piccoli completamente digiuni.
"Eppure non era la fame - ha scritto p. Pellegrini - quella che spesso mi faceva mordere le povere lenzuola del mio letto, mentre accanto dormiva il secondogenito. L'eterno susseguirsi delle settimane, tutte uguali, non poteva suggerirmi un senso alla mia vita. Mi faceva impazzire l'inutile ciclo delle formiche che si affaccendano, nella buona stagione, a rifornire i loro granai per poter mangiare durante l'inverno, per riprendere a primavera l'opera del loro rifornimento. Sopravvivere! A fare che cosa?".
Il senso della vita, la verità intima delle cose, erano già un problema per il piccolo Cesare che intanto si domandava che cosa avrebbe fatto di quella sua esistenza. Il ciabattino no di sicuro! Che cosa allora? Era povero. L'esperienza di non avere neanche l'indispensabile per vivere (non per niente gli facevano rabbia le formiche che hanno sempre da mangiare) lo fece decidere per coloro che erano poveri come lui o forse ancora di più. Poveri di cibo, poveri di risposte agli interrogativi della loro intelligenza: gli Africani.
Era un ragazzino mite
Nel 1927 riuscì a terminare le elementari al paese, con una pagella veramente bella. Cesare aveva 15 anni: la povertà della vita e la necessità di lavorare per contribuire al mantenimento della famiglia gli avevano impedito il corso regolare degli studi elementari. Già da tre anni, però, bombardava i genitori perché lo lasciassero entrare dai Comboniani che aveva casualmente conosciuto. Niente da fare: mancavano i soldi per pagare la retta. Cesare pregò, pianse anche. Finalmente il 4 ottobre di quel 1927 poté scrivere la sua prima lettera al superiore dell'Istituto Comboni di Brescia.
"Vengo con la presente a far viva ed insistente preghiera onde essere accettato nel loro Istituto Seminario Apostolico. Mi sento chiamato dal Signore alla vita missionaria per dedicare tutta la vita alla conversione dei poveri Neri dell'Africa. Non creda, reverendissimo padre, che questa mia vocazione sia una decisione inconsulta. Sono tre anni che sto appresso ai miei genitori perché mi mettano in grado di poter entrare nel loro Istituto, ma l'unica difficoltà è stata dal lato finanziario. I miei genitori sono poveri e non hanno la possibilità di sostenere le spese necessarie.
Ora però il Signore ha provveduto; segno, questo, che mi chiama realmente. Persone benefattrici provvederanno per me. Vengo, quindi, a fare umile domanda di essere accettato". Don Giuseppe Saraceno, parroco di Sonnino certificò che: "Il giovane Cesare Pellegrini ha mantenuto sempre ottima condotta morale, religiosa e civile, e ha dato segni non dubbi della sua vocazione da molto tempo".
P. Giuseppe Simonelli, allora assistente dei ragazzi nell'Istituto Comboni di Brescia, ricorda molto bene il giovane Pellegrini. "Era un ragazzo mite - dice - molto impegnato nelle sue cose e rispettosissimo con i compagni. Alle volte mi stupiva con ragionamenti troppo seri per la sua età, quasi più grandi di lui. Ma era buono e desideroso di farsi missionario per andare in Africa".
Risposte evasive
Un giorno Cesare andò nell'orto e si mise ad osservare una piantina di lattuga. Voleva scoprirne il segreto della vita che si nascondeva in quella pianta. Per questo cominciò a togliere le foglie fino a ricorrere all'aiuto di uno spillo per arrivare alle più piccole. Trovò solo la radice: la vita col suo segreto era più profonda, nascosta all'occhio umano.
Dopo aver raccontato questo episodio in sé abbastanza significativo, p. Pellegrini prosegue, in una specie di diario che ci è rimasto: "Si può quindi immaginare quanto abbia dovuto soffrire da giovane seminarista quando, ai miei quesiti profondi, ricevevo risposte evasive o superficiali".
Era una forma di povertà anche aver la voglia di conoscere ed essere privo dei mezzi necessari per saziare questo desiderio. Intanto accelerò l'iter degli studi per cui, nell'agosto del 1931 (aveva 19 anni), entrò nel noviziato di Venegono.
Così anche il Cristo
La seconda domenica dopo l'Epifania del 1932 il novizio Cesare Pellegrini fu particolarmente colpito dalla I Lettera di san Paolo ai Corinti 12,12: "Come, infatti, il corpo è una cosa sola e (tuttavia) possiede molte membra, e d'altra parte pur essendo molte le membra del corpo, uno è il corpo, così anche il Cristo".
"La frase - scrive p. Pellegrini - mi provocò una violenta reazione interiore: perché trascinare Cristo giù dal cielo per inserirlo nei discorsi intorno alla nostra interdipendenza di individui umani? Cristo, dunque, era un personaggio che entrava nella vita di ogni uomo, di ciascuno di noi. Eppure mi avevano sempre detto che Cristo sta in cielo e nel Santissimo Sacramento!. Quel "così anche Cristo" inserito nella realtà di ogni uomo costituiva per me un rivelazione. Per quel senso di onestà che ho ereditato da mio padre - prosegue Pellegrini - chiesi di poter leggere tutto il contesto del brano. Fu così che ebbi in mano per la prima volta tutte le lettere di San Paolo. Qualche anno prima ero riuscito a leggere Gli Atti degli Apostoli. Gli Atti e le Lettere paoline divennero mio cibo quotidiano. Logico quindi che il mio cristianesimo, e di conseguenza quello che ho sempre cercato di comunicare agli altri, fosse l'espressione della mia stessa esperienza, cioè il Cristo da me vissuto come esigenza radicale, come senso della mia vita".
Pronto a leccare la terra
Emessi i Voti temporanei il 7 ottobre 1933, dopo un anno trascorso a Verona come scolastico, Pellegrini fu inviato a Brescia, poi a Trento e a Riccione come assistente dei seminaristi comboniani. Nella domanda dei Voti perpetui, redatta "dalla villeggiatura di Fai della Paganella, Trento", il 29 agosto 1937, Pellegrini dice: "Prometto sinceramente che in Congregazione unica norma di mia vita sarà il Regolamento e la volontà dei superiori". Poi aggiunge: "Confido che vorrà compatire i molti miei difetti, i quali del resto non hanno mai escluso una sicura volontà di fare il bene".
P. Mariani, superiore, aggiungeva in calce: "Mi permetto di osservare che il soggetto dovrebbe essere ammonito per maggior docilità e maggior dipendenza alle disposizioni dei superiori. Facile, per quanto credo si debba ascrivere più ad ingenuità che a cattiveria, a voler interpretare le disposizioni secondo il proprio modo di vedere ed a voler seguire questo".
Alle ammonizioni, Pellegrini rispondeva con vero spirito di umiltà e di sottomissione. Eccone un esempio: "Posso assicurarla, reverendissimo Padre Generale, che non ho provato tanto dolore alla morte di mio padre, quanto ne sento in questo momento. Le sue parole mi hanno schiacciato, non tanto per il castigo che mi minaccia, no certo, perché mi sento pronto anche a leccare la terra pur di restare in Congregazione e poter fare un po' di bene. Ma ciò che maggiormente mi addolora è il pensare che la mia condotta abbia potuto essere interpretata come insubordinazione, mentre lo sa il Signore quanto io mi senta attaccato ai miei Superiori e come io sia disposto a tutto pur di non allontanarmi benché minimamente dalla loro volontà. Che se io alle volte avessi veramente errato, ne chiedo umilmente perdono, pronto a qualunque riparazione".
Emessi i Voti perpetui a Riccione il 24 aprile 1938, fu ordinato sacerdote a Verona l'11 settembre dello stesso anno. Chiese di partire per l'Africa, ma l'obbedienza lo dirottò per lidi più familiari: tornò a Riccione come formatore. Nel 1940 veniva aperta la scuola apostolica di Pesaro, in sostituzione di quella di Riccione. P. Pellegrini vi si trasferì con i ragazzi e vi rimase fino al 1941, anno in cui divenne promotore vocazionale a Carraia.
Cappellano militare
Dal novembre del 1941 al maggio del 1943 fu cappellano militare. Il tenente cappellano Cesare Pellegrini finì all'ospedale militare di Acerra. Sarebbe finito in Russia se un "ittero benevolo" non lo avesse promosso da tenente a paziente. In Russia vi andrà p. Zelindo Marigo. Ripresosi, chiese l'esonero che gli fu concesso senza particolari difficoltà.
A Riccione era rimasta la chiesa in mano ai comboniani. P. Pellegrini, che con i giovani ci sapeva fare, vi fu mandato come animatore giovanile. Lavorò molto bene attirandosi le simpatie di tutti. Era un lavoratore infaticabile, pieno di entusiasmo e di iniziative. P. Vignato (superiore generale), però, si sentì in dovere di scrivergli una lettera nella quale lo invitava a limitarsi negli strapazzi pena cadere nell'esaurimento che era sempre in agguato nella sua personalità. Inoltre lo metteva in guardia dal "fare ciò che vi trasporta una troppo effervescente fantasia".
Dall'ottobre del 1947 al luglio del 1948 fu inviato nella più riposante chiesa della Santissima Trinità di Trento. I nervi ne ebbero un beneficio, ma dopo alcuni mesi il Padre già scalpitava in cerca di giovani che costituivano l'elemento migliore per la sua personalità.
Capo dei "Baschi verdi" a Gozzano
Intanto era stata aperta la casa di Gozzano in provincia di Novara dove, nel 1947, era stato trasferito il Noviziato. I Gesuiti, che avevano passato la mano ai Comboniani, avevano lasciato anche una fiorente Congregazione mariana formata da giovani impegnati. Pane per i denti di p. Cesare. Vi fu inviato nel 1948 e vi rimase fino al 1951.
A Gozzano p. Pece (così è ricordato ancora oggi) si è dimostrato un animatore giovanile di gran pregio. Insieme a p. Sorio diede vita a un periodico fatto di scritti e di disegni giocosi. Si impegnò nell'attività catechistica, teatrale e ricreativa facendo riprendere vigore all'oratorio.
Si ebbero mostre del libro, gare, concorsi e altre iniziative culturali. Riuscì, a quei tempi di grande povertà, ad organizzare un pellegrinaggio a Roma con una ventina dei suoi "Baschi verdi" per testimoniare l'impegno cristiano della gioventù gozzanese.
In quel tempo a Gozzano si sentivano due esigenze nell'ambito parrocchiale: edificare una tomba in grande stile per il gesuita p. Picco, morto nel 1946 in concetto di santità e sepolto nel locale cimitero, e costruire l'oratorio per i ragazzi, visto che si servivano dei precari ambienti annessi all'Istituto comboniano.
Inutile dire che p. "Pece" si schierò con tutte le sue energie dalla parte dell'oratorio. "Lasciate che i morti seppelliscano i loro morti, bisogna pensare ai vivi, ai giovani", andava dicendo. In questo modo si attirò le ire di molti. Le cronache dicono che "venne a diverbio anche col direttore dei Guanelliani e delle Suore del Gentile, residenti in paese, ma a fin di bene". Vinsero quelli della tomba. L'oratorio venne costruito dopo tanti anni, quando i giovani che dovevano abitarlo erano ormai dispersi.
"Ci ha condotti con saggezza e bontà", dice uno dei suoi Baschi verdi. E alla notizia della sua morte, hanno voluto ricordarlo con una solenne messa funebre. E' stato il loro "grazie" per un uomo, un sacerdote, che tanto si è prodigato per loro.
Accusato di eresia
Nei suoi discorsi, nelle sue conferenze, p. Pellegrini portava avanti i suoi discorsi sulla centralità di Cristo nella vita di ogni uomo mettendo quasi in opposizione il cristianesimo di Cristo con il cristianesimo della Chiesa con le sue strutture, la sua gerarchia, i suoi codici.
Intanto i superiori inviarono p. Cesare a Sunningdale, in Inghilterra, come padre spirituale dei professi (1951-1952), poi come vice parroco alla residenza del Provinciale di Londra (1952-1953), infine a Napoli - sempre come vice parroco - dal 1953 al 1960.
Nel 1958, dopo una conferenza agli assistenti dell'Azione Cattolica, fu invitato a sviluppare l'argomento in un libro. Scrive Pellegrini: "Costretto dalla serietà della carta stampata, mi sprofondai in un'investigazione dettagliata e radicale della logica interna delle singole affermazioni dei soliti testi. Non mi dilungo nel descrivere la mia tragedia: vidi crollare in frantumi una meravigliosa costruzione logica vecchia di secoli. Tante mie vecchie certezze, realmente mai sottoposte a verifica, mi si rivelarono pie credenze di popolino. Piansi dalla paura e dallo sgomento. Credo che la mia ultima agonia non potrà riuscirmi altrettanto agonizzante. Ma quel Dio che tutto aveva preordinato, aveva già messo sulla mia strada p. Pio da Pietralcina e p. Felice Cappello, tanto dotto, ma soprattutto uomo di Dio. Sui frantumi della mia vecchia costruzione intellettuale spuntò, improvviso, come luce vivissima, un nuovo principio: l'Homo Cristus Jesus che avrebbe presieduto alla costruzione della mia nuova sintesi".
P. Pellegrini annotava in un diario i pensieri che man mano gli venivano e li sottoponeva all'attenzione del dotto gesuita p. Cappello con una certa apprensione, perché gli parevano cose superiori alla sua portata. Questi gli diceva: "Stia tranquillo, benedetto figliolo; lasci continuare chi ha preso l'iniziativa". Incoraggiato da queste parole, p. Pellegrini proseguiva nella sua ricerca, sicuro di essere "sotto l'azione di Dio".
Dopo un breve periodo trascorso a Firenze in attesa di destinazione (1960), periodo del resto turbato dalla lotta per le sue idee, p. Cesare venne destinato alla Spagna. Scrive p. Alberto Doneda: "Abbiamo trascorso un breve periodo insieme a San Sebastian. Sono stato testimone dei suoi primi scritti e dell'idea del libro. Elettomi suo teologo per scrupolo di fede, mi faceva leggere tutto. Le sue intenzioni erano inamovibili come ispirazioni, e santissime. Avevamo insieme lunghe e snervanti discussioni. Cercavo di essere simpatizzante e compiacente sottolineando ciò che mi sembrava positivo e minimizzando i punti controversi. Devo riconoscere che in tante cose dava nel segno".
In realtà certe affermazioni di Pellegrini lasciavano perplessi da un punto di vista teologico e qualcuno, qua e là, cominciava ad arricciare il naso.
Pellegrini obbedì
Uno di questi era p. Gaetano Briani, superiore generale, il quale doveva vegliare sull'ortodossia dei suoi missionari. Il 12 settembre 1961 scrisse al Padre una lettera piuttosto pepata. "Reverendo e caro p. Pellegrini, è da qualche tempo che ricevo lamentele e dai Confratelli della Spagna e dai Confratelli che passano da costì, circa il suo modo di parlare e le idee che esprime. Speravo che quanto successo a Firenze l'avesse reso più prudente. Lei campa approvazioni di p. Cappello e p. Pio, e disprezza l'autorità della Chiesa, la gerarchia, ecc.
Non so fino a che punto è vero quanto riferiscono, e quanto vi sia di esagerato. Spero vi sia molto di esagerato. Gli scritti che ha lasciati a me, e che diedi ad esaminare ad un esperto, sono ancora sotto osservazione e non posso darle una risposta. Non posso, però, lasciare che lei continui su questa via: le proibisco, quindi, di parlare delle sue idee sia con i Confratelli che con le persone esterne; sia nelle prediche che nelle conversazioni ordinarie. Le proibisco di dare a leggere quanto lei scrive sulla santa Bibbia o su argomenti teologici o morali. L'ubbidienza le darà la garanzia che il Cuore di Gesù la benedice. Le auguro ogni bene e mi raccomando alle sue preghiere".
Pellegrini obbedì.
"L'allontanamento dal ministero sacerdotale (mi fu lasciata la sola messa in un convento di clausura) - scrisse il Padre - mi costrinse a passare tutto il mio tempo in una stanzetta di dodici metri quadrati. Fu certo disposizione provvidenziale di Dio perché ebbi tempo e possibilità di ordinare le mie carte. Intanto era iniziato il Concilio Vaticano II. Qualche raro amico, che veniva a trovarmi, mi faceva coraggio dicendo: 'A Roma i Padri conciliari ti danno ragione'. Qualche altro insinuava: 'Aspetta che finisca il Concilio e che il Sant'Uffizio riprenda nelle mani il governo della Chiesa! Vedrai allora quale sarà la sorte dei nuovi falsi profeti!'".
Scrive Doneda: "Le umiliazioni e certi maltratti lo avevano reso supersensibile e contrario a tutto ciò che sapeva di legge e di autorità. Ha sofferto moltissimo per l'incomprensione ed il non riconoscimento di certe sue notevoli qualità".
Con gli Amici dei Lebbrosi
Nel 1965 p. Cesare lasciò la scuola apostolica di Corella (Spagna) dove si trovava dal 1963 e fu dirottato a Roma, nella casa generalizia. Vi rimase alcuni mesi finché, nel 1966, si stabilì a Bologna in via del Meloncello per dare una mano a p. Corti nella conduzione dell'Associazione Amici dei Lebbrosi.
Il contatto con la realtà degli ultimi tra gli ultimi, quali sono i malati di lebbra, risvegliò in p. Cesare il suo ideale di donazione ai poveri che fu uno dei motivi della sua scelta vocazionale.
"Al primo contatto con lui - scrive la signorina Carla Poliaghi che lavorava in Associazione - si aveva l'impressione di una persona burbera, poco comunicativa, dalle parole estremamente misurate. In realtà era buono e sensibile. Quando registrava i versamenti era molto attento ai problemi dei benefattori scritti nella causale del conto corrente. Non ringraziava con una semplice cartolina, ma con lettere piene di carità fraterna.
Lo contraddistingueva anche un notevole impegno nel lavoro, oserei dire perfino eccessivo. Infatti lavorava senza concedersi un giusto momento di sollievo.
Oltre la registrazione delle offerte, p. Cesare curava l'archivio, la stampa degli indirizzi per la spedizione del giornalino e la verifica dei giornali ritornati. Sapeva organizzare il lavoro dei volontari che si prestavano a dare una mano in Associazione, specie nei momenti di punta".
P. Pellegrini ha seguito fino alla morte l'Associazione Amici dei Lebbrosi e si è sempre interessato con amore ai suoi problemi. Leggeva immancabilmente il periodico e parlava volentieri dei lebbrosi con i confratelli che, dopo di lui, avevano qualche incarico in Associazione. Un giorno disse: "Ognuno di noi dovrebbe fare qualche esperienza con la realtà 'lebbrosi'. E' una scuola che insegna molte cose".
San Paolo apostata
E' il titolo del libro, un grosso libro, che p. Pellegrini ha cominciato a scrivere nel 1967 quando era a Bologna e che lui considerava il Vangelo di Paolo. Il titolo "San Paolo apostata" è volutamente provocatorio. L'Autore, più che procedere con un concreto ragionamento teologico, si basa di preferenza sulle sue intuizioni.
"Essendo esperienza personale, non ti è mai venuto il dubbio di poterti sbagliare?", gli ha chiesto un amico. "Dubbio? E' stata una straziante agonia, la mia, una lacerazione dello spirito. Quante volte ho ripetuto la supplica al Padre di farmi tornare ingenuo come prima. Nel mio cuore, nonostante i nove anni di 'esilio', c'è una tranquillitas magna favoritami anche dall'aiuto di p. Pio e di p. Cappello. Per il Vangelo di Paolo sarei disposto a seguire l'Apostolo delle genti non solo fino alle catene, ma fino alla morte". Come si vede, p. Pellegrini era fermamente convinto della giustezza delle sue idee.
Della vita di Cristo prende in considerazione principalmente la risurrezione. Partendo da questa verità, sviluppa la teologia dell'incarnazione di Cristo nell'uomo d'oggi e nella sua cultura. Il vero cristiano deve realizzare quel "così anche il Cristo".
Non è possibile riportare brani del libro che si divide in tre grandi parti. Tuttavia, basta il titolo di alcuni capitoli per farci intuire il pensiero teologico dell'Autore. "Il Cristo ucciso perché eretico, scismatico e ateo"; "La morte del 'Rabbino'"; "I falsi fratelli"; "La Legge, nemica del Cristo"; "La Legge, negazione di Dio"; "La religione, nemica dell'uomo"; "Cristo è l'uomo senza aggiunte"; "La verga del pedagogo non fa più paura al figlio". Pellegrini insiste particolarmente su questo concetto fondamentale: quando la Legge (e quindi la religione) diventa negazione dell'uomo perché tende ad avere la supremazia sullo stesso, non è più di Cristo. Da qui la posizione di rottura con le Autorità quando diventano incapaci di dialogo e di rispetto nei confronti dell'uomo.
Tra affermazioni che richiederebbero approfondite spiegazioni, si trovano pagine meravigliose specie sulla misericordia, sull'accoglienza, sul superamento delle formalità da parte di Dio e di Cristo il quale ha saputo entrare in dialogo con ogni tipo di uomo per riabilitarlo e salvarlo ("così anche il Cristo").
Questo libro, che indubbiamente ha richiesto una notevole fatica e un impegno non comune, ha contribuito a "promuovere" l'Autore a "ortolano e giardiniere", in Casa Madre.
Intermezzo romano
Dal 1969 p. Pellegrini fu confinato a Verona. L'uomo brillante di un tempo, l'animatore fantasioso di giovani, l'infaticabile creatore di iniziative, non si riconosceva più. Evitava le discussioni e i dialoghi, preferendo vivere da solo la propria esistenza. Probabilmente s'immaginava di vivere le "catene" di Paolo. Specialista in micologia, si dedicava alla raccolta di funghi e alla cura prima dell'orto e poi del giardino. Lavori che faceva con una dedizione e un amore ammirabili.
Nel 1974 il generale p. Tarcisio Agostoni lo nominò "Membro del Segretariato Generale per le Missioni, sezione studi e ricerche". Doveva prestarsi per il lavoro di preparazione della "Storia del Cristianesimo in Sudan". Svolse questo lavoro stando a Verona. Nel 1975 fece altri lavori in preparazione del Capitolo Generale della Congregazione. In una cartella del novembre del 1976, accanto alla voce: Ufficio attuale, p. Cesare scrisse: "ORTOLANO e incaricato delle biblioteche della provincia". Dopo la voce: Informazioni utili, aggiunse: "Ho lavorato come membro della Commissione internazionale analisi e dati per l'inchiesta mondiale sulla formazione religiosa. Nominato membro della Commissione studi e ricerche, fui allontanato da Roma perché inviso a qualche confratello".
La lunga giornata di Verona
Non potendo esercitare il ministero sacerdotale all'esterno (p. Pellegrini non avrebbe potuto non parlare delle sue idee teologiche) si preoccupò di guadagnarsi il pane quotidiano con il lavoro delle sue mani. Per anni lavorò come ortolano dimostrando rara capacità. Per poter comperare le sementi, i concimi e tutto ciò che concerne l'orto e il giardino senza incidere sulle finanze della casa, di tanto in tanto portava ai mercati generali di Verona i suoi prodotti che vendeva servendosi della compiacenza di qualche suo amico che aveva la licenza per fare questa operazione.
In seguito l'orto passò al Fratello incaricato. A Pellegrini rimase il giardino. Qualcuno poteva sorridere nel vedere il Padre piegato a terra a strappare anche le più piccole erbe che disturbavano le piante. Ottenne dei fiori veramente superlativi. E guai a reciderli senza il suo permesso. "Saresti contento se io tagliassi un dito a te?", disse un giorno a un confratello che voleva delle rose. "Ma allora a cosa servono i suoi bei fiori?". "Devo essere io a tagliarli per non danneggiare la pianta. Non sai che anche la raccolta dei fiori è un'arte e la pianta è un essere vivente che soffre?".
Quando non era in giardino lo si vedeva in Ufficio Nigrizia a lavorare per tenere aggiornati gli abbonamenti alle riviste. Non perdeva un minuto. Il tempo, per p. Cesare, era qualcosa di prezioso. "L'attimo che passa non torna più!".
Durante l'estate andava immancabilmente per un lungo periodo a Castelvecchio (Vicenza) nella casa di villeggiatura usata dalla comunità di Thiene. Partiva con un sacco nel quale teneva le sue poche e povere cose. La povertà di p. Pellegrini era veramente francescana e non c'era verso di fargli prendere qualche cosa di nuovo e di più decente. Al mattino s'inoltrava nei boschi a raccogliere funghi e ad intrattenersi con la natura con la quale entrava in sintonia e in spirito di profonda preghiera. Poi leggeva. Pellegrini ha sempre letto molto, quasi alla ricerca di risposte che non gli venivano dagli uomini.
Essere cristiani
Celebrava la santa messa con gli ammalati, poi lavoro o stanza. Qualche volta lo si sorprendeva alla finestra della sua camera in contemplazione del giardino sottostante. La visione dei fiori era per lui motivo di elevazione, di preghiera, di contemplazione. Parlava con essi e, attraverso essi, con Dio.
Esercitava anche il ministero sacerdotale, a modo suo e nei confronti dei rari amici (specie tra i raccoglitori di funghi) che lo stimavano per la sua umanità e tolleranza.
Un giorno arrivò a Verona una donna da Ivrea con il suo bambino di sette anni. Andò dal direttore del Piccolo Missionario e gli disse: "Sono una donna sola con questo bambino. Devo essere ricoverata all'ospedale di Borgo Roma e non so dove mettere il bambino. Vengo da lei perché è l'unica persona che conosco in questa città, essendo una lettrice del Piccolo Missionario. Lei mi deve aiutare". "Non aveva qualche parente ad Ivrea?". "Nessuno! E poi è meglio che il mio bambino me lo porti con me".
Il direttore stava pensando che cosa potesse fare, quando vide passare p. Pellegrini. "Mi può dare una mano in questa faccenda", gli chiese.
Sentito il caso, disse: "Prendi la macchina, la donna e il bambino e vieni con me". Si andò nella Zona Fiera, quindi vicino a Borgo Roma, salimmo una scala, e ci trovammo in una casa dove c'era una donna col marito e tre bambini. "Voi siete cristiani - disse p. Cesare - perciò dovete ospitare questo bambino per il tempo in cui la mamma starà all'ospedale". Parlò in un modo così deciso, per cui era impossibile obiettare. Il papà disse: "Averne tre o quattro non cambia niente". Il bambino rimase lì e noi si proseguì per l'ospedale. Tutti i giorni il ragazzino veniva accompagnato da uno o l'altro dei genitori "adottivi" a visitare la mamma. Fu un'esperienza bellissima. Quando il direttore del Piccolo Missionario si congratulò con p. Cesare per il buon successo che ebbe la cosa, questi rispose: "E ti meravigli? Questo vuol dire essere cristiani!".
Morto senza disturbare
Nei primi mesi del 1989 p. Cesare cominciò a mostrare un grave decadimento fisico generale. Ma egli si guardò bene dal ricorrere a medici o a infermieri. Dopo ripetuti tentativi, si riuscì a ricoverarlo in pneumologia per accertamenti che confermarono una forma tumorale polmonare. Successivamente venne ricoverato in toracica per vedere se c'era la possibilità di un intervento chirurgico. Ma invece di essere operato, a seguito dell'aggravarsi del suo male, venne accolto in oncologia per radiazioni al cobalto. Non c'era più nulla da fare per cui rientrò nella comunità di Casa Madre riprendendo il lavoro nel suo roseto.
Si rifiutò assolutamente essere ricoverato nel Centro Assistenza Ammalati. Consapevole della prossima fine, volle attendere la morte in piedi, da solo, come un soldato di prima linea. Questa infatti lo colse nella sua stanza nella mattinata del primo giugno verso le ore undici.
Una testimonianza
Scrive mons. Bartolucci: "Conservo un commosso ricordo del p. Cesare Pellegrini. Lo ebbi come formatore nei miei primissimi anni di seminario; a Riccione nel 1939-40 e negli anni successivi a Pesaro.
Tra tanti formatori che ebbi nel lungo periodo della formazione, p. Pellegrini fu certamente uno di coloro che più positivamente hanno influito nella mia vita. Ha lasciato un segno in me.
Del resto, questa impressione è condivisa da quanti - confratelli ed ex seminaristi comboniani - lo ebbimo in quei lontani anni, come educatore.
Quando ci ritrovavamo, era spontaneo tra noi ricordare gli anni vissuti insieme e, nel nostro discorso come nel nostro ricordo, il primo posto era sempre riservato a lui: p. Cesare Pellegrini.
Tutti gli anni, verso Natale, p. Pellegrini soleva ritrovarsi a Riccione per una fugace visita agli amici. E vari dei miei ex compagni si recavano là per salutarlo. Questo ricordo affettuoso, fatto di stima profonda e gratitudine sincera, che ha sfidato anni e decenni, non può essere evidentemente frutto di una simpatia o di una emotività di adolescenti.
Noi che lo abbiamo avuto vicino in quei lontani anni, ricordiamo soprattutto la sua perspicacia nello scrutare e intendere i nostri stati d'animo, le nostre difficoltà di adolescenti. Non è possibile dimenticare la sua saggezza nell'intervenire nel modo e nel tempo più opportuni per correggere, animare, stimolare. Non spegneva mai il lucignolo fumigante. Sapeva leggere nel nostro animo. Sapeva comprenderci. Ci aiutava a riflettere e ci guidava con mano sicura come un fratello maggiore, saggio e ripieno di spirito di pietà. Personalmente ho ricevuto molto da lui per cui chiedo al Signore che tenga conto di tutto il bene che ha fatto a me e a tanti altri, comboniani e non comboniani.
L'ultima volte che venni a Verona (settembre 1987), ricordo che lo vedevo dalla mia finestra, di primo mattino, mentre lavorava nel suo giardino con una solerzia e tenacia ammirevoli, e perfino eccessive.
Mi piaceva stare con lui, anche se gli anni e le difficoltà della vita lo avevano 'straniato' un poco, rendendolo asciutto e ruvido nei modi e parco nelle parole.
Quando gli facevo osservare che poteva ormai considerarsi dispensato da un lavoro tanto severo e logorante, mi rispondeva: 'Bisogna pur che in qualche modo mi guadagni da vivere'.
Addio, p. Cesare. So che puoi presentare al tuo Signore ceste ricolme di fiori e di frutti: la tua vita che non fu priva di pene e di fatiche; le tue mani callose, sporche e profumate di terra; il tuo cuore pulito e fragrante di amore. Noi ci ricorderemo di te; tu ricordati di noi presso il Signore".
P. Cesare Pellegrini, l'uomo mite, rispettoso degli altri, senza alcuna esigenza per se stesso, che ha pagato a caro prezzo la coerenza con se stesso e con le sue idee, ci lascia un esempio insigne di povertà, di lavoro indefesso, di sottomissione e di accettazione della sofferenza senza ribellarsi, senza contestare o condannare. La sua salma riposa ora nella tomba di famiglia dei Comboniani nel cimitero di Verona. P. Lorenzo Gaiga
Da Mccj Bulletin n.165, gennaio 1990, pp.76-87