Giovedì 10 ottobre 2024
Il primo vescovo della diocesi di Bentiu, eretta da Francesco il 3 luglio 2024, missionario nel Paese dal 2005, racconta a Missio Roma le sfide ancora aperte. «C’è tanta insicurezza e si teme che il conflitto sia sempre dietro le porte – spiega il vescovo –. La pace è molto fragile soprattutto perché non c’è pace sociale. Nel Paese c’è grande povertà, mancanza di servizi, corruzione».

Evangelizzazione, istruzione, giustizia e pace, promozione di uno sviluppo sostenibile che rispetti l’ambiente e la dignità umana. Per far fronte a queste sfide il Sud Sudan non ha bisogno solo di aiuti materiali ma anche di chi vuole testimoniare «Gesù Risorto in una situazione in cui ancora si vive la croce». È l’appello lanciato da monsignor Christian Carlassare, primo vescovo della nuova diocesi di Bentiu eretta da Papa Francesco il 3 luglio scorso.

Missionario comboniano in Sud Sudan dal 2005, il presule, in occasione dell’ottobre missionario, ha rilasciato una video testimonianza pubblicata sul sito dell’Ufficio diocesano per la cooperazione missionaria tra le Chiese. Nonostante l’accordo di pace firmato nel 2019, il Sud Sudan vive «un momento di transizione» segnato da continui rinvii elettorali. C’è tanta insicurezza e si teme che il conflitto «sia sempre dietro le porte – spiega il vescovo –. La pace è molto fragile soprattutto perché non c’è pace sociale. Nel Paese c’è grande povertà, mancanza di servizi, corruzione». Una situazione aggravata dalle recenti alluvioni che hanno devastato i campi, rendendoli inutili sia per l’agricoltura che per l’allevamento, settori fondamentali per l’economia.

L’erezione della nuova diocesi, sottolinea il presule, «è un segno di vicinanza della Chiesa a questo territorio e a questa popolazione particolarmente colpita dal conflitto e dalla marginalizzazione di un Paese che fa fatica a riconoscere la stessa dignità a tutti i gruppi». La coabitazione di gruppi etnici storicamente in conflitto, come Nuer e Dinka, all’interno di un’unica diocesi, è «un segno per tutto il Paese».

La diocesi ha 7 parrocchie per una popolazione di un milione e duecento mila persone, di cui circa 400mila cattolici. Sette i preti diocesani, due le comunità religiose: i Missionari comboniani e i frati Cappuccini. Per operare però – rileva ancora Carlassare – la comunità ecclesiale ha bisogno «non solo di risorse materiali ma soprattutto di risorse umane, di persone pronte a dare la vita e cooperare per questa missione».
Missio Roma

Mons. Christian Carlassare in Sud Sudan.

OTTOBRE MISSIONARIO

«Ai crocicchi delle strade»

Dal campo profughi di Rubkona in Sud Sudan ad Assisi: dai “cro­cicchi della missione” arriva la voce di mons. Christian Carlassare, com­boniano, vescovo di Rumbek e della neonata diocesi di Bentiu, suffraganea di quella della capitale Juba. “La regione in cui mi trovo è una delle più povere del Paese – ha detto il vescovo –; mancano i servizi essen­ziali, in una situazione di emergenza causata dagli allagamenti che vengono dal Nilo”.

A Rubkona, vicino a Bentiu, 100mila persone sono stipate nel più grande campo sfollati del Sud Sudan: si tratta soprattutto di Dinka costretti a lasciarsi alle spalle abitazioni distrutte, raccolti persi, bestiame deci­mato dalla fame e dalle malattie. “Sono arrivati qui in cerca di cibo e di riparo. Non hanno più una casa, sono persone che non ‘vanno’ ai cro­cicchi delle strade. Loro nei crocicchi ci vivono, in una condizione di pre­carietà che noi missionari condivi­diamo con loro”. Carlassare ha aggiunto: “Stiamo dove è la gente, nell’insicurezza, ci affidiamo a Dio, in mezzo a loro riscopriamo la nostra capacità di servire, di essere solidali.

Questo sono i nostri crocicchi: punti cruciali dove si incontrano le strade e dove non saremmo mai se non deci­diamo di uscire dalle nostre sicurezze. Superando quelle barriere che il mondo ha creato per dividerci, vogliamo essere con la gente ferita dal conflitto e chiede guarigione. La solidarietà è l’unica forza che può dare speranza e far ripartire”. Mons. Carlassare è stato vittima di un atten­tato alla vigilia della sua ordinazione episcopale, che lui stesso descrive così: «L’attentato è stato un fatto molto doloroso che non ha ferito solo me, ma anche tutta la comunità cri­stiana. D’altro canto è stato un momento di grazia perché il Signore si è fatto presente e ha saputo trarre il bene anche da un evento così. La comunità cristiana si è raccolta insieme, ha rafforzato i legami di comunione e solidarietà fra sacerdoti, missionari e laici.

Oltre alle cure mediche che mi hanno permesso di recuperare bene, questa fraternità pos­sibile sta curando le ferite del cuore». Anche il perdono donato è stato un momento forte nella vita di un pastore: «Sì, ho perdonato subito. È stata una ispirazione che mi ha donato una grande libertà e mi ha permesso di superare ogni possibile sentimento di rabbia ma soprattutto la frustrazione per quanto successo e la paura di tor­nare. Pensiamo che chiedere giustizia possa riparare il torto ricevuto. Ma niente può davvero risanare le ferite personali e sociali se non il perdono. È solo il perdono che apre le braccia all’altro e permette di intraprendere insieme un nuovo cammino, quello della comunione e della pace. Allora il perdono ci apre a una giustizia più alta pur chiamando tutti alla responsabilità».

Gianfranco Pala – Voce del Logudoro