Sabato 5 ottobre 2024
Fuori dai radar dei mass media di tutto il mondo e distante dall’interesse della comunità internazionale il Sudan, in guerra da un anno e mezzo, continua a sprofondare in una crisi umanitaria senza precedenti. Un conflitto civile che, secondo le stime delle Nazioni Unite e di altre organizzazioni umanitarie, ha causato almeno 7.500 vittime e ha costretto allo sfollamento 6,5 milioni di persone. [Enrico Casale — L’Osservatore Romano]
Negli ultimi giorni i combattimenti si sono intensificati, in particolare nella capitale Khartoum l’esercito regolare sembra aver ripreso l’iniziativa per assumere il controllo di alcune aree strategiche ormai da mesi in mano alle Forze di supporto rapido (Rsf). L’offensiva dell’esercito, secondo l’agenzia Fides, è iniziata a fine settembre e da allora i militari guidati da Abdel Fattah Al Burhan sono riusciti a conquistare alcune aree, avvicinandosi al palazzo presidenziale occupato dalle Rsf. L’esercito avrebbe anche assunto il controllo dei due ponti principali della capitale Khartoum, che la collegano alla vicina città di Omdurman. Notizie positive per l’esercito sembrano arrivare anche da altre zone del Paese, dilaniato da un anno e mezzo di guerra. L’esercito ha assunto il controllo di una base militare delle Rsf nel Darfur settentrionale.
I combattimenti esplosi nell’aprile 2023 hanno distrutto infrastrutture vitali, provocato carenze alimentari e sanitarie, e ostacolato gravemente l’accesso agli aiuti umanitari. Nonostante vari tentativi di mediazione da parte di organizzazioni internazionali, la situazione resta estremamente instabile e complessa. «La situazione è tragica, non si può usare un altro termine — spiega a “L’Osservatore Romano” un religioso cattolico che vuole mantenere l’anonimato —. Il conflitto ha diviso il Paese in due e c’è il pericolo che il Sudan si trasformi in una nuova Libia: nazione spaccata, con leader che non si accordano per la pace e influenze di forze esterne».
Le radici del conflitto risalgono alla fine del regime di Omar al-Bashir nel 2019. Dopo la sua destituzione, il Sudan ha vissuto un periodo di transizione in cui civili e militari hanno condiviso il potere in un Consiglio sovrano, con l’intento di avviare il Paese verso un governo democratico. Tuttavia, il colpo di stato militare del 2021 ha interrotto questo processo.
Nel 2023, le tensioni tra l’esercito regolare, guidato dal generale al-Burhan, e le Rsf, guidate da Mohamed Hamdan Dagalo (conosciuto anche come Hemetti), si sono intensificate. Le Rsf erano una forza paramilitare emersa dal conflitto in Darfur negli anni 2000, ma hanno acquisito sempre più potere nel corso del tempo. Il conflitto diretto tra i due gruppi è scoppiato nell’aprile del 2023, principalmente a causa delle controversie sul futuro della leadership militare e sulla fusione delle Rsf con l’esercito regolare come parte delle riforme promesse.
«Nelle aree sotto il controllo governativo — continua la fonte —, la vita è pressoché regolare. L’autorità assicura la sicurezza interna e, dove funzionano le strutture, è garantita anche l’assistenza sanitaria. Certo, non tutto è facile. Nelle grandi città sono affluite masse di sfollati. A Port Sudan, per esempio, la popolazione è raddoppiata, forse anche di più. Ciò ha causato un aumento dei prezzi dei beni di prima necessità e degli affitti. Molte persone hanno perso il lavoro. Tirare avanti in queste condizioni è dura».
Molto più difficile è però la vita nelle zone sotto controllo delle Rsf. «I miliziani — continua — non hanno rispetto per la popolazione: incendiano i villaggi, rapiscono le donne, rubano. I vecchi membri delle Rsf erano più disciplinati. Recentemente ai loro reparti si sono però aggiunti mercenari stranieri (ciadiani, libici, nigerini, ecc.) ai quali è stato garantito il diritto di saccheggio. Non c’è legge né ordine nelle aree sotto il loro controllo».
In tutto il Paese la situazione umanitaria è difficile. «A causa dei combattimenti, molti ospedali e cliniche sono stati distrutti o sono diventati inaccessibili — conclude la nostra fonte —. Molti medici e infermieri sono morti o sono fuggiti. Le strutture rimaste operative sono sovraffollate e spesso non hanno accesso a medicine, attrezzature o energia elettrica. Le cattive condizioni igieniche, la mancanza di acqua potabile e l'accesso limitato ai servizi sanitari stanno provocando focolai di malattie infettive come colera, malaria e morbillo. La malnutrizione, dovuta alla carenza di cibo, peggiora ulteriormente la situazione, indebolendo ulteriormente la resistenza della popolazione».
[Enrico Casale — L’Osservatore Romano]
Gli aiuti di Caritas Italiana per la popolazione sudanese stremata
Bisogna chiudere il rubinetto delle armi
Fuori dai radar dei mass media di tutto il mondo e distante dall’interesse della comunità internazionale il Sudan continua a sprofondare in una crisi umanitaria senza precedenti. In un momento storico contrassegnato da guerre intense e cruente (Ucraina e Medio Oriente per citarne solo alcune) milioni di persone soffrono la fame a causa di un violento scontro interno tra le Forze armate sudanesi (Saf), l’esercito regolare guidato dal generale Abdel Fattah al-Burhan, e le Forze di supporto rapido (Rsf) del generale Mohamed Hamdan Dagalo. Il Paese è praticamente allo stremo e diviso in tre parti: le Saf controllano gran parte del corso del Nilo e la costa del mar Rosso con il porto di Port Sudan, dove partono le navi cariche di petrolio dal Sud Sudan. Alcuni Stati del sud-ovest e gran parte del Darfur sono in mano alle Rsf, mentre in altre zone del Paese imperversano varie forze ribelli. Tutti interessati al controllo dei traffici navali, delle acque del bacino del Nilo, delle miniere di oro, dei giacimenti di petrolio e altre risorse. In mezzo c’è una popolazione martoriata che assiste inerme a questa guerra senza fine.
«Bisogna chiudere il rubinetto delle armi. Il Sudan — spiega a “L’Osservatore Romano”, Fabrizio Cavalletti, coordinatore dei programmi in Africa di Caritas Italiana — non li produce, ma li importa, vuol dire che qualcuno ha intenzione di alimentare questa guerra insensata».
Insensata anche per le azioni compiute dai militari con la distruzione di presidi medici, ospedali, scuole. Pur di colpire il nemico si cerca di indebolirlo facendo mancare i servizi essenziali. Si ha quasi l’impressione che «da parte della comunità internazionale — aggiunge — non ci sia una volontà condivisa di far cessare il conflitto né di finanziare gli aiuti umanitari». Da aprile ad oggi Caritas Italiana ha raccolto 300.000 euro per aiutare gli sfollati in diverse zone del Sudan. Il budget complessivo del programma è di 2 milioni di euro, finanziato finora solo al 30 per cento. «Al momento — spiega Cavalletti — 25 milioni di persone hanno scarso accesso al cibo, di questi 9 milioni sono sul baratro e un milione si trova nella massima gravità, cioè se non si fa qualcosa nell’immediato muoiono di fame. Purtroppo, i fondi sono insufficienti e la comunità internazionale sembra un pò distratta da altri conflitti in corso».
Il sistema sanitario in Sudan, già fragile prima dell’inizio del conflitto, sta lottando per far fronte sia alle esigenze mediche esistenti, sia a quelle emergenti. Gli ospedali vengono danneggiati, saccheggiati e occupati. Questa situazione è aggravata dalle gravi carenze di servizi e forniture mediche, e da un personale sanitario sotto-risorse, non retribuito e oberato di lavoro.
A pagare le conseguenze sono soprattutto anziani, bambini e donne. Migliaia di ragazze vengono rapite e costrette a matrimoni forzati e alla schiavitù sessuale e domestica. Gli stessi operatori sanitari subiscono attacchi e violenze da entrambi gli eserciti, che oltre tutto «impediscono l’arrivo degli aiuti umanitari alla popolazione. «Vi sono aree inaccessibili alle organizzazioni umanitarie — ricorda il coordinatore dei programmi in Africa di Caritas Italiana — complice la farraginosità burocratica». A peggiorare la situazione umanitaria sono le epidemie di colera che hanno colpito lo Stato di Kassala e di dengue, che interessa in particolare lo Stato di Khartoum.
Caritas italiana sta intervenendo nell’ambito di una rete internazionale delle Caritas, in collaborazione con “Act Alliance”, network umanitario legato al mondo protestante.
Ad oggi sono state aiutate più di 1.500 famiglie, ma l’obiettivo è quello di raggiungerne altrettante. «È una goccia nel mare — sottolinea Cavalletti — non basta, bisogna fare di più».
Il programma avviato da Caritas Italiana «prevede aiuti agli sfollati e alle comunità con sussidi in denaro laddove c’è ancora accesso al sistema bancario. «Forniamo acqua, materiali igienici e c’è l’intenzione di riabilitare le fonti d’acqua e realizzare lavabi e latrine. Poi — prosegue — è prevista la creazione di luoghi per la protezione di donne e minori e per chi ha subito violenze, anche per segnalare abusi».
Secondo il Fondo delle Nazioni Unite per la popolazione (Unfpa), 6,7 milioni di persone sono a rischio di violenza di genere e 3,5 milioni di donne e ragazze in età riproduttiva hanno bisogno di servizi per la salute riproduttiva.
«La Chiesa cattolica, seppur minoritaria, sta compiendo sforzi enormi — conclude Cavalletti — insieme ad altri enti caritativi e alle organizzazioni internazionali. Occorre intervenire in maniera tempestiva».
[Francesco Ricupero — L’Osservatore Romano]