Martedì 8 agosto 2023
Francesco sarà ricordato anche come un papa missionario. L’esortazione apostolica Evangelii gaudium disegna infatti una nuova idea di missione, più ampia, più inclusiva e più dinamica. In essa si parla di una trasformazione missionaria di tutta la Chiesa, puntualizzando che tutti i cristiani sono discepoli missionari (cf. EG 119). [Nella foto: padre Vargas Egüés Ramón Alberto, missionario comboniano a Kalongo, in Uganda. Testo: Settimana News]
Francesco sarà ricordato anche come un papa missionario. Con lui la missiologia, che già era stata ripensata durata il concilio Vaticano II con il decreto Ad gentes e venticinque anni dopo con l’enciclica Redemptoris missio, ha trovato un ulteriore sviluppo. L’esortazione apostolica Evangelii gaudium disegna infatti una nuova idea di missione, più ampia, più inclusiva e più dinamica. In essa si parla di una trasformazione missionaria di tutta la Chiesa, puntualizzando che tutti i cristiani sono discepoli missionari (cf. EG 119).
Il testo del documento, in particolare, ha disegnato un’idea nuova di missione che, senza cessare di essere ad gentes, non si circoscrive o limita ad essa. In esso viene spiegato che l’evangelizzazione va concepita in modo maggiormente esteso, precisando che suoi destinatari non sono più soltanto i «gentili», ma anche i popoli dell’Occidente che si stanno scristianizzando. Soprattutto viene puntualizzato che tematiche come le povertà antiche e nuove, le guerre, l’immigrazione o il dialogo interreligioso sono da considerare ambiti speciali e privilegiati di missione.
Più in generale, nelle pagine dell’esortazione è presente un invito alla Chiesa contemporanea a riscoprirsi interamente e globalmente missionaria. Questa ritrovata centralità della missione, anzi questo riassegnamento missionario della Chiesa, ha trovato espressione anche nella costituzione apostolica Praedicate evangelium, nella quale il Dicastero per l’Evangelizzazione (cf. 53-68) è significativamente anteposto a quello della Dottrina della Fede (cf. 69-78).
La missiologia oggi
La Chiesa è di natura sua missionaria (cf. Ad gentes 2). Dal momento che prolunga l’incarnazione di Cristo, la missione coincide e si identifica con la Chiesa stessa. Intesa come attualizzazione delle parole e delle opere Cristo, l’attività missionaria accompagnerà sempre il cammino ecclesiale. Tuttavia, essendo mutato l’orizzonte della missione, è oggi cambiata la figura del missionario e sono cambiati i suoi compiti.
L’orizzonte storico-sociale, ma anche teologico, che dà sfondo ai nuovi scenari missionari, è mutato in virtù della globalizzazione, dei flussi migratori, della rivoluzione digitale, del secolarismo, della diversa valutazione teologica che si dà alle altre culture e tradizioni religiose. Il paradosso stridente è che siamo oggi concittadini di popoli provenienti da terre da evangelizzare, mentre molti cristiani si convertono alle loro religioni. Altrettanto paradossalmente, lo sviluppo tecnologico ha fatto conoscere la Chiesa, almeno parzialmente, in tutto il mondo, mentre Cristo è diventato una sorta di sconosciuto a molti battezzati.
Una prima conseguenza di questo nuovo scenario è che la missione non può più essere legata al paradigma geografico. C’è infatti necessità di missione ovunque si ignori la parola di Cristo, e questa ignoranza non riguarda solo le terre lontane, ma anche le nazioni occidentali. La categoria paradigmatica che accompagna oggi la missione, dunque, anziché il «dove», è piuttosto quella di «contesto». All’interno di questi ultimi, però, giacché rinviano a due ambiti differenti, è bene fare una distinzione tra quelli culturali-religiosi e quelli esistenziali.
Conseguentemente è cambiata anche la figura del missionario. Nell’immaginario collettivo, infatti, il missionario è uno «che parte», ma la nuova missiologia spiega che è missionario anche «chi resta». Diverso, pertanto, è anche il compito che lo attende, perché oggi chi si impegna nella propria città in un’azione pastorale di efficace contrasto alla scristianizzazione è altrettanto missionario come colui che lascia la sua terra per impiantare nuove Chiese.
La missiologia contemporanea non può non prendere atto di questi mutati orizzonti e di queste varie trasformazioni che hanno cambiato forme e contenuti della missione, rendendo una materia, già complessa, ancora più articolata. Di per sé questa disciplina – come dimostra il fatto che la missiologia non sia una semplice cattedra, e nemmeno una mera licenza, ma una vera e propria facoltà universitaria – fa comprendere quanto la preparazione ad essa richieda una formazione autonoma e competenze del tutto specifiche rispetto alla formazione che viene programmata nella facoltà di teologia.
Al tempo stesso, però, la missiologia non è un’altra teologia, bensì una teologia contestuale, una teologia incarnata, una teologia che non si rende avulsa dall’ambiente in cui opera, ma entra altresì in relazione con esso e da esso si fa formare e modellare.
Mentre per la teologia i contesti sono marginali, per la missiologia sono essenziali, sono anzi la sua ragion d’essere. In altre parole, la missiologia è nientedimeno che la teologia della Chiesa in uscita. Essa ha un ritmo tangenziale, non radiale, è centrifuga anziché centripeta. A motivo della sua natura epistemologica, chi si occupa di questa disciplina deve essere attento non solo alla difesa della Tradizione, ma anche al mondo, alla pluralità delle culture, alle differenze sostanziali delle religioni, alle complessità sociali, alle tragedie umane e morali che attraversano la storia.
Si studia missiologia per diventare dei cristiani che siano cittadini del mondo; per affrontare i problemi del nostro tempo; per acquisire competenze e strumenti che consentano di evangelizzare ogni ambito della sfera umana.
La svolta “inter gentes”
Ci sono ancora terre da evangelizzare e nazioni che ignorano il Vangelo. Associare alla missione il termine ad gentes è dunque legittimo e conserva il suo valore. Tuttavia, nel nostro tempo la missione non si fa solo «verso» i popoli, ma anche «tra» di loro, dall’interno delle loro culture e religioni.
La missione è oggi passata da un’inculturazione che era percepita come colonialistica, invasiva ed estrinseca, a una missione che cerca di valorizzare in modo pieno le altre tradizioni culturali. Da una missione coincidente con un’idealistica reductio ad unum che finiva col ridurre l’altro a sé, la Chiesa è passata a una missione che non si adatta semplicemente alle culture, ma le assume e le rende parte di sé. È per questo che da un’inculturazione caratterizzata dal sintagma ad gentes si è passati a una interculturalità qualificata come inter gentes. Non più solo una teologia che nasce in Occidente e muove «da Roma» verso le genti, ma anche una teologia delle Chiese locali e delle «periferie» che ritorna al «centro», e stimola, arricchisce e accresce la Chiesa universale.
Jules Monchanin denominava questa dinamica missionaria «teologia dello scambio». Il ritmo dell’interculturalità, del resto, è lo stesso dell’intersoggettività tipica del personalismo cristiano. Nel suo incontro con l’altro, soprattutto con civiltà millenarie che esprimono grandi valori etici e spirituali, la Chiesa è inevitabilmente destinata a cambiare e crescere. Anche se non si può generalizzare, e non è sempre facile, la presenza missionaria di fronte a queste antiche civiltà realizza che non è chiamata solo a insegnare, ma anche a imparare. Capisce che non ha solo qualcosa da dare, ma anche qualcosa da prendere, anzi da com-prendere. La missione inter gentes, nell’ottica della teologia dello scambio, è chiamata non solo ad in-formare ma anche ad in-formarsi, non solo a in-culturare ma anche a interculturarsi.
La crescita delle comunità ecclesiali locali e lo sviluppo delle teologie contestuali stanno appunto determinando un movimento inverso, perché ora sono spesso le periferie che arricchiscono e alimentano la chiesa universale. L’effetto di questa nuova comprensione della missione è la nascita di una Ecclesia non più eurocentrica ma multiculturale.
L’origine di tale processo va rintracciato nel Concilio Vaticano II e nella sua inedita valorizzazione delle culture e delle religioni, che non sono state più lette come un male da eliminare ma come una ricchezza da accogliere. Dietro il nuovo atteggiamento c’era un fondamento teologico, la premessa che lo Spirito «operava nel mondo prima ancora che Cristo fosse glorificato» (AG 4), e l’idea che il Verbo di Dio, prima di farsi carne, era già nel mondo come luce vera che illumina ogni uomo (cf. GS 57).
L’esito logico è stato che oggi, tra le mansioni dell’essere missionari, c’è quella di prendere atto e fare discernimento su ciò che lo Spirito di Dio ha operato tra gli uomini prima e fuori della Chiesa visibile. Anzi, facendo un ulteriore passo concettuale di non piccolo rilievo, la teologia missionaria utilizza tali testimonianze per ripensare l’identità stessa della Chiesa. D’altro canto, promuovere una Chiesa in uscita implica necessariamente apertura e disponibilità al cambiamento.
Il cristianesimo, infatti, non si può definire a priori, e l’identità della Chiesa, dal Concilio di Gerusalemme, è sempre stata un’identità aperta. Da questo movimento di apertura, per quanto complesso, è alla fine lecito attendersi non una relativizzazione della fede, ma un suo potenziamento. Dal fatto che tutta la Chiesa è missionaria consegue che anche tutta la teologia lo è, e va coinvolta in questo processo di accrescimento identitario. In tale ottica, la principale difficoltà del lavoro concettuale del missionario consiste, da un lato, nel tamponare un diffuso, incoerente e superficiale sincretismo e, dall’altro, nell’arricchire l’architettura culturale e teologica della Chiesa. Il missionario per primo è chiamato non a un’evoluzione del dogma, ma a uno «sviluppo della dottrina» e al superamento del «si è sempre fatto così», per citare le parole di papa Francesco.
In sostanza, la missione non è più solo annuncio, ma anche ascolto. Se in passato la Chiesa ha modellato le altre civiltà ora è aperta anche a farsi modellare da esse, perché l’evangelizzazione è diventata reciproca permeabilità, interscambio, interdipendenza. Altamente simbolico e significativo, a tale riguardo, è l’invito che Giovanni Paolo II rivolgeva ai teologi chiedendo loro di impadronirsi del linguaggio e della sensibilità culturale della civiltà indiana (cf. Fides et ratio 72).
Fare missione, d’altro canto, non può significare distruggere le culture. Ciò che interroga la Chiesa missionaria contemporanea, semmai, è come possa annunciare il Vangelo preservandole. Essa si chiede come possa salvarle e al contempo assumerle e integrarle. L’essenza del movimento missionario, infatti, non consiste in un mero e superficiale adattamento, ma nell’assimilare, acquisire e oltrepassare i costumi di tutti i popoli. Quando un missionario si incarna in una determinata cultura, assume il compito di farsi «vaso comunicante», e ancor più un «catalizzatore» che consente alle Chiese dei diversi contesti culturali di svilupparsi in autonomia.
È chiaro, pertanto, che il missionario, se non proviene dalle terre in cui opera, debba essere un profondo conoscitore delle tradizioni e delle religioni che intende evangelizzare. Solo così potrà operare non un semplice dialogo interculturale e interreligioso, ma un autentico dialogo intraculturale e intrareligioso. Il missionario è infatti chiamato ad avere una relazione reale con i popoli che lo ospitano, a vivere come loro, a pensare come loro, a penetrare le dinamiche profonde che sono alla base delle loro cosmologie mitiche e delle loro metafisiche.
Non di rado, grazie a questa immersione, il missionario diventa un pensatore originale che fa da sprone allo sviluppo della teologia universale. Va sottolineato, a questo proposito, che la sua teologia è sempre induttiva, esplorativa e profetica. È chiaro che, almeno in una prima fase dell’impiantazione missionaria, la preoccupazione per l’esattezza dogmatica o il radicalismo sarebbero atteggiamenti assurdi. La crescita della Chiesa e il suo futuro in continenti dove è ancora del tutto marginale sono legati al definitivo superamento di atteggiamenti teologici preconciliari nei quali persistono schematismi rigidi, pregiudizi, deduzioni preconcette e autoreferenzialità.
In sintesi, il missionario non è un semplice evangelizzatore di terre semi inesplorate, ma un cristiano che, con il suo sacrifico esistenziale e con il suo impegno teologico, contribuisce allo sviluppo globale della Chiesa, alla sua trasformazione e alla sua universalità. La missione inter gentes, che valorizza la vivacità e lo scambio tra le culture, esemplifica lo stesso dinamismo evolutivo della Chiesa. In quest’ultima, infatti, occorre distinguere tra un nucleo immutabile sempre valido (kern), e una scorza (schale) che è invece sempre mutevole perché ne esprime il mero rivestimento storico e culturale.
La Chiesa è oggettivamente in cammino verso un’universalità ancora da venire e della quale il missionario è responsabile. Sono state utilizzate varie metafore per rappresentare tale processo. Quella ad esempio che fa un parallelismo con i fiumi che hanno dato vita alle grandi civiltà. Alla Chiesa del Giordano sarebbe succeduta quella del Nilo e del Tevere, e staremmo ora assistendo alla nascita della chiesa del Gange e del Fiume azzurro. Ancora più emblematica è la metafora del seme e dell’albero. Secondo questa logica l’essenza del cristianesimo non starebbe nel seme delle origini, ma piuttosto nell’albero frutto dell’espansione culturale della religione cristiana e del filtro ermeneutico che ha agito abitando e attraversando le varie civiltà.
Molto spesso i missionari sono stati promotori e precursori di una Chiesa propriamente cattolica e universale, capace cioè di liberarsi dalle soggezioni e dai particolarismi di tempi e luoghi che non le sono essenziali. Jules Monchanin, anticipando di trent’anni uno dei passaggi più forti di Nostra aetate, affermava che la Chiesa sarebbe stata in grado di integrare tutto ciò che c’è di vero e di santo nell’esperienza spirituale delle grandi civiltà quando avrebbe permeato tutte le razze e tutte le culture. A tale riguardo, merita di essere riportata per esteso la sua visione di chiesa ed il suo programma missionario:
«La Chiesa, nei primi venti secoli della sua storia si è foggiata – nella sua struttura esteriore – sulla civiltà occidentale: oggi invece l’esigenza di adottare come rivestimento della Chiesa quello di altre civiltà, implica qualche rinuncia, un ritorno alle origini, una dissociazione dell’essenziale dall’accidentale, e soprattutto una interiorizzazione tramite una intensa vita contemplativa, un primato della mistica sulla liturgia, sulla teologia, sulla filosofia religiosa e sulle istituzioni».
A questa teologia dello scambio è opportuno guardare con speranza. Una più profonda appropriazione dei significati reconditi contenuti nella parola di Gesù passa attraverso questa dinamica missionaria che consente di scoprire nel Vangelo ricchezze insospettate. Una missionarietà teologica improntata allo scambio ha la duplice valenza di ripensare criticamente le religioni alla luce del cristianesimo e quella di ripensare quest’ultimo alla luce della loro millenaria ricchezza sapienziale.
D’altronde, se la Chiesa è per sua natura missionaria, è anche naturalmente in uscita, naturalmente dialogica e naturalmente inclusiva. L’imposizione eurocentrica della missiologia del passato, ha dunque lasciato spazio, oggi, ad una missione non più meramente unidirezionale, perché la chiesa ha capito che in altre civiltà lo Spirito ha seminato dei doni che essa può valorizzare. Tale movimento, tipico di una Chiesa autenticamente in uscita, non va visto come un pericolo per la dottrina ma come un’occasione per maturare un’identità più ampia e una maggiore consapevolezza delle verità cristiane.
Anche papa Francesco ha voluto sottolineare che l’incontro con la diversità culturale non minaccia l’unità della Chiesa (cf. EG 117), aggiungendo che «una sola cultura non esaurisce il mistero della redenzione di Cristo» (EG 118) e ribadendo che è impossibile pretendere che tutti i popoli di tutti i continenti imitino le modalità adottate dai popoli europei per esprimere la propria fede cristiana (cf. EG 118).
L’apertura della Chiesa a culture e religioni nuove – come quelle dell’Oriente – può essere altrettanto decisiva per il cristianesimo di quanto lo è stato, per la Chiesa primitiva, il passaggio dal suo luogo originario nel contesto del giudaismo al mondo greco-romano perché – come successe all’epoca – potrebbe essere parimenti funzionale a una migliore comprensione dei misteri della fede e alla loro dogmatizzazione.
Occorre però riconoscere che questo processo di crescita universalizzante avrà tempi lunghi. Va ammesso, infatti, che dopo venti secoli il messaggio cristiano è stato «metabolizzato» essenzialmente dalla sola cultura greco-romana. Anche se questo passaggio è stato imponente, e finanche straordinario, risulta evidente che la maturazione del cristianesimo non possa limitarsi a questa unica «metabolizzazione». La fede cristiana, prima di arrivare al compimento finale che abbracci tutto il mondo e tutti i popoli, dovrà per forza confrontarsi con altre civiltà, soprattutto quelle più antiche e prestigiose.
Se questo appare il destino del cristianesimo, occorre ribadire però anche la sua trascendenza rispetto a ogni civiltà. La Chiesa, infatti, non si identifica con nessuna cultura particolare perché essa, semplicemente, le abita, le attraversa e le trasfigura. Suo compito è quello di far morire e far rinascere ogni civiltà. È questo il ritmo missionario della Chiesa in uscita, che non può non riflettere l’aufhebung hegeliana, improntato cioè alla conservazione dell’antico trasformato e illuminato dall’interno. In sintesi, se è forse eccessivo parlare di missione nei termini della liberazione della fede cristiana dai «lacci» della sola cultura occidentale, è comunque evidente che la Chiesa si muova verso una universalità che è compito precipuo del discepolo missionario comporre.
La svolta pastorale
Dei cambiamenti di cui è oggetto la missione, prendeva atto già l’enciclica Redemptoris missio. Il nuovo contesto globalizzato, secolarizzato e multireligioso che si è venuto a creare, stimola la chiesa ad essere non meno missionaria, ma più missionaria, proprio perché la sprona ad esserlo in modo maggiormente ampio e trasversale.
Oggi la Chiesa sa che non deve più occuparsi solo dei «lontani», ma anche degli «allontanati». Tale inaspettata urgenza pastorale nasce dal disincanto religioso contemporaneo, ma anche dal fatto che religioni prima lontane si sono fatte prossime e sembrano avere maggiore forza attrattiva del cristianesimo. Un paradosso attuale, è che sono esse a convertire molti battezzati e cresimati. L’uomo oggetto dell’annuncio missionario della chiesa del nostro tempo, pertanto, non è più solo il «pagano», ma anche l’ateo postmoderno, il relativista, e il sincretista sedotto dagli esotismi della next age.
È questa una nuova situazione pastorale che la comunità ecclesiale deve saper fronteggiare e a cui deve reagire in modo efficace. Per certi aspetti, infatti, il missionario contemporaneo è chiamato non a costruire la chiesa, ma a «ricostruirla», perché non si tratta di impiantare nuove realtà, ma di rivitalizzarle.
La missione sta dunque vivendo una trasformazione pastorale, perché nell’annuncio evangelico non è più fondamentale la categoria del «dove», ma semmai quella del «a chi» e del «come». È un dato oggettivo che evangelizzazione, nel contesto attuale, significhi in molti casi «nuova evangelizzazione». Teologicamente non si tratta di dare meno importanza alla dottrina, ma di recuperare la sua perdita di rilevanza, valorizzando strategie e strumenti comunicativi che la facciano tornare ad essere esistenzialmente significativa. Da qui, la necessità di una missione che sappia rinnovarsi pastoralmente imparando a comunicare il Vangelo attraverso l’arte, il pensiero filosofico, l’incontro dialogico e tutti gli strumenti comunicativi connessi allo sviluppo informatico.
Svolta pastorale della missione, però, significa anche attenzione ed impegno attivo e responsabile verso il Regno di Dio, affinché divengano palesi la sua giustizia e la sua carità. La missione, infatti, non si deve occupare solo dei «lontani», ma anche degli «ultimi». È questa la ragione per la quale ogni parrocchia, le aule universitarie, la scuola, la strada, le periferie, le carceri, i centri di assistenza per immigrati, sono oggi, a tutti gli effetti, autentici luoghi di missione. Del resto, la fede non può essere scissa dalla prassi di testimonianza, e l’annuncio delle dottrine non può essere disgiunto dal contrasto alle miserie, al disagio sociale, alla delinquenza e all’emarginazione. Sotto questo aspetto, il missionario, che è per eccellenza un cristiano universale ed un cittadino del mondo, non può che dire I care di fronte alle ingiustizie sociali, alle varie povertà, ai diritti umani violati, alla pace minacciata, ai disastri ambientali. La sua agenda teologica è quella delle priorità del mondo, perché non si limita a leggere ed interpretare il tempo in cui vive, ma agisce ed opera in esso, nella misura in cui, molto spesso, è direttamente coinvolto nelle sorti degli «ultimi» e ne condivide le condizioni di vita.
La testimonianza missionaria, da questo punto di vista, coincide con una svolta ortopratica e con una contestualizzazione esistenziale della fede. È questa la ragione per la quale, nella formazione del missionario, non deve mancare l’acquisizione di competenze manageriali e di leadership che gli possano consentire di trovare risorse e finanziamenti capaci di contrastare nel modo più efficace quel male che egli conosce da vicino e che, molto spesso, ha scelto di condividere e rendere suo.
Se è sempre possibile il rischio di un ridimensionamento etico della missione e di una secolarizzazione dei valori escatologici, va anche sottolineato che tra i compiti del missionario c’è anche quello di dimostrare che il Regno di Dio ha bisogno della fede, di Cristo e della sua chiesa.
La svolta dialogica
La missiologia vive una tensione costitutiva tra dialogo e annuncio. Non mancano nemmeno teologi che vorrebbero persino abolire la missione e sostituirla con il dialogo interreligioso. È questo, infatti, uno dei capisaldi del teocentrismo pluralista. All’estremo opposto, però, anche l’esaltazione del dialogo interreligioso è stata raggiunta da varie critiche, perché, oltre ad esporre la rivelazione e la verità ad una potenziale relativizzazione, lo si è ritenuto viziato da un preliminare antropocentrismo.
Missione e dialogo interreligioso, prescindendo dalle critiche che entrambi si sono attirati, sono tradizionalmente considerati antitetici in quanto ordinati a due opposti principi logici. La prima risponde infatti ad un principio rivelativo, mentre la seconda ad un principio ermeneutico. La prima è strutturalmente connessa al già dato, il secondo alla ricerca. La prima si mette su un piedistallo di superiorità, mentre il secondo richiede un livello paritario. La prima ha una finalità concreta, mentre la deontologia del secondo richiede che esso sia senza un secondo fine.
A prescindere dalla sua incompatibilità con il dialogo interreligioso, comunque, la missione in sé stessa, soprattutto a metà del secolo scorso, è stata al centro di vari attacchi polemici. È stata accusata, ad esempio, di essere espressione dell’aggressività colonialistica dell’Occidente e della sua autoreferenzialità culturale; di essere oggettivamente inopportuna perché i protagonisti che se ne devono incaricare dovrebbero semmai essere le popolazioni indigene ed il clero locale; e di rivelarsi non essenziale e non necessaria, dal momento che la salvezza è possibile al di là dei confini della chiesa.
Trovare una soluzione alla tensione che divide queste due irriducibili istanze non è semplice, richiede un pensiero complesso ed il superamento di schemi logici binari, riduzionistici ed elementari. Va premesso, comunque, che gli stessi documenti del magistero riconoscono come il dialogo interreligioso faccia parte della missione evangelizzatrice della chiesa e non sia in contrapposizione con la missione ad gentes (cf. RM 55). La medesima enciclica, però, puntualizzava anche che non sono equivalenti, non sono interscambiabili e non vanno confusi o strumentalizzati (cf. RM 55). A ben vedere, pertanto, il dialogo di cui parla Redemptoris missio non si può definire dialogo in senso proprio, perché ha come premessa una verità che il magistero non può mettere in discussione ed un secondo implicito fine rappresentato dall’intenzionalità oggettiva di convertire l’altro.
Ci sono però almeno tre percorsi logici attraverso i quali missione e dialogo interreligioso si possono considerare complementari e funzionali l’uno all’altro senza entrare in contraddizione.
Il primo di essi si potrebbe definire un argomento inclusivista, e trova fondamento in quei documenti del Concilio che hanno riconosciuto la presenza dello Spirito e di semi del Verbo anche fuori della chiesa. Il compito della teologia missionaria, da questo punto, coinciderebbe con il discernimento di tali segni e con la loro esaltazione. Sulla base di questa premessa, non è contradditorio, ad esempio, che il Vaticano II abbia deciso di dedicare un documento alla missione ed un altro al diritto alla libertà religiosa, che, su un piano teorico, ne rappresenta l’esatto opposto. A questo riguardo, si può affermare che Nostra aetate e Dignitatis humanae siano altrettanti documenti missionari come lo è Ad gentes. Alla luce delle innovazioni inclusiviste del concilio, una comunità ecclesiale che non si aprisse con simpatia alle altre culture e religioni sarebbe persino incoerente. I documenti citati, infatti, attestano che nell’andare verso l’altro, il cristiano può scoprire sé stesso e la propria verità, anche perché nell’altro si incontra sempre l’Altro.
In quest’ottica, la missione – intesa come possesso della verità – risulta non più in contraddizione con il dialogo – inteso come ricerca della verità – perché, sia pure manifestata in un diverso grado, si tratta della stessa e medesima verità. La missione, in virtù, di quelle intuizioni teologiche che hanno fondato l’inclusivismo, avrebbe cioè il compito di disvelare e portare a compimento quella verità cristica che nelle altre religioni è implicita, parziale e anonima.
Un secondo percorso logico si basa sul concetto di relazione. Se Dio è in sé stesso relazione, infatti, e la missione è relazione dialogica, allora quest’ultima è già un’espressione della verità e quindi di Dio. Ciò è immediatamente palese sul piano morale, perché l’etica che fa da fondamento al dialogo è espressione evidente dei valori che caratterizzano il Regno di Dio. La stessa Redemptoris missio riconosceva che il dialogo è una via verso il Regno e darà sicuramente i suoi frutti (cf. RM 57).
In estrema sintesi, queste premesse stanno ad indicare, per corollario, che impegnarsi nel dialogo significa già essere dei missionari. Così è perché il dialogo coincide con la verità (riflette cioè la natura divina) e la verità è nel dialogo (esprime cioè i valori del Regno di Dio). In quanto segno e simbolo di unità, il dialogo può essere fatto coincidere con il bene, cosi come, tradizionalmente, il male è invece associato alla divisione e al conflitto.
In quest’ottica, il confronto dialogico non si può più nemmeno considerare un mero «mezzo» per raggiungere qualche altro risultato o obiettivo, ma è già in sé un «fine». Se, anche in questo caso, si corre sempre il rischio della secolarizzazione teologica e di un certo antropocentrismo, è altrettanto vero, all’opposto, che il dialogo può essere considerato parte della rivelazione e sua essenza. Esso comunica infatti una multipla verità: la natura tripersonale di Dio che è in sé stesso relazione; la kenosi del Dio logos che entra in dialogo con l’uomo; e l’imprescindibilità del dialogo per raggiungere il Regno annunciato da Cristo.
Un terzo percorso logico che dimostra la complementarietà tra missione e dialogo, anche se la prima è legata ad un principio veritativo ed il secondo a quello ermeneutico, è che la verità sul piano storico non è mai data in modo pieno ed evidente, di conseguenza, il dialogo diventa lo strumento che permette di procedere verso di essa.
La stessa rivelazione disvela e nasconde una verità, che rimane ulteriore e sempre da raggiungere. Più che una nozione, essa coincide appunto con una ricerca, con un «muovere verso». Al riguardo, una categoria che può superare la contraddizione tra questi due concetti ed essere funzionale alla loro armonizzazione, è quella del «già e non ancora». La missione annuncia appunto la verità «già» data, mentre il dialogo accompagna il cammino verso il «non ancora». Sotto questo aspetto, confronto dialogico ed ermeneutica rappresentano i mezzi principali attraverso i quali diviene possibile procedere verso una verità che è sempre in divenire ed un passo avanti all’uomo. Se sul piano esistenziale e salvifico, infatti, la rivelazione comunica una verità piena, su quello del possesso concettuale rimane sovrastante ed inesauribile. La conoscenza di Dio, per dirla con Paolo, è sempre per Speculum et in Aenigmate (1Cor 13,12). Nell’attesa, pertanto, che il piano escatologico consegni all’uomo la verità piena e definitiva, il dialogo – anche quello interreligioso – è un modo di procedere verso di essa.
In definitiva, benché ontologicamente diverse, missione e dialogo sono accumunate dall’essere entrambe ordinate alla verità. Il dialogo è autenticamente tale solo e quando dibatte contenuti di ordine religioso. La conclusione che se ne deve trarre è la reciproca complementarietà che lega un confronto dialogico che, senza occuparsi di contenuti teologici, sarebbe privo di sostanza; ed una teologia che ha compreso di aver bisogno del dialogo per crescere, per universalizzarsi e per penetrare sempre più in profondità il mistero soverchiante di Dio. È chiaro, ad ogni modo, che oggi la missione si fa attraverso il dialogo, ed il dialogo è parte della missione della chiesa. Tra i suoi compiti c’è appunto quello di promuoverlo, di svilupparlo e di insegnarlo.
Facoltà di Missiologia della Gregoriana: il nuovo programma
Sollecitata dalle ispirazioni di Evangelii Gaudium e consapevole delle trasformazioni di cui è oggetto la missione contemporanea, la Facoltà di Missiologia dell’Università Gregoriana ha aggiornato i suoi programmi e modificato i suoi tre indirizzi di licenza.
Un primo indirizzo è quello classico destinato a tutti coloro hanno ricevuto la vocazione di dedicarsi ai popoli di quelle terre dove il Vangelo è ancora poco o per nulla conosciuto. La denominazione, però, è stata corretta in “Missione Ad Gentes ed Inter gentes”, perché oggi la missione si fa anche all’interno delle culture e delle religioni dei vari popoli, e soprattutto la si fa apprezzandole. Il ritmo del lavoro missionario, quindi, non è più soltanto “verso” quei contesti ma anche “tra” di essi. In questo indirizzo di licenza trovano collocazione le materie tradizionali della missiologia, come la teologia della missione, i suoi fondamenti biblici e patristici, i documenti della chiesa, la prassi missionaria e la sua spiritualità.
Un secondo indirizzo, giacché anche l’Occidente è tornato ad essere terra di missione, si denomina Missione nelle società contemporanee. Esso si occupa del contrasto alla scristianizzazione e di nuova evangelizzazione. È questa la ragione per la quale alcuni corsi trattano tematiche filosofiche in rapporto all’ateismo, al sincretismo e al relativismo tipici del nostro tempo, mentre altre approfondiscono come si vive la missione nelle città e nelle parrocchie contemporanee. All’interno di questo ambito di specializzazione, tendenzialmente pastorale, si dà attenzione anche all’ecumenismo e alle strategie per adattare la liturgia e la vita sacramentale. In questo indirizzo infine, dal momento che la missione è anche azione che si deve attuare attraverso la promozione di concrete iniziative di carità sociale, si dà spazio alla terza missione, intesa come servizio e contributo alla soluzione dei drammi e delle tragedie del nostro tempo nell’ottica di Regno di Dio.
Il terzo indirizzo si denomina Missione, dialogo e religioni. In virtù del superamento della tensione che ha diviso annuncio missionario e dialogo interreligioso, i corsi di questa specializzazione studiano la pedagogia del dialogo, ma anche le varie religioni, da un punto di vista storico, fenomenologico e teologico.
In generale, quindi, questi tre indirizzi della nuova licenza di missiologia dell’università Gregoriana, intendono esprimere il volto nuovo della missiologia, che continua a coincidere con lo studio sistematico dell’attività evangelizzatrice della chiesa e dei mezzi con i quali attuarla, nel quadro, però, di un mutato contesto storico, sociale, teologico e culturale. Una riforma dei programmi missiologici risultava necessaria perché, come scrive papa Francesco, non viviamo soltanto un’epoca di cambiamenti ma un vero e proprio cambiamento d’epoca. In un tale orizzonte, si profila dunque come necessaria l’auspicata svolta missionaria della teologia, perché una chiesa in uscita richiede un pensiero teologico proiettato verso la contestualità e l’attualità, verso, potremmo dire, quella superiorità del tempo sullo spazio di cui parla Bergoglio. Sono altrettanto missionari, però, anche gli altri tre principi di cui parla il papa nella sua esortazione apostolica: «l’unità prevale sul conflitto»; «la realtà è più importante dell’idea», «il tutto è superiore alla parte». La teologia missionaria, che non può prescindere dal tempo, dalla realtà, dalla storia e dallo sguardo verso il compimento escatologico, è da sempre improntata a questi quattro criteri generali.
In presenza di questa nuova idea di missione, di teologia e di chiesa, era necessario riorganizzare dei programmi che potessero corrispondere nel modo più efficace alla missione della missiologia contemporanea, ovverosia al suo senso ultimo. Se la sua intenzionalità di base rimane quella di impiantare nuove chiese, infatti, il missionario contemporaneo assume e fa propri altri ed inediti compiti: costruire una chiesa culturalmente universale, contrastare il secolarismo, promuovere un’efficace rievangelizzazione, unificare le chiese, i popoli e le società, costruire ponti di dialogo, servire con progetti concreti i valori del Regno di Dio.
Considerando queste urgenze, la missiologia è la teologia del nostro tempo. Essa è la disciplina che accompagna per eccellenza la contemporaneità perché è ancorata al qui e ora. A differenza della teologia dogmatica, che può permettersi una certa teoricità e astrattezza, la teologia missionaria è invece sempre e strutturalmente legata al contesto, culturale o esistenziale che sia.
È questa la differenza di fondo che distingue la teologia (sistematica) e la missiologia, la quale non pensa semplicemente il cristianesimo, ma lo pensa «in funzione di» e «in rapporto a». Teologia e missione sono la stessa e medesima cosa, con la sola differenza che la missiologia è teologia «in uscita», va incontro all’uomo di ogni latitudine, risponde ai suoi bisogni spirituali e materiali. Il missionario è un teologo che guarda al mondo ed è aperto al mondo; alle sue religioni, alle sue filosofie, alle sue culture, e alle tragedie che ne dilaniano il corpo e l’anima. Questo suo costitutivo ancoraggio al «tempo», all’«unità», alla «realtà» e al «tutto», fa sì che spetti proprio alla missiologia disegnare la chiesa del futuro, e, per certi aspetti, anche il mondo futuro.
In sintesi, i nuovi programmi di questa facoltà dell’università Gregoriana intendono essere espressione non soltanto del superamento della crisi attraversata dalla missiologia in epoca conciliare, ma anche del suo rilancio. Se la missiologia, infatti, era in passato tacciata di colonialismo ora promuove l’interculturalità; se prima era destinata ai soli popoli pagani ora si rivolge anche ai cristiani che hanno perso il senso e la forza della propria fede; se prima si contrapponeva al dialogo interreligioso ora lo assume come suo privilegiato strumento di annuncio.
Il missionario contemporaneo è dunque un cristiano polivalente che si caratterizza per tante e diverse attitudini. È un teologo che si occupa dell’attualità; è un filosofo che sa confrontarsi con l’ateismo contemporaneo così come con le seducenti metafisiche spiritualizzanti dell’Oriente; è un insegnante che conosce la pedagogia; è un giornalista che sa comunicare i contenuti della fede con i nuovi mezzi di informazione; è un manager che sa gestire amministrativamente la sua parrocchia ma anche trovare i fondi necessari alla sua missione; è un evangelizzatore che conosce e utilizza l’arte; e soprattutto è un uomo a cui non è estraneo nessun dramma del nostro tempo, a prescindere dalla latitudine in cui esso abbia luogo.
Una chiesa in uscita ha bisogno di missionari, e la missione richiede una formazione che insegni loro ad incontrare l’uomo là dove si trova. La missione, infatti, coincide veramente con la gioia di annunciare il Vangelo; liberazione, realizzazione e pienezza salvifica di ogni uomo.
[Paolo Trianni – Settimana News]