Lunedì 9 maggio 2022
La canonizzazione del beato Carlo de Foucauld, che avverrà il prossimo 15 maggio 2022, ci offre l’opportunità di mettere a confronto la sua straordinaria vita missionaria con quella altrettanto straordinaria di san Daniele Comboni. L’uno e l’altro consacrano la loro vita alla missione in Africa: vi arrivano per vie diverse e operano con stili diversi di vita missionaria; ma nel loro cammino di discepoli missionari appare chiaro che entrambi sono spinti dalla Carità del Cuore di Cristo che arde nei loro cuori e animati dallo spirito della Santa Famiglia di Nazareth.
In effetti, Carlo de Foucauld ha fatto del Mistero della Santa Famiglia di Nazareth il fulcro della sua esperienza spirituale; la sua vita è una esegesi esistenziale di questo Mistero, da cui è scaturito uno stile di vita, che è stimolante per ogni cristiano. Per noi, missionari comboniani, è particolarmente utile avere un approccio con i tratti fondamentali dello stile di vita di questo discepolo di Gesù, per cogliere la lezione missionaria che sotto la sua guida ci viene dalla contemplazione del Mistero della Santa Famiglia di Nazareth; nello stesso tempo ci aiuta a capire più in profondità il significato missionario del particolare legame che san Daniele Comboni ha coltivato con la «Triade santissima» (S 5805) della Santa Famiglia e che ha influito nella sua azione apostolica e di animatore della Famiglia missionaria da lui fondata.
Carlo de Foucauld nacque a Strasburgo da famiglia nobile il 15 settembre 1858, mentre Comboni si trovava alla stazione missionaria di S. Croce nel cuore dell’Africa, dove viveva con intensa partecipazione apostolica il primo contatto con la Nigrizia e dove ben presto veniva colpito da attacchi di febbri intermittenti, che lo condussero più volte sull’orlo del sepolcro, così che, per obbedienza, dovette rimpatriare (17 giugno 1859).
Persi a 6 anni entrambi i genitori, Carlo de Foucauld visse una giovinezza scapestrata, «senza niente negare e senza niente credere», impegnandosi solo nella ricerca del proprio tornaconto. Intraprese la carriera militare, ma fu congedato con disonore «per indisciplina aggravata da cattiva condotta». Si dedicò allora a viaggiare, esplorando una zona sconosciuta del Marocco, impresa che gli meritò una medaglia d’oro dalla Società di Geografia di Parigi. Tornò in patria scosso dalla fede totalitaria di alcuni musulmani conosciuti in Africa. È una conoscenza che lo riavvicina al cristianesimo e si converte radicalmente, accettando di accostarsi per la prima volta al sacramento della confessione: qui scopre quel Dio misericordioso e pieno di tenerezza che aveva sempre cercato senza saperlo.
“Dio costruisce sul nulla” – affermava Carlo de Foucauld – “È con la sua morte che Gesù ha salvato il mondo; è con il niente degli apostoli che ha fondato la Chiesa; è con la santità e nel nulla dei mezzi umani che si conquista il cielo e che la fede viene propagata”. Può parlare così perché ha fatto esperienza di essere niente. E nel fallimento più totale viene ritrovato da Dio nel deserto in mezzo agli arabi.
Deciso a «vivere solo per Dio», entrò dapprima tra i monaci trappisti, ma ne uscì dopo alcuni anni per recarsi in Terra Santa e abitarvi come Gesù, in povertà e nascondimento. Ordinato sacerdote, con l’intento di poter celebrare e adorare l’Eucaristia nella più sperduta zona del mondo, tornò in Africa, si stabilì vicino a un’oasi del profondo Sahara, indossando una semplice tunica bianca, sulla quale aveva cucito un cuore rosso di stoffa, sormontato da una croce. A cristiani, musulmani, ebrei e idolatri, che passavano per la sua oasi, si presentava come «fratello universale» e offriva a tutti ospitalità. In seguito si addentrò ancora di più nel deserto, raggiungendo il villaggio tuareg di Tamanrasset. Vi trascorse tredici anni occupandosi nella preghiera (a cui dedicava undici ore al giorno) e nel comporre un enorme dizionario di lingua francese-tuareg (usato ancor oggi), utile alla futura evangelizzazione.
Annuncia il Vangelo ai Tuareg, servendo e assistendo i poveri del Sahara: è più povero di loro, ma la porta della sua abitazione è sempre aperta a ogni incontro, li istruisce e li difende dai predoni. E durante un assalto dei predoni resta ucciso la sera del primo dicembre 1916: cercavano il suo tesoro, di cui spesso parlava. Non avevano capito che quel tesoro era Gesù nel Tabernacolo. Carlo de Foucauld aveva fatto dell’Eucaristia il centro della sua esistenza.
Presso il suo cadavere fu ritrovata la lunula del suo ostensorio, quasi per un’ultima adorazione.
Nella sua dedizione missionaria Carlo de Foucauld ha come compagna e modello la Vergine Maria. Come Maria che, portando in sé Gesù nascosto nel proprio grembo, l’ha portato nella casa di Zaccaria e l’ha santificata, così anche Carlo de Foucauld si sentiva chiamato a portare Gesù nell’Eucaristia e nel Vangelo in mezzo ai popoli che ancora non lo conoscono, cercando di essere fratello di tutti, di essere vicino all’atro, andando alle periferie del mondo, come in quel momento erano i Tuareg.
Tale missionarietà la viveva centrandola nella preghiera di intercessione, perché tutti si salvino. Dal profilo biografico di Carlo de Foucauld si possono individuare tre tratti peculiari della sua spiritualità: anzitutto la fraternità, cioè mettere il centro della vita nella relazione con il Signore Gesù, di modo che l’“io” e il “tu” possono cercarsi e trovarsi in Lui, che mediante il suo Spirito è il nodo che stringe insieme le vite e crea il “noi” dei fratelli, che vivono l’uno per l’altro, con l’altro e nell’altro; poi la testimonianza cristiana, cioè essere noi stessi Vangeli viventi e testimoniarlo con la vita, con il modo di fare; e in fine essere prossimo, Eucaristia per gli altri, dono per gli altri: essere dono nelle comunità ecclesiali e religiose, nella vita familiare, nel lavoro, nell’incontro e nelle relazioni con gli altri, nel dialogo tra le religioni, le culture…; sta qui il fondamento e l’apice della vita cristiana e in particolare del discepolo missionario.
Per tanto, portare Gesù secondo lo stile di Nazareth non è anzitutto predicarlo, ma è “diventare Vangelo vivente”, gridarlo con la propria vita, quindi una vita evangelica, uno stile di vita, un modo di comportarsi che susciti negli altri alcune domande: – Chi sei? Perché sei così? Perché operi, ti comporti, fai così?
A questo punto, alla luce della vita di Carlo de Foucauld vissuta all’insegna del Mistero della Santa Famiglia di Nazareth e del Cuore di Gesù, possiamo cogliere più in profondità la ricchezza spirituale che Comboni riceve dal legame con la «Triade santissima» della casa di Nazareth, in particolare con il Cuore di Gesù dal suo concepimento nel grembo della Madre fino alla vetta del Calvario.
La vita spirituale dell’uno e dell’altro è certamente peculiare e si esprime in uno stile di vita missionaria ben caratterizzato: Carlo de Foucauld rimase affascinato dalla vita che “viveva la Santa Famiglia di Nazaret”, così che iniziò una vita conforme allo “stile di Nazaret”, basata sulla preghiera, il silenzio, il lavoro manuale e l’assistenza ai poveri, e andò a viverla in un villaggio dell’Africa; Daniele Comboni, trasportato dal suo impeto missionario, portava disegnato sul suo stemma episcopale l’intero continente africano, sormontato dai Cuori di Gesù e di Maria, a indicare l’amore di cui egli voleva interamente avvolgerlo.
I due hanno, per tanto, una comune passione missionaria per l’Africa, che scaturisce dal Cuore di Gesù e si alimenta nel Mistero della vita della Santa Famiglia di Nazareth, ma che ciascuno vive con uno stile proprio.
Carlo de Foucauld si prodigò a esprimere e a proporre la sua esperienza anche attraverso scritti specifici e sulla base di questa esperienza e degli scritti sono sorte varie esperienze religiose; da parte sua Comboni vive una profonda esperienza spirituale, ma la esprime, con chiarezza ed entusiasmo, solo nei contatti normali della vita con il solo fine di dare ragione della sua energica azione di Apostolo della Nigrizia e solide motivazioni alla sua opera di Fondatore.
Fulcro dell’esperienza religiosa di ambedue, è il Cuore di Gesù. Ognuno dei due però la vive a suo modo: Carlo de Foucauld fa vita eremitica nel deserto tra i Tuareg, dividendo il tempo tra l’adorazione eucaristica accompagnata dalla contemplazione del Vangelo e il servizio e l’assistenza ai poveri che lo circondano.
Comboni vive l’esperienza del Cuore di Gesù “strada facendo”, alimentandosi nella contemplazione dei Misteri della vita di Gesù, che rendono Comboni partecipe del cammino di amore di Gesù per l’umanità “dalla sua formazione … dalla sacra culla di Betlemme” al sepolcro del Crocifisso-Risorto in Gerusalemme: S 3323.
Per Comboni, il Cuore di Gesù è l’energia “di quella Carità accesa con divina Vampa” sgorgata dal Cuore trafitto di Cristo, che lo spinge ad attraversare sette volte il deserto per raggiungere i più poveri e abbandonati dell’Africa Centrale e farli protagonisti di un processo di “rigenerazione”.
Presente nella sua vita fin dalla giovinezza, approfondita nel pellegrinaggio in Terra santa, la presenza del Cuore di Gesù esplode nella vita di Comboni nell’introduzione del “Piano per la rigenerazione dell’Africa”, che viene intuito nei momenti dei suoi “più caldi sospiri” verso la Nigrizia, quando non può resistere all’idea di vederla abbandonata alla sua desolazione e sente l’urgenza di aprire una via sicura per offrire finalmente ad essa l’abbraccio cristiano “di pace e di amore” (S 2754; 2742).
Un altro punto di incontro molto significativo tra l’esperienza religiosa di Carlo de Foucauld e quella di Daniel Comboni, si trova nel testo delle Regole del 1871, in cui Comboni propone al missionario la vita in comunità alla maniera di “un piccolo cenacolo di apostoli” (S 2648) come scuola per la vita missionaria (S 2737) e gli prospetta la necessità di assumere la psicologia di “una pietra nascosta sotterra” (S 2701).
Qui la proposta di Comboni ha caratteristiche di profondità vicine allo stile di vita che “viveva la Santa Famiglia di Nazaret”, e che ha affascinato Carlo de Foucauld.
In effetti, nella prospettiva di Comboni, una vita da “pietra nascosta sotterra” non è affatto una vita rassegnata o puramente formale, ma una vita immersa con Cristo in Dio, cioè, coinvolta nei misteri dell’annientamento del Verbo Incarnato, che culminano nel Trafitto-Risorto; una vita quindi in cui Comboni accetta che il Dio-con-noi annunciato dall’Angelo a Nazareth ed elevato sul monte Golgota, lo racchiuda nel suo Cuore. È, per tanto, una vita pienamente attiva, resa creativa dall’obbedienza come fu quella dei “tre cari oggetti” della famiglia di Nazareth.
In quest’ottica, una vita da “pietra nascosta sotterra” si può ricondurre a due atteggiamenti di fondo, che caratterizzano l’esperienza religiosa del Comboni. Il primo è quello della fiducia radicale in Dio; fiducia che diventa obbedienza senza il timore che l’obbedienza a Dio tolga qualche cosa della responsabilità e della libertà dell’uomo. E il secondo è quello dell’amore per gli uomini e quindi di un’esistenza che diventa una esistenza “per”, cioè di un’esistenza che non mette al primo posto il bisogno di difendersi, di affermarsi, ma che si prende cura degli altri, della vita e del bene dell’altro, fino a mettere in gioco se stesso.
Così, “il Missionario della Nigrizia spoglio affatto di tutto se stesso, e privo di ogni umano conforto, lavora unicamente pel suo Dio, per le anime le più abbandonate della terra, per l’eternità. Mosso egli dalla pura vista del suo Dio ha in tutte queste circostanze di che sostenersi e nutrire abbondantemente il proprio cuore…… Anzi il suo spirito non cerca a Dio le ragioni della Missione da lui ricevuta, ma opera sulla sua parola, e su quella de’ suoi Rappresentanti, come docile strumento della sua adorabile volontà, ed in ogni evento ripete con profonda convinzione e con viva esultanza: servi inutiles sumus; quod debuimus facere fecimus. Luc. XVII” (S 2702).
A questo punto può essere significativa la testimonianza di un gruppo di Novizi che hanno vissuto il Noviziato a Venegono Superiore (2003-2005) impegnati a imparare la lezione comboniana della “pietra nascosta sotterra”.
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«…per essere una pietra nascosta sotterra…
Un mucchio di sabbia sotto l’altare. A ciascuno una pietra in mano da sotterrare.
Abbiamo cominciato così il noviziato: una messa per celebrare il nostro ingresso in un cammino di iniziazione dal tono un po’ paradossale: annullarsi, scomparire.
Del resto il Comboni ce l’aveva detto: “In una parola il Missionario della Nigrizia dee sovente riflettere e meditare, che egli lavora in un’opera di altissimo merito sí, ma sommamente ardua e laboriosa, per essere una pietra nascosta sotterra, che forse non verrà mai alla luce…”
…e tutto ciò l’abbiamo intrapreso con non poco spavento! “Dove ci porterà questa strada?”, “cosa significa tutto questo?”, “ma cosa siamo venuti a fare in un castello?!?”.
Si è trattato semplicemente di fidarsi: credere che se eravamo lì, significava che quello era il nostro posto. Non con la passività di chi obbedisce ma non ci crede, ma con la fede di chi crede che nel noviziato si sarebbe realizzata non solo la volontà divina, ma ci sarebbe stata donata la presenza di Dio.
La missione tante volte ci aveva parlato del sole dell’Africa, dei poveri che ti spiegano il vangelo, di notti insonni in nome della pace, di povertà radicale disposta al martirio, di mani sporche che condividono tutto.
Nel noviziato ci veniva chiesto di accostarci al silenzio, provare ad assaggiare quale sapore avesse la nudità: entrare nel mondo di Dio che ti chiede di lasciare tutto per Lui.
Ci siamo, così, accorti che la nostra casa era abitata da paura, rabbia, orgoglio, senso di colpa, senso di inferiorità e tanti altri ospiti che avevamo conosciuto appena. Loro abitavano la nostra casa e noi li dovevamo guardare negli occhi e dir loro “Sì, c’è posto anche per voi”. Anche loro avevano diritto d’esserci. E così abbiamo sentito bussare alla porta l’accoglienza, la disponibilità, la speranza. Un giorno ha bussato il dubbio e l’abbiamo fatto sedere. Il giorno dopo, poi, si è fatto vivo il coraggio … e ci siamo rialzati e siamo caduti … rialzati e caduti …
Il nostro cammino è stato un tentativo di entrare sempre più nel presente. Dio sa se ci siamo riusciti.
Abbiamo camminato per scoprire che se in un dato momento il Signore ci chiede di essere in un certo luogo, a compiere una certa azione, è perché Egli stesso ci attende là. In quel contesto preciso lo incontreremo e, se lo cercheremo altrove, non lo troveremo. Il Signore ci aspetta là per offrirci la sua compagnia, per donarsi a noi interamente. Il luogo e il tempo cessano di essere importanti: ciò che conta è solo la presenza a Dio e di Dio. È così che la missione non è più un dove sei, ma un come sei. Il presente diviene la nostra unica salvezza, la sola porzione di tempo sulla quale possiamo esercitare la nostra influenza. Mentre il passato ed il futuro ci sfuggono, solo l’attimo presente è un po’ nostro, pronto a lasciarsi smagliare dalla catena delle nostre azioni, dei nostri pensieri, dei nostri progetti per essere rivestito di meraviglia e di infinita bellezza.
Così abbiamo sentito bussare alla porta Dio e abbiamo trovato un biglietto con su scritto: “Ti voglio tutto per me, facciamo io e te una cosa sola: sarai il mio sposo”. La consacrazione per noi è questo: sposare Dio, concedersi solo a lui, da poveri, casti e obbedienti, giorno per giorno, in un noviziato che continua.
E il segno che il deserto dura tutta la vita sarà nella povertà della cerimonia, che vedrà solo la compagnia dei nostri familiari più stretti; nella castità del silenzio, che fugge dai riflettori e accoglie il protagonismo di Dio e nell’obbedienza al presente, che ci invita a celebrare i primi voti.
È il frutto di un cammino di quotidianità portato avanti in un’intensa vita comunitaria, scandita da preghiera personale e corale; nel servizio con i poveri (immigrati, tossicodipendenti,…) e in attività di animazione missionaria nelle parrocchie, nelle scuole e in casa, in occasione del presepe.
Abbiamo vissuto tutto cercando di sentirci parte della Chiesa, la nostra grande comunità, con la certezza che, nel giorno della nostra prima professione religiosa, lo Spirito Santo ci farà presenti ad ogni uomo, lontano e vicino che sia, nella comunione di Gesù.
Per un futuro da pietre nascoste… I novizi»
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C’è ancora un altro punto di incontro tra l’esperienza religiosa di Carlo de Foucauld e quella di Daniel Comboni; lo troviamo nel loro rapporto con la Vergine Maria, che prendono come compagna e modello di vita missionaria.
Riguardo a Carlo de Foucauld abbiamo già accennato come Maria era una presenza esemplare nella sua vita di discepolo missionario.
Riguardo a Comboni, immaginiamo di incontrarlo e di chiedergli di narrarci il suo rapporto con Maria; forse ce lo formulerebbe così:
«Ho percorso il mio pellegrinaggio missionario segnato dall’incontro e in compagnia di Maria, la madre del Signore, “volto materno di Dio”, presenza ineffabile di un amore che si dona costantemente. Ella ha un posto privilegiato nella mia vita, perché è Madre degli apostoli, Prezioso conforto del Missionario sul quale veglia per difenderlo dai pericoli, Stella Mattutina del missionario che si interna nel cuore dell’Africa, Maestra nei dubbi, Salute e fortezza nelle infermità, Guida nei viaggi, Luce degli erranti, Porto dei pericolanti, Madre della Consolazione.
È la pietosa Regina e la Madre amorosa della Nigrizia, la madre degli Africani, dei crocifissi di ieri e di oggi sul Gólgota del mondo, dove li riceve come figli stando ritta accanto al Figlio Crocifisso. Con la sua potente intercessione li libererà dalla sfortuna e li tufferà nelle gioie della fede, della speranza e della carità (cfr. S 1644).
La vivo come l’Immacolata, la “donna senza peccato, la “tutta santa”, la “tutta pura”, “prodigio della grazia di Dio” e “miracolo dell’onnipotenza divina”, “santuario della Trinità” e immagine ideale dell’uomo e della donna, segnale della vita vera, “terra promessa” alla Nigrizia; quella Nigrizia che si profila al mio sguardo smarrita in un “buio misterioso” che la rende “una viva immagine della desolazione di un’anima abbandonata da Dio”, ma che, accogliendo Cristo, sarà nella Chiesa la “perla bruna”, che brilla incastonata nel diadema dell’Immacolata.
Vivendo in sua compagnia, Maria – Figlia prediletta dell’Eterno Padre, domicilio dell’Eterno Figlio, abitazione ineffabile dell’Eterno Divino Spirito (S 4003) – mi spiega che cosa è essere Tempio di Dio, cella interiore dove si vive senza interruzione la comunione con le Persone divine della Trinità, casa dove il dialogo con Dio e la preghiera per l’avvento del suo Regno è incessante.
La compagnia di Maria, la vergine del “Sì”, la fedele Serva del Signore che tiene sempre aperto il Cuore di Gesù, tiene aperto anche il mio, riversando in esso il desiderio dell’ascolto della Parola, la pedagogia del servizio, della pietra nascosta che forse mai verrà alla luce, la passione di far causa comune con gli Africani, in un atteggiamento di rispetto e di fede in essi, che mi metta a servizio della loro capacità di essere soggetti della propria rigenerazione.
La compagnia di Maria mi rivela ancora la dignità e l’abilità della donna e l’indispensabilità del suo ruolo nella mia ardua missione. Attribuisco alla presenza di Maria nella mia vita il fatto che sono io il primo a far concorrere nell’apostolato dell’Africa Centrale “l’onnipotente ministero della donna del Vangelo, e della Suora della Carità, che è lo scudo, la forza, e la garanzia del ministero del Missionario” (S 5284).
L’incontro con Maria mi ricorda come l’inizio della mia vita cristiana è legato ai gesti e alla pietà di una donna semplice, quando “piccino imparava sulle ginocchia della mia madre a fare il segno della croce” (Cf S 342). Da questa esperienza che mi lega a Maria attraverso mia mamma, nasce la mia convinzione della necessità della formazione della donna africana, perché da essa dipende in gran parte la rigenerazione della grande famiglia dell’Africa».
In conclusione, lasciamoci condurre da san D. Comboni e da san C. de Foucauld alla scuola della Santa Famiglia di Nazareth e lì in compagnia di Maria e Giuseppe «fissiamo lo sguardo su Gesù, autore e perfezionatore della fede» (Eb 12,2).
Gesù, infatti, è «la chiave, il centro e il fine di tutta la storia umana…. Egli è l’uomo perfetto che ha restituito ai figli di Adamo la somiglianza con Dio. […] Con l’incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo ad ogni uomo. Ha lavorato con mani d’uomo, ha pensato con intelligenza d’uomo, ha agito con volontà d’uomo, ha amato con cuore d’uomo. Nascendo da Maria vergine, egli si è fatto veramente uno di noi, in tutto simile a noi fuorché il peccato. Egli è l’Agnello innocente che col suo sangue… ci ha meritato la vita» (GS 10 e 22).
P. Carmelo Casile
[comboni2000]