Sabato 10 ottobre 2020
Il 10 ottobre, giorno di Comboni, P. Neno Contran ha animato il ritiro per la nostra comunità di Castel D’Azzano (Italia). Il tema da lui scelto è stato molto spirituale e comboniano: “L’umorismo di san Daniele Comboni”. Ecco il testo pubblicato anni fa sul Bollettino comboniano.
Tutte le foto del Comboni che ci sono rimaste, ce lo presentano serio. Era lo stile «posa» del secolo, per cui la persona si irrigidiva e gli occhi si inchiodavano sulla scatola magica. In realtà, il Comboni ha saputo ridere in vita sua.
Al tempo dei malintesi con Don Mazza nel ’65, parla del proprio carattere in questi termini: «Dio m’ha dato un temperamento ilare, e tale che io godo e sono sempre contento e forse pochi vi sono al mondo più felici di me». Il Grancelli racconta che «ad un pranzo sottrasse -per restituirle si capisce, dopo lo scherzo -parecchie posate d’argento, senza che alcuno dei commensali se ne accorgesse».
La vigilia d’un Natale scrive ad Eugenio Comboni, da Verona, dove gli fa compagnia il padre: «Qui con mio padre stiamo molto allegri. Sono i minchioni che patiscono malinconia». Rende conto ad un amico di come siano allegramente finite alcune bottiglie. «Le sue famose bottiglie datemi al mio passaggio da S. Martino furono gloriosamente ed onoratamente bevute alla maggior gloria di Dio ed alla sua e nostra salute nelle seguenti località: 1. due nei miei Istituti di Cairo, ove parteciparono tutti i Sacerdoti missionari. 2. Una sbottigliata al Superiore dei Fratelli delle Scuole Cristiane al Cairo, amico e benefattore nostro. 3. Una, ahi! per isbaglio fu aperta ad Assuan alle prime Catterate del Nilo: volea trattare due religiosi francescani reduci da Chartum, dopo che la S. Sede tolse la missione a loro per darla a noi, ma trattarli con una bottiglia (cosa rara in questi paesi) di vino ordinario; invece ahi! per isbaglio si bevette il Pullicella di Grigolino. 4. Una bottiglia bevemmo a Chartum col R.mo mio Vicario Generale il P. Carcereri. 5. Ed una la tengo ancora nascosta nel mio baule, e nessun sa niente; ma si berrà qui nella Capitale del Cordofan forse ai 14 di settembre, in cui farò la solenne consacrazione del Vicariato al S. Cuore di Gesù.
Ella vede che non sarebbe male, anzi bene, se pensasse a fare sì che altre sublimi bottiglie di tal genere fossero così gloriosamente onorate nell’Africa Centrale; ma bisognerebbe evitare quel rompicollo di dazio, che subiscono spedizioni di tal genere in via Seminario n. 12 a Verona. Bisognerebbe spedire direttamente la sporta od altro al Sig.r Angelo Albengo in Alessandria d’Egitto mio Procuratore, il quale penserebbe a recapitarmele in Chartum. Benché in questo lungo viaggio dovrà passare ancora la Dogana dell’Ist.o di Cairo, tuttavia spererei che anche noi poveri selvaggi dell’Africa C.le ne gusteremo come cosa venuta dall’altro mondo».
A più riprese mostrerà che non gli vanno i missionari pessimisti, musoni, come quello «che vede oscuro più che all’inferno, dice su di tutto e di tutti, sogna catastrofi ed è così cocciuto che neanche lo Spirito Santo vale a fargli mutare giudizio».
Invita chi ne ha bisogno a star su col morale. A Virginia Mansur quando la tempesta sta addensandosi, scrive: «Coraggio, sta allegra, non ti avvilire». A suo padre: «Dio mi consolerà facendo restare con tanto di naso chi fu la causa ingiusta del mio soffrire. Allegri».
E al suo economo Don Giulianelli: «Se in qualche cosa vi sarà da soffrire, ciò sarà solo per i miei peccati, e non per i vostri: quindi statevene allegro». Di un missionario laico, Isidoro, scrive al padre: «Ci ha fatto ridere durante tutto il viaggio».
Come se fossi un uomo serio
Non sono riuscito a scoprire se raccontava barzellette. Nei suoi scritti ha lasciato specialmente delle battute e dei modi di dire scherzosi, su di sé e sugli altri. Si prende in giro volentieri.
«Ho sette anime, come le donne, e poi l’animino».
«Ciò che noi soffriamo di sete, di caldo e di soffoco, specialmente io che son grosso e grasso, e che ho (come diceva Mons. Vespasiani vescovo di Fabriano e Matellica che aveva un gran ventre, che egli chiamava botte) la mia botte che mi pesa, è impossibile ad esprimere, molto più che non ho mai appetito e dormo pochissimo» (maggio 81).
A P. Sembianti dice per scusarsi delle sue lettere scritte con un certo disordine: «Non creda che ai personaggi seri io scriva così alla babbalana, senza leggerle. A lei apparisco così quel che sono, un macacco de communi confessorum non pontificum. Con lei ho confidenza; e se non me la dà, me la prendo. Ma con i grandi, con i re (ho ricevuto ieri una bella lettera del re dei Belgi), con i cardinali di Roma, scrivo come se fossi un uomo serio e con la mia … riesco a farmi credere tale».
Ride di sé per non sottrarre agli altri il loro merito. Del piano in cui crederà per tutta la vita, dice: «Il Carcereri comprende il mio piano meglio di quello che non lo comprenda io».
In polemica contro chi gli mette i pali fra le ruote: «È vero che in Africa centrale possiamo essere tutti asini, e io il capo degli asini: ma ella mi concederà -scrive al P. Sembianti -, che io caput asinorum non potevo far meglio che scegliere fra i miei asini a vicario generale uno che fosse meno asino degli asini».
Prende spunti qua e là, per ridere. Anche dalle vicende politiche del suo tempo. Al Lavigerie scrive: «Al Congresso Generale di Magonza ho detto che la mia ultima parola sarà sempre o Nigrizia o morte. Più fedele e più leale di Garibaldi, che si è ritirato vergognosamente da Mentana dopo aver proclamato e detto: “O Roma o morte”».
Un giorno ha preparato lo schizzo d’un quadro di S. Giuseppe, da esporre durante il mese di marzo. Ne chiede l’approvazione al Canossa e gli spiega ciò che ha voluto rappresentare: «La Trinità in alto, S. Giuseppe più in basso in atto di pregarla per la Chiesa. La fede da un lato, la carità dall’altro. Più sotto, una barca in mezzo ai flutti, simbolo della Chiesa. Bisognerebbe che nella barca ci fosse il Papa. Chiesa senza Papa non esiste. Ubi Petrus, ibi Ecclesia. Vediamo dappertutto Garibaldi, e come non metteremo noi il Papa in Chiesa?».
In un momento di difficoltà economica esclama: «Quello che ha fatto i pipoli alle zirese [i peduncoli alle ciliege] el ghe pensarà: perché el gha testa drita, cor, e coscienza retta; è opera sua; dunque el ghe pensa lu: mi son servitor.
Ho messo all’ordine il mio economo S. Giuseppe, e gli ho intimato, sotto minaccia che altrimenti mi rivolgerò a sua moglie, che entro un anno voglio il pareggio nelle mie finanze, non quello di Lanza, Sella, Minghetti o quello dell’attuale ministro delle Finanze italiane e altri “beatissimi Regni ministri ad Itala Praesepia manducantes et bibentes, inflatis sermonibus post convivia, semper promittentes et nunquam exequentes” [«Ministri beati ‘ de Regno, che mangiano e bevono alla greppia italiana, dai discorsi ampollosi dopo i pranzi, che sempre promettono e mai mantengono»]. Ma quel pareggio perfetto che conviene al padrone della casa di Dio e Principe di tutti i suoi possedimenti».
Ci penseranno le vicende della vita a togliergli qualche volta la voglia di ridere. Lo dice esplicitamente, proprio là dove, parlando dei malintesi con Don Mazza, definisce il suo carattere «ilare»: «Queste cose mi fanno impressione e mi fanno male al cuore». Al termine della polemica con i camilliani dichiara: «Ho sofferto le angosce di morte per due anni e mezzo: credevo di soccombere. Ma appena subodorato l’esito della suprema autorità della Chiesa, mi sentii meglio, a tal segno che Pio IX, alla presenza del vescovo di Verona, al vedermi così forte e robusto mi disse: “Comboni non fai penitenza. Sembra che l’Africa Centrale non ti faccia alcun male”».
Il Card. Barnabò e Roma
Fonte di ispirazione gli è spesso il cardinale Barnabò con cui ha trattato a lungo e che in certo modo ritiene il «padre» della missione dell’Africa centrale.
È il Barnabò che anche con le sue espressioni un po’ paradossali ha contribuito a tracciare la via al Comboni. «II nostro lepidissimo cardinale mi fece risuonare più d’una volta all’orecchio queste frasi: “O mi porti un attestato che mi assicuri che tu vivrai 35 anni, oppure stabiliscimi bene il collegio di Verona. Se ti capita un accidente che ti porta all’altro mondo, c’è da temere che la tua opera finisce con te”».
Un giorno il Canossa manda al Comboni una lettera in cui gli chiede di presentare al Barnabò i suoi ossequi e di baciargli la mano. Comboni risponde: «Quanto al baciargli la mano, mi ha detto che non vuole che S. Em. incorra nella scomunica, avendo egli fin dal 1856 pagato 16 scudi per un Breve di S.S. Pio IX, in cui fulmina la scomunica a chi bacia la mano a Barnabò. A Don Perinelli, che sempre gli vuole baciare la mano, dice sempre: “No, perché v’è la scomunica”».
Si prende con lui anche il lusso di celiare: «Il Barnabò m’ha fatto un gran rimprovero cardinalizio perché ho portato le suore di S. Giuseppe in Egitto senza un regolare permesso di lui, Prefetto di Propaganda e Protettore, e perché non gli ho scritto tutti i mesi. Io non ho fatto che ridere; e gli dirò che ho acquistato l’indulgenza plenaria facendo la mia santa volontà».
D’altronde pure il Barnabò ha scherzato un po’ pesantemente col Comboni, che se ne lamentava: «Sono lieto di adorare con piena rassegnazione le disposizioni della divina Provvidenza, che ha permesso che il Prefetto di Propaganda, nella sua lepidezza, recasse non lieve danno alle mie risorse; poiché facendo risuonare all’orecchio di molti che Comboni è un matto, un p … da quattordici catene, ecc. una tal voce si sparse in Roma, girò per l’Italia e la Francia ecc.».
Facendo riferimento all’intraprendenza di Comboni e di Carcereri, il cardinale osserva, un giorno: «Bisogna che vi leghi tutti e due con 24 catene, perché se vi divincolate, nessuno vi tien dietro, e finite tutti e due al Capo di Buona Speranza» e rideva assai.
I Camilliani propongono una formula di contratto secondo cui il Comboni dovrebbe impegnarsi a dare un sacco di cose. Comboni osserva, pensando alla reazione del cardinale: «Se nelle luttuose circostanze in cui si trova la Francia, l’Europa e Roma io presentassi al card. Barnabò simile contratto per l’approvazione, egli ci farebbe una solenne e sgangheratissima risata e come pazzo da 28 catene mi manderebbe a S. Servolo, a Venezia».
Della «terribile pigrizia romana», dell’«eternità sistematica e proverbiale di Roma», ma anche della «sua giustizia», il Comboni parla a più riprese. Ha capito che a Roma «ciascuno come è geloso della propria giurisdizione, è altresì delicato a toccare la giurisdizione degli altri». Ha imparato a destreggiarsi nella capitale e ad un certo punto gli pare addirittura comica la posizione in cui viene a trovarsi, lui d’umile origine, ricevuto ripetutamente in udienza dal Papa e perfino eletto vescovo: «Un povero figlio di scartator di Limone, nato nelle grotte, che ha mangiato per molti lustri la proverbiale polenta e quaquaciò1 dell’alto Tacuso». [1 Squaquachiò: intingolo, vivanda molto tenera, brodaglia rappresa (BOERIO G., Dizionario del dialetto veneziano, 1856)]
In diverse occasioni presenta al Papa dei moretti e delle morette. Di un ragazzo del collegio di Ludovico da Casoria, intimidito dalla vista del Pontefice, scrive: «Il piccolo nero, che certamente sarebbe diventato rosso se fosse stato bianco come noi… Nel giardino del Belvedere, Vaticano, il Papa mi batté una mano sulla spalla dicendo con affabile sorriso: “Vieni via, figlio mio, tirati indietro e fa che si accostino le morette”. Io mi feci indietro e le morette avanzarono. “Osservate i bei pesci -disse loro -che nuotano qui nell’acqua”. E mentre le fanciulle guardavano dentro con grande curiosità e chiacchieravano fra di loro, il Papa fece cenno al giardiniere di mettere in moto il macchinario e, mentre egli ci diceva: “Guardate, guardate”, i cannoni tutto ad un tratto schizzarono i loro getti d’acqua e innaffiarono le morette che se ne scapparono via gridando, mentre i loro veli svolazzavano nell’aria, e si arrestarono solo a dieci passi di distanza, silenziose. Il Papa osservò molto attentamente le fanciulle che scappavano, poi ridendo ci disse con evidente ilarità: “Queste morette assomigliano a dodici anime del purgatorio, ma di quelle che ancora non hanno provato le loro pene, voi comprendete e qui sorrise -di quello che devono soffrire in purgatorio ancora per un bel pezzo”. Non riesco a descrivere l’ilarità di Pio IX in questo momento».
Lontano da me
I difetti degli altri sono fonte di divertimento, per tutti. E così è stato anche per Comboni, che di solito però sottolinea con bonomia le debolezze di chi lavora con lui. Certo che taluni meriterebbero non solo di essere presi un po’ in giro, ma addirittura sferzati. Come il laico Domenico, incaricato dell’orto di Khartum, che caccia i lavoratori cristiani per sostituirli con dei musulmani, non porta mai niente in cucina, insomma manda l’orto in rovina. Di più, è un tipo che non sa tenere la lingua a posto.
Se a tavola qualcuno scherza, ripetendo gli sfarfalloni d’italiano che il console austriaco commette dicendo alla missione per esempio, «fatemi la carestia» invece di «carità», Domenico corre subito a raccontarlo all’interessato, che naturalmente non gradisce che lo si prenda in giro. Finalmente arriva il giorno in cui Domenico deve partire per le vacanze, e, come succede anche oggi in certi casi, si spera che non torni più. Ma Domenico invece vuole tornare. Allora il Comboni decide che «resti al Cairo, a riempire alcune grandi buche e a badare all’orto della capitale egiziana» che -da quanto si può dedurre -non doveva essere il paradiso terrestre.
Quando deve formulare giudizi, Comboni è piuttosto preciso: «Conosco tutte le pazzie e propositi di quel conte. In ultima analisi è ferito nel Nomine Patris e a Verona è conosciuto». «Quando un frate è un mulo, ho poca speranza». «Peccati mai più… frati mai più». «Dio li benedica in eterno, ma lontano da me».
Del cardinal di Canossa, «Senza il quale, -dice -io appena avrei potuto fare il curato della Scala», scopre la debolezza principale: «In generale, o almeno in moltissimi casi, presso il card. di Canossa ha ragione chi gli è vicino, chi lo può abbordare al momento giusto, quando -come dicono i veronesi vecchi parroci e nobili -non gli viene la canossina, cioè il malumore cagionato dalla palpitazione di cuore». Le sfumature o le scuse le aggiunge dopo e all’occorrenza interviene per discolpare chi è ingiustamente attaccato.
Un giorno il Barnabò osa esprimere un parere un po’ caustico su un missionario che il Comboni stima: «Gli saltai agli occhi come un ibis», confessa. Su di un giovane missionario corrono chiacchiere non tanto lusinghiere. Si dice fra l’altro che «è mondano e ambizioso, perché ha degli odori come le donne». Comboni vuole accertarsi dell’origine dei profumi: «Feci aprire le sue due cassette, e gli trovai 8 bottigliette di acque della Scala: cose che sono necessarie, che Don Bortolo mandò più volte alle suore in Africa e che sono utili per le convulsioni».
Mons. Ciurcia non darebbe al canonico Fiore, che il Comboni stima assai, «nemmeno le galline da dirigere». Comboni invece protesta: «Prima il Fiore dirigeva una parrocchia di 36.000 anime, aveva sotto la sua cura 20 canonici e 30 beneficiati. Credo che possa dirigere galli e galline».
«Approfittiamo delle eminenti qualità del P. Stanislao e non serviamoci dei suoi difetti -scrive del Carcereri -. Il buon P. Pietro, che molto l’ama, non vede che con gli occhiali di P. Stanislao, finché io sono assente: quando io poi sto in Cairo, egli vede con i miei. Quindi noi adoperiamo i nostri occhiali».
Quando gli servono, cita a suo favore anche le testimonianze di individui in cui di solito non ha troppa fiducia. La direzione generale delle Suore di S. Giuseppe ha deciso di richiamare Sr. Marie? Comboni ne è dispiaciuto e scrive: «È appena uscito il nostro medico turco, che ha chiamato Maometto a testimonio che egli ha pianto e che egli è infelice per la partenza di Sr. Marie, perché -ha detto -non c’è al mondo una donna come Sr. Marie».
Avverte il Gran Capo dei Baggara che vorrebbe fare un viaggio fino al Nuba: «Mi offerse di farmivi accompagnare con 200 uomini armati e condurmi egli stesso, assicurandomi che la sua testa e la sua barba risponderebbero della nostra vita». «Ismail Pascia, governatore generale del Sudan visitò i miei stabilimenti di El Obeid e mi scrisse una lettera gentilissima, nella quale lodandone le opere e l’ordine soprattutto dell’Istituto femminile delle Suore, se ne congratulò meco, e promise di essere pronto ad aiutarmi per un’opera che egli dice di vera civilizzazione. Sono queste promesse da turchi; ma intanto si tira innanzi con la benedizione di Dio».
L’occhio del prefazio
Dicevamo che l’umorismo di Comboni si trova soprattutto nelle battute, in osservazioni velocissime, di getto. Da cui traspare il mondo degli interessi del Comboni, la sua capacità di vedere le cose non solo con la passione che gli era abituale, ma anche con un certo distacco.
Di solito scrive in fretta, anche perché vastissima è la sua corrispondenza. Chiede scusa a P. Sembiante se ha buttato giù: «La prego di vedere se nella fretta ho arato dritto». Al padre amatissimo, scrive, un mese prima di morire, per gli auguri: «Ho celebrato la messa per voi, per celebrare il 78 anno, dacché siete venuto al mondo ad imbrogliare la terra, e ad essere d’intrigo agli altri».
«Fa compassione la Francia d’oggidì. Mi pare che quel Broglie (che io conobbi personalmente e che era esteriormente religiosissimo), sia un vero imbroglione». «Il vescovo confida poco nel P. Guardi. Io sospendo il giudizio e sto in guardia». Con un amico commenta: «Una delle morette sta per maritarsi con un buonissimo Moro. Indovina chi? .. Luigia Mittera, Gobbetta, zoppetta, scavezzatella, che parea che non pensasse che a Dio perché fu sempre pia, ora pensa a maritarsi. Io però non credo finché a termine finito. Quel moro ha perduto il cervello, benché buono».
«Grazie a Dio tutte le nostre nere sono pie e di buoni costumi: potremmo esporle in una caserma di soldati: esse morirebbero martiri. Ma ce n’è qualcuna che di quando in quando patisce la luna, e durante questo tempo si mostra ingrata»
Prega il Sembianti di preparare le regole e di mandargliele, senza indugiare e aspettare i suggerimenti che potrebbero venire formulati dall’Africa: «Verrà il giorno del giudizio, perché non ho tempo di creare regole».
Ai missionari che non sembrano troppo convinti circa le possibilità di ricondurre i concubini sulla retta via: «Non vale il pretesto che in Sudan si costuma così. Gesù Cristo non ha fatto un’eccezione speciale per il Sudan».
Ha avuto notizia che quattro missionari protestanti passeranno per Khartum, diretti verso i Grandi Laghi: «Notizia che non mi ha fatto troppo piacere. Ma io sono preparato ad ustare questi Reverendi Signori come un Can da tartufole quando giungeranno a Khartum».
In molte regioni del Sudan, la situazione economica è disastrosa, non si trova più niente sui mercati. «Burro non ce n’è, e facciamo senza: perché quelli di Vicenza, si dice a Verona, di quello che non hanno, fanno senza».
Anni prima, quando c’era ancora abbondanza di cose, aveva chiesto a Propaganda certe dispense: «Sotto l’amministrazione dei miei predecessori Knoblecher e Kirchner si mangiò sempre al sabato di grasso, quando ne avevamo, per mancanza di olio. Anzi a quei tempi mi si diceva che la S.C. aveva dispensato dal magro anche il venerdì, perché nell’ Africa centrale non esiste olio e nel fiume Bianco non si fa butirro».
Varie volte usa l’espressione «occhio del prefazio» per indicare che si sente guardato male. «Qui al Cairo siamo guardati con l’occhio del prefazio da monache, clarisse, dal parroco e dai frati».
Chiede scusa al Cardinal Simeoni, per l’errore che c’è sulla carta intestata con cui gli scrive: «Non faccia l’occhio del Prefazio per questa irregolare intestazione: Episcopatus et Vicarius, perché io non ne ho alcuna colpa; ma fu quella testa gloriosa di Don Antonio DobaIe, alunno di Propaganda, che fece stampare tale intestazione in due risme di carta, a Roma e me la portò a Khartum; e siccome dovrò servirmi di questi fogli per molte volte, così questo avviso ed informazione valga per sempre».
Comandamenti e maccheroni
Non mancano brani scritti con vivacità. Eccone uno: «L’illustre Stanley (che è anglicano in America) mi diede opportune istruzioni per giungere fino alle sorgenti del Nilo, e piantarvi una missione cattolica, e mi fece una raccomandazione presso il Re Mutesa. Da parecchi anni i musulmani penetrarono colà, e dopo molto lavoro indussero il Re a celebrare il venerdì dei Musulmani. Arrivato colà il sudd.to M.r Stanley gli lodò assai la Religione Cristiana, e gli disse che Cristo fu quegli che sollevò la dignità della donna. Il Re rimase molto ammirato di ciò, e lo pregò di ispiegargli che cosa è la Religione Cristiana e in che consiste. Stanley allora gli disse che la Religione Cristiana aveva undici Comandamenti …, e spiegatigli i dieci, ossia il Decalogo, venne all’undicesimo che consiste nell’obbedire e rispettare il Re, come sovrano e padre (noi spiegheremo a suo tempo al Re che questo entra nel quarto), cioè, che i sudditi devono trattare il Re come padre, ed egli deve trattar loro come figlioli. Stupefatto il Re di sì belle dottrine, pregò Stanley a mettere in iscritto tutti gli undici comandamenti della legge di Dio, ciò che fece; e Il Re dopo averli studiati e ponderati dichiarò che la Religione Cristiana era molto più bella della Mussulmana, e da allora in poi stabilì nel Suo regno l’osservanza della Domenica; di modo che il Re Mutesa (il suo Regno è all’Equatore, e entro i limiti del Vicariato) al venerdì celebra la Festa secondo Maometto, ed alla Domenica la celebra secondo i Cristiani!!».
Spassosa è pure la cronaca della traversata del Mediterraneo fatta in compagnia di P. Ludovico da Casoria, diretti ad Alessandria, alla fine del 1865. Comboni fornisce alcuni dettagli nella relazione alla Società di Colonia: «Mi riesce impossibile di farvi la descrizione dell’orribile uragano e della terribile tempesta che ci ha sorpreso nella nostra traversata da Corfù ad Alessandria. Per 34 ore mi è stato impossibile comunicare con il P. Ludovico, per il quale avevo preso in affitto per due napoleoni d’oro una piccola camera, poiché io compresi che con il suo mal di mare, che lo assalì subito alla prima ora dopo la nostra partenza, sarebbe stato impossibile rimanere nella cabina comune. P. Lodovico ebbe uno spavento così terribile, che promise a Dio che non avrebbe voluto più andare in Africa, se avesse avuto la fortuna di tornare ancora a Napoli…».
Al Cairo noleggiarono una dahabià, per risalire il Nilo: «La barca aveva tre stanzette, la prima delle quali è per i viaggiatori meno abbienti, la seconda per i più facoltosi e la terza è destinata alle donne turche e viene perciò chiamata stanza dell’harem. A P. Ludovico fu assegnata la stanza dell’harem. Ecco il nostro orario: al mattino verso le 5,30 ci alzavamo e verso le 6 uno o due di noi celebravano la S. Messa, dopo la quale passavamo ancora un’ora di preghiera in comune e poi prendevamo la nostra colazione. Alle 10 dicevamo le Ore del giorno solennemente come i canonici di una cattedrale. Alle 12 pranzavamo e precisamente mangiavamo quasi sempre maccheroni, che P. Lodovico aveva portato con sé da Napoli. In vita mia non ho mai mangiato tanti maccheroni come in questo viaggio».
Più di Giobbe
Anche la Bibbia può essere citata in un contesto divertente. Al Mitterutzner dà la notizia che i suoi avversari sono stati finalmente sconfitti. Del loro esponente principale afferma: «lncidit in foveam quam fecit, e ha fatto come i pifferi di montagna, i quali andarono per suonare e furono suonati».
Comboni è stato talvolta sfortunato nel suo reclutamento. Gli capita perfino di dover rinviare un missionario laico già salito sulla nave che li deve portare da Marsiglia ad Alessandria. Il comportamento di questo missionario non è rassicurante e soprattutto il camilliano P. Zanoni insiste perché lo si faccia scendere allo scalo di Messina. O lui o il laico. E grida: «Se io sono il Giona, gettatemi in mare».
Alla signora De Villeneuve: «Vi assicuro che Giobbe, il giusto Giobbe, nuotava nelle gioie e nelle delizie, a mio confronto. Ha avuto più pazienza di me, ma io ho sofferto più di lui. L’ho detto anche a Leone XIII». A un altro amico confida: «Ho sofferto molto, forse più di Giobbe».
«Al Nuba eravamo circondati da un grande stuolo di neri grandi e piccoli, e di donne giovani e vecchie tutti e tutte con la moda dei nostri primi padri Adamo ed Eva, prima che facessero la minchioneria di peccare».
A proposito, questo problema dei nubani senza vestiti torna a più riprese nelle lettere comboniane, a volte anche con riflessioni molto serie, come per esempio quella in cui si afferma che nonostante la nudità, la loro moralità sembra grande. E ciò può essere assicurato dai suoi missionari che per molto tempo sono «stati cent’occhi per vedere se c’era qualcosa» di meno conveniente nel comportamento della gente.
Fra i missionari se ne distingue uno: «Don Losi, è capace di stare a tu per tu con donne perfettamente nude, e starvi per un’ora o due, per invitarle a farsi cristiane, vestirsi e non far peccati, per contrattare la compera di quattro uova o d’una gallina. Senza che mai capiti nemmeno l’ombra d’un cattivo pensiero: e questo è vero, è articolo di fede dai missionari constatato fin dal 1849 ad oggi. E molte donne qui sono tutt’altro che schifose. Gli uomini sono più schifosi delle donne».
Si mostra scettico su ciò che in certe località le donne portano secondo la tradizione. Lo nota nell’esplorazione del Cordofan, quando registra il termine Canfus: «piccola ciocchetta di pelle o stoffa che scende per coprire il nord e il sud, ma che niente o poco generalmente copre».
Le virtù
Dell’importanza dell’opera delle suore, Comboni ha una stima profonda: senza di esse l’attività missionaria non si fa strada, specie in certi ambienti. Ma nemmeno da quella parte mancano problemi. Per averle, per esempio. Alla Madre Generale delle suore di S. Giuseppe chiede che gliene mandi: «Se fossi a Marsiglia, sarei capace di inginocchiarmi davanti a voi (senza farmi vedere dal card. Barnabò) per pregarvi di dare all’ Africa Centrale Sr. Marie». E arriva a firmarsi: «Vostro infelice figlio in Gesù Cristo (se non arrivano le suore)>>.
Fra le prime suore del suo Istituto sbarcate in Africa, c’è stata anche una illegittima. Comboni osserva: «Ho sempre veduto per esperienza oculare che i figli e le figlie illegittime sono calde come chi le ha generate; e benché educate nella pietà e purezza, all’occasione si accendono e si innamorano facilmente. Naturalmente ogni regola patisce le sue eccezioni. Se si presentasse una illegittima con buoni numeri, bella dote, istruzione (sempre unite a buono spirito) ecc. allora è un altro paio di maniche. Allora … si allarga perché i minchioni non vanno in paradiso».
È in Africa che la suora missionaria si realizza. «Sr. Faustina a Verona sarebbe un’imbecille, in una vita quieta di convento; ma in Africa vale due suore».
Ma non è facile convincere chi non vuole diventare superiora: «Intonai l’antifona a Sr. Francesca, perché faccia lo stappabuchi al Cairo» .
Non mancano gli imprevisti, come quella cugina d’un prete: «La nostra superiora del Cairo, che per 13 anni fu superiora del Conservatorio di Malta, che era il rifugio delle mal maritate, ecc. ha abbastanza vigore e forza per tenere a freno la pazzarella. Una superiora che ha i mustacchi da capitano tedesco».
È così grande e spontanea la fiducia che ha nel Signore, che non di rado scherza, come si dice, con i santi. Lui «burattino di Dio», ha adottato la seguente formula di vita: «fiducia in Dio, ridersi degli uomini e dei santi che mangiano: la Chiesa, il Papa, Roma, lo zelo della gloria di Dio e una buona coscienza: il resto, tutto e tutti, sotto i piedi».
«La scarsella vuota è il peccato capitale che regna fra di noi», scrive un giorno a Don Tomba, parlando della povertà in cui si vive nell’Istituto Mazza. Povertà che avrà modo di conoscere varie volte, come quando scrive da Karthum, un soffocante pomeriggio di fine giugno: «Nelle stanze vescovili fa 30 gradi, fuori dai 50 ai 55. Sono pieno di debiti, i magazzini sono vuoti. Sono crudo e magro, che fare?». È specialmente a S. Giuseppe che affida la soluzione di questo problema. Nel ’73 racconta che in meno di sei anni ha speso più di cinquecentomila franchi ora per le «Mie opere. O meglio per le opere di Dio, di cui io sono il lavapiatti e S. Giuseppe l’economo». Qualche volta S. Giuseppe sembra mancare all’appello: «Il mio economo, benché marzo sia il suo mese, fa ora il sordo con me: bisogna restituirgli l’udito».
Non confonde però le cose. «lo parto dal principio giustissimo e basato sulla pratica esperienza, che come nell’ordine temporale quattrini fan quattrini, così nell’ordine spirituale opera fa opera». Il suo Istituto ha ricevuto una vistosa eredità. Ci vorrà molto tempo prima che si riesca a venirne in possesso. «Supponiamo che sia la metà, perché come dice il proverbio: denari e santità, metà per metà». È logico che bisogna saper batter cassa. A una benefattrice che ha dato i suoi beni in cambio di 6.000 messe che dovranno essere celebrate dopo la sua morte, Comboni ripete il ragionamento seguente, (che del resto non era suo, ma di Don Squaranti): «Com’è possibile che lei, signora Luigia, che è vissuta sempre santa, e che ha fatto tanto bene e tanta carità al mondo, fino a spogliarsi quasi di tutto, possa andare in purgatorio e abbia bisogno di seimila e più messe per liberarsi da quelle pene?». Lo Squaranti era riuscito a ridurre l’obbligo a 3.000; Comboni punta a messe zero.
In pellegrinaggio al santuario della Salette: «La mattina appena detto la messa, chi mi cercò di qua chi di là, per ricevere la benedizione. Io diedi a tutti la benedizione: ed in ricambio riceveva io pure da molti la benedizione, perché chi mi diede 19 franchi, chi 20, chi 30 e uno 50. Il fatto è che in meno di un’ora, in cui io diedi la benedizione e viceversa, ricevetti io pure la benedizione di 200 franchi».
È una miseria
Varie volte introduce nel suo di scorso il termine «corna». Nel ’73, annuncia che in poco tempo ha liberato più di 500 schiavi: «Le corna di Cristo, diceva Don Mazza, sono più dure di quelle del diavolo». Spera di far sparire i negrieri dalla faccia della terra: «Le corna di Cristo sono più dure di quelle del demonio». E incoraggia i suoi dicendo: «Portiamo la croce, che è lo strumento che ruppe le corna al diavolo e al mondo insano».
Gli dà anche il senso corrente. A Khartum ha a che fare con dei commercianti cristiani e insistendo è riuscito a convincerli a lasciare che le loro concubine vengano istruite nel catechismo. Si tratta di una cosa importante, per cui la scrive al card. Simeoni: «Sono in corso di istruzione tre concubine, col consenso dei loro Becchi Cornuti, i quali hanno conservato una viva scintilla di quella fede in cui sono nati in Siria».
Sono anime da salvare, come quella di Linant Pascia, «per quaranta anni ministro dei lavori pubblici. Ha 82 anni, ha popolato l’Egitto di figli di tutti i colori, avendo cura speciale di farli subito battezzare appena nati. È un’anima che certo i gesuiti riusciranno a salvare».
A proposito di poligamia: «L’altro giorno è venuto da me un capitano della milizia egiziana, per domandarmi consiglio per una malattia agli organi genitali; siccome si trattava di affare sifilitico, fra le altre cose che gli prescrissi: l’astinenza dall’uso con donne non solo, ma anche con la stessa moglie, altrimenti se n’andrebbe presto a trovar Maometto. Al che mi rispose: Che volete ch’io ne faccia di tante donne? Ne ho già dieci in casa mia di mogli, e quindi ne ho abbastanza senza cercarne altre».
Avanzando negli anni, è assillato dal problema della croce: «Mio Gesù. Noi non abbiamo testa, ed abbiamo naso corto: se avessimo il naso più lungo, e potessimo vedere perché Dio opera così, dovremmo lodarlo e benedirlo».
E gli torna continuamente allo spirito il dilemma dell’incoerenza di certe persone, che da una parte sono sante e dall’altra fanno cose contraddittorie. «lo sono confuso e non capisco un’acca …». «È una miseria trattare con i santi matti senza testa.
Mio caro Padre, il Barnabò mi diceva: “Finché mangiamo e…, siamo sempre deboli uomini: quando non avremo più bocca per mangiare, allora saremo liberi dalle miserie”».
Il suo economo ha comprato 6.000 litri di vino. «Gli ho ordinato in virtù di santa obbedienza che mi scriva perché comprò tanto vino che basta per 4 anni, e chi gli ha dato quest’ordine: ma egli santamente non mi rispose nulla».
Lo stesso ha poi la mania di fabbricare le candele invece di comprarle, per risparmiare, s’intende. «Oggi gli ordino di non fare più candele, perché spende enormemente, perché vuole candele grosse e con stoppino grosso. In febbraio comprò 80 chili di cera: e sono un prete, tre laici, quattro suore ammalate.
Gli ho proibito di accendere più di due candele, fuorché quando c’è benedizione. Le candele che lui fa non sono inoltre buone, si piegano».
Comboni aveva, fra l’altro, acquistato due casse di candele in Europa, che sarebbero bastate per due anni. Poi gli dispiace d’aver mortificato l’economo e gli dice: «Povero il mio Don Francesco! Non poter accendere quante candele gli piace. Ritiro affatto gli ordini dativi, e vi restituisco la piena libertà e facoltà di consumare quante candele volete. State allegro, fate funzioni, novene, e bruciate candele come vi piace».
Don Fraccaro è un grande lavoratore, ma non «ha mai potuto darmi i conti della sua amministrazione, e non me li può dare, perché non ha scritto. Cosa debbo fare? È quasi un mese che sono in Cordofan, ed ogni giorno l’ho tempestato di darmi i conti almeno approssimativamente: mi ha risposto di sì, ma finora non ho visto nulla e non li vedrò in eterno».
Dall’eternità, del resto, si aspetta la rivincita: «Se Don Losi, Don Luigi e io riuscissimo a trovarci insieme in paradiso (e molto più se vi sarà, come spero, anche Don Bartolo Rolleri), dobbiamo molto ridere sulle interessanti commedie che abbiamo rappresentate qui in terra».
Ed essa è più vicina che mai.
Si stanno diffondendo notizie poco rassicuranti sull’avanzata del Mahdi. Dal Console austriaco viene a sapere che il Sudan è in piena ribellione. Conclude, scrivendo al Sembianti due mesi prima di morire: «Allegri! Andremo in paradiso più presto. Viva Gesù»!
P. Neno Contran
[Combonianum]