Martedì 16 ottobre 2018
A partire dalla svolta del Concilio Vaticano II, la riflessione teologica e missiologica ha posto l’attenzione su un dato fondamentale: il ripensamento della missione e dell’immaginario missionario in dialogo con la complessa realtà del mondo d’oggi. Ciò in virtù della rinnovata coscienza del rapporto chiesa, mondo, regno di Dio, che rende la missione dialogica e multidirezionale, attenta agli snodi del crocevia globale, nella condivisione delle tensioni, dei drammi e delle novità che caratterizzano la vita quotidiana. [...]
Quale teologia
per un nuovo paradigma di missione
Prof. Carmelo Dotolo
A partire dalla svolta del Concilio Vaticano II, la riflessione teologica e missiologica ha posto l’attenzione su un dato fondamentale: il ripensamento della missione e dell’immaginario missionario in dialogo con la complessa realtà del mondo d’oggi. Ciò in virtù della rinnovata coscienza del rapporto chiesa, mondo, regno di Dio, che rende la missione dialogica e multidirezionale, attenta agli snodi del crocevia globale, nella condivisione delle tensioni, dei drammi e delle novità che caratterizzano la vita quotidiana. In tal senso, il fatto nuovo del villaggio globale – crocevia di popoli riporta l’ad gentes al suo significato originale, comprensivo e più positivo, di “tanti popoli”, cioè di ogni uomo e donna che può beneficiare della proposta evangelica, a partire dalla propria appartenenza sociale, culturale e religiosa.
In questo quadro di riferimento, si è venuta delineando un’importante prospettiva metodologica. Il bisogno di reinterpretare il messaggio cristiano al servizio della crescita umana, non nasce da un atteggiamento alla moda, ma si inserisce nella complessità di un mutamento che non autorizza letture ideologiche semplificanti. Senza una pertinente interpretazione dei segni dei tempi, la missione e i processi di evangelizzazione rischiano l’irrilevanza. È la preziosa eredità che ci consegna il Concilio Vaticano II, per la quale la dimensione missionaria della Chiesa ha a che fare con la decisiva questione della comunicazione della fede e con una prassi cristiana realmente contestuale. Sintonizzarsi, infatti, con i segni dei tempi, che sono sempre indicazioni dell’agire dello Spirito, significa entrare con empatia nella ricerca umana di giustizia, pace, felicità, solidarietà. La storia che Dio compie con l’umanità ha come obiettivo quello di aiutare donne e uomini a realizzare la propria identità, a saper individuare nel quotidiano tutto ciò che contribuisce a far fiorire la vita e far crescere il bene comune. Sulla scia di un diverso metodo teologico e pastorale, si possono individuare alcuni orizzonti teologici decisivi per un diverso paradigma di missione oggi.
1. Una teologia della kenosis e della liberazione
Per la riflessione teologica il mondo è partner di un dialogo importante per la missione profetica della chiesa, sulla scorta della novità dell’incarnazione. La proposta cristiana responsabilizza ogni donna e uomo in vista della costruzione di una cultura capace di realizzare i valori della libertà, della solidarietà, della dignità di ogni persona. L’accento cade, pertanto, su di un’attenzione alla prassi della testimonianza (come insisteranno le teologie della liberazione), che deve incidere sulla vita sociale e politica, onde evitare uno svuotamento dell’essenza della religione cristiana, o, addirittura, una dichiarazione di inutilità per la vita degli uomini e delle donne del Novecento. La ragione di tale prassi si fonda sul fatto che la storia, nell’orizzonte dei valori regno di Dio, è aperta a un futuro che si esprime nella promessa di una liberazione e salvezza, già presente nell’evento pasquale. Per questo, la missione dovrà parlare il linguaggio della kenosis: Dio, in Gesù che dona liberamente se stesso, condivide la passione del mondo e soffre la sua passione d’amore per i più piccoli, per gli ultimi. E lo fa dando alle loro speranze disattese e alla loro fatica di liberazione una possibilità reale di compimento, sì che anch’essi abbiano pienezza di vita. Ciò significa anche che l’interlocutore privilegiato della missione è l’uomo impoverito e disumanizzato, discriminato, defraudato nel suo vivere quotidiano e violentato nel suo corpo come nella sua dignità, privato del diritto di avere diritti, fino a esser reso “superfluo” in un mondo pensato in termini utilitaristici.
2. Una teologia della missione in dialogo con la storia
Nonostante la storia e il mondo sembrano implodere nelle loro dichiarazioni di un miglioramento delle condizioni di vita, la speranza cristiana non si stempera dietro gli insuccessi, né si scoraggia dinanzi a valutazioni fallimentari. Anzi, nel dialogo profetico con la società e la cultura, la chiesa offre la fecondità di una teologia che si ispira al principio dell’Esodo e del Regno. Solo su questa base è possibile dare forma a un cristianesimo, in cui ogni uomo e donna possano esprimere al meglio il loro essere co-creatori di una storia e di un mondo differente. La libertà di religione, di fede, di coscienza diventano criteri imprescindibili della qualità del messaggio cristiano, nell’orizzonte di una comunione ecclesiale sempre più attenta al senso di popolo di Dio. È decisivo aiutare le persone a cogliere il senso trascendente nella storia, la vicinanza di Dio che invita ogni uomo e donna a una storia di libertà, di giustizia, di salvezza. Dinanzi alla tentazione di progettare una religiosità fai-da-te, o sbilanciata sulla ricerca di equilibrio psicofisico, è opportuno educare allo stile di una fede che mette al centro il progetto di liberazione. La stessa spiritualità deve diventare critica, contro ogni falso spiritualismo e capace di una mistica dagli occhi aperti. Qui si inserisce il dialogo interculturale, interreligioso ed ecumenico. L’importanza del dialogo come stile e strumento di un incontro aperto, rappresenta uno dei fili conduttori del ripensamento della missione della Chiesa. In particolare e in relazione alle religioni, esso segnala una convinzione importante: le religioni hanno un ruolo provvidenziale e l’apertura alla fede dell’altro implica la capacità di condividere la sua visione del mondo, con una simpatia che è premessa alla comprensione. Le appartenenze non possono rappresentare ostacoli, né decidere della significatività o meno dell’incontro interpersonale. Per questo, le comunità ecclesiali devono vivere lo stile del dialogo all’interno della missione per contribuire a rendere nuova l’umanità. Se il dialogo produce una conoscenza e un reciproco arricchimento, è perché mette nelle condizioni di poter cambiare, di sperimentare l’evento della conversione quale apertura all’incontro con la verità che lo Spirito dona nell’accompagnare ogni incontro che intende andare al cuore dei problemi.
3. Una teologia missionaria interculturale
L’annuncio missionario deve aprire costantemente alla scoperta dell’altro, senza il quale non è possibile un’esperienza autentica di crescita e collaborazione. È opportuno ribadire una sensibilità già presente nella prassi missionaria in atto: l’attenzione ai poveri, alle minoranze (il pianeta immigrati, il pianeta donne, il mondo giovanile, e così via) alle persone che vivono nella concretezza di bisogni e di ascolto, hanno dato forma al ministero di advocacy, in grado di progettare con le vittime e gli esclusi percorsi di risanamento personale e reinserimento sociale. Da questa angolatura, appare sempre più vitale per la missione globale essere capaci di vivere e promuovere uno stile interculturale. Entro queste coordinate, la missione mira alla costruzione di una cultura nuova che sappia puntare sulla dignità e sul diritto, soprattutto di coloro che per politiche imperialistiche sono esclusi ed emarginati. Non è un caso che oggi i diritti umani sono nell’attuale situazione culturale locus theologicus, vale a dire fonte e spazio di apprendimento per la teologia e la missione. Il che significa che i diritti umani nella loro dimensione sono aspetti del sapere teologico che aprono un nuovo spazio di confronto e di attenzione critica nel discorso pubblico. Aspetto, quest’ultimo, importante dal punto di vista missionario, perché rimette a tema la questione dell’affidabilità e significatività della testimonianza cristiana in vista di una convivenza solidale. Nei diritti umani è prioritaria la dignità della persona e questo esige una diversa consapevolezza del contributo culturale delle comunità ecclesiali. In particolare i diritti: a) educano al rispetto democratico della differenza contro ogni fondamentalismo; b) indicano nella dignità e libertà un orizzonte inoltrepassabile, di cui prendersi cura; c) rappresentano un processo di auto-interpretazione dell’essere umano nella logica di un’apertura alla verità che trascende la storia; d) rinviano all’esigenza di una fondazione che, nel quadro dell’esperienza religiosa, fa riferimento al principio della creazione e al significato dell’imago Dei. In questo quadro, l’impegno missionario deve volgersi verso la valorizzazione dei diritti umani come condizione per vivere da uomini liberi e in vista di una maggiore universalizzabilità degli stessi.
4. Una teologia al servizio dell’ecologia integrale
La missione, oggi, deve comprendere la solidarietà con il creato e la sua integrità. Dinanzi a un’idolatria del profitto e della ricchezza, il cui imperativo è consumare, l’incondizionata tecnocrazia ha un effetto dirompente sull’ecosistema e sullo sfruttamento insensato delle risorse. L’attenzione al creato non è riducibile alla sola gestione utilitaristica degli ecosistemi, ma si inserisce nel progetto del consolidamento della vita per tutti, che richiede una cooperazione per debellare una civiltà predatoria e dell’accaparramento. Ci sono beni comuni, come l’acqua, l’aria, le foreste, la terra, che non possono più essere oggetto di una mercificazione a danno del diritto all’autosufficienza dei popoli. La coscienza della mutua appartenenza tra l’umanità e la Terra, sta modificando l’ottica di lettura ecologica: l’impegno e la sfida ambientale, economica e politica sono strettamente legate alla responsabilità sociale e spirituale. Salvaguardare il creato è formare un’alleanza per la cura della Terra, pena il rischio dell’autodistruzione e della scomparsa delle biodiversità. In particolare, è urgente riconsiderare la fame come questione politica ed etica, a partire dai processi che ritengono il cibo un affare molto redditizio. La produzione capitalistica crea una rete di interdipendenze con imprese transnazionali che piegano le scelte agroalimentari a interessi che non toccano le politiche di superamento della fame nel mondo. Al di là di qualsiasi soluzione, è giocoforza assumere una spiritualità della commensalità, in cui l’attenzione alla condizione della famiglia umana si configuri con scelte che autolimitino l’impulso a dominare e accumulare, verso uno stile di consumo equo e solidale, in grado di valorizzare le risorse ambientali.
Prof. Carmelo Dotolo
Teologo e Laico Comboniano