In Pace Christi

Giori Giovanni Battista

Giori Giovanni Battista
Data di nascita : 27/09/1855
Luogo di nascita : Bosco Sacco TN/I
Voti temporanei : 28/10/1887
Voti perpetui : 01/11/1895
Data decesso : 28/06/1918
Luogo decesso : Wau/SSD

Il battelliere del Nilo

Fr. Giori, come Roveggio e Colombaroli, è uno dei primi dieci che hanno emesso la professione religiosa il 28 ottobre 1887 nella vecchia casa dell’Istituto comboniano, attigua al seminario diocesano. Era nato a Sacco, Trento, nel 1856. Animato dal desiderio di donarsi totalmente alle missioni dell’Africa centrale grazie alle parole di un amico che aveva incontrato Comboni, un giorno del 1879 fuggì di casa e, a piedi, andò fino a Limone sul Garda dove, in quei giorni si trovava proprio mons. Daniele Comboni in persona. Giori era più che convinto della sua vocazione ma sapeva che i suoi non ne volevano sentir parlare: erano troppo preziose le sue robuste braccia per mandare avanti la famiglia.

Solo quando seppe che Comboni era morto (1881) sentì come una scossa e si ricordò le parole che il grande Vescovo gli aveva dette fissandolo negli occhi: “Tu devi fuggire da casa, e se tuo padre vuole salvarsi l’anima, deve lasciarti partire”. La lotta in famiglia fu accanita. Finalmente, dopo aver dissodato l’ultimo pezzo di bosco per trasformarlo in vigneto, ebbe il permesso di partire.

Nel settembre del 1882 la città di Verona venne sommersa dalle acque dell’Adige. Le ondate limacciose erano arrivate fino al tabernacolo dove era custodita l’Eucaristia. Fr. Giori, che era in quella casa da pochi giorni, senza perdere un attimo di tempo, si buttò nell’acqua, raggiunse il tabernacolo, lo aprì e portò in salvo Gesù eucaristia.

L’inondazione aveva devastato la povera sede dell’Istituto per cui Giori si trasformò in muratore, falegname, idraulico per renderla abitabile; ma all’occorrenza sapeva fare il cuoco, il contadino, il calzolaio… per aiutare i confratelli. Finalmente il 22 ottobre 1883 emise il duplice giuramento di fedeltà alla missione e di appartenenza all’Istituto. Ma le vie dell’Africa erano chiuse causa la rivoluzione del Mahdi che aveva distrutto le missioni e fatti prigionieri i missionari e le suore. Che fare?

Intanto mons. Sogaro, successore di Comboni come Vicario Apostolico dell’Africa centrale, trasformò l’Istituto di Comboni in Congregazione religiosa. Fr. Giori nel 1885 iniziò il noviziato che concluse il 28 ottobre 1887 con i Voti che lo fecero missionario Figlio del Sacro Cuore. Cinque anni trascorsi a Verona pesarono sull’anima di fr. Giori, specialmente considerando quanto sarebbero state preziose le sue braccia in famiglia, ma alle volte la vocazione chiede anche questo sacrificio.

Con gli ex schiavi della Gesira

L’ultima domenica di novembre del 1887 il nostro missionario era al paese natale per salutare i parenti e gli amici. Il primo dicembre, infatti, partì da Trieste per l’Africa. Giunto al Cairo, fu mandato nell’isola di Gesira, sul Nilo, dove mons. Sogaro aveva dato inizio ad una colonia antischiavista. Lì trovavano rifugio quegli africani che riuscivano a fuggire dalle grinfie del Mahdi.

Fr. Giori diventò istruttore di quegli ex schiavi, ormai uomini liberi, costruì strade, canali, edifici; coltivò il cotone e il grano, curò l’allevamento del bestiame ricavando latte e formaggio che, oltre a bastare al fabbisogno interno, veniva venduto al Cairo. Con lui lavoravano altri confratelli, tra i quali p. Roveggio, suo compagno di noviziato, e alcune suore comboniane che si dedicavano alle donne e alle ragazze. In pochi anni l’isola, prima una distesa di sabbia, fiorì e la vita trascorreva serena per tutti. Le famiglie africane si erano moltiplicate e abitavano un villaggio formato da belle casette. Nel 1891 p. Roveggio fece arrivare una potente macchina a vapore che, sollevando l’acqua dal Nilo, assicurava l’irrigazione.

Gli africani andavano a scuola e imparavano i diversi mestieri. C’era perfino un gruppo che studiava latino con la prospettiva di accedere al sacerdozio. Per rallegrare le serate e i giorni di festa, fr. Giori si esibiva con l’ocarina che suonava magnificamente e diede vita ad una banda musicale.

Capitano del Redemptor

Il 21 aprile 1895 p. Roveggio fu eletto vescovo, succedendo a mons. Sogaro. Nel 1898 le orde del Mahdi furono sconfitte dagli inglesi e il Sudan si riaprì all’attività missionaria. A Londra, per ordine di mons. Roveggio e di p. Colombaroli, si stava costruendo il battello Redemptor che, solcando il Nilo a sud di Khartoum, avrebbe calcato le orme di Comboni e dei primi missionari, fin nel cuore dell’Africa centrale.

Una nuova epoca missionaria stava per cominciare. Mons. Roveggio aveva bisogno di un capitano di battello e pensò subito a fr. Giori che aveva dato ottima prova di sé alla Gesira. E lo mandò presso i cantieri di Alessandria d’Egitto per far pratica di navigazione fluviale e di meccanica. Era ospite dei Francescani. Intanto arrivò a Omdurman il battello, smontato e sistemato in casse.

Il 13 dicembre 1899 ci fu il viaggio inaugurale: “Dunque, sia il nome del Signore benedetto – scrive Roveggio – dopo quasi 16 anni di assenza e di forzato esilio, la nostra Missione ha potuto riprendere l’opera sua”.

Quindici anni su e giù lungo il Nilo, portando personale e materiale da costruzione per le nuove missioni che sorgevano come fari luminosi in una notte oscura, sfidando le erbe galleggianti che sovente formavano delle vere isole mobili. Più di una volta il battello s’incagliò e allora il capitano e i suoi uomini, si immergevano nell’acqua sfidando i coccodrilli e, a colpi di accetta, si aprivano una passaggio. Qualche volta le isole formavano dei canali che poi risultavano chiusi per cui bisognava fare marcia indietro e tentate un’altra via. Costantemente bisognava proteggersi dai nugoli di zanzare che si avventavano fameliche sui marinai. Poi c’era la malaria che, alle volte trasformava il battello in un ospedale galleggiante. Eppure fr. Giori non perse mai il buon umore e l’entusiasmo, anzi, seppe infondere fiducia e ottimismo nei suoi uomini.

Quando arrivava ad una nuova missione, diventava costruttore, meccanico, e anche cuoco all’occorrenza, perché la professione prima del fratello missionario è la disponibilità, lo spirito di servizio, l’aiuto ai confratelli.

Il 25 luglio 1914 fu un giorno triste per il nostro capitano e anche per il suo battello: per una manovra sbagliata di una grossa draga che si trovava nel porto di Khartoum, il Redemptor venne rovesciato e affondato.

Fr. Giori non si perse d’animo: con spirito missionario accettò di andare nella grande missione di Wau, nel Sudan meridionale, e divenne istruttore nella scuola di falegnameria e di meccanica che i missionari avevano aperta. Lasciò questo mondo il 28 giugno 1918. Le ultime parole sono state: “Facendomi missionario ho trovato il paradiso in terra”.

P. Lorenzo Gaiga

********

Fr. Gianbattista Giori è nato a Sacco, Trento, nel 1856. Animato dal desiderio di donarsi totalmente alle missioni dell’Africa centrale grazie alle parole di un amico, il maestro Roberto Tonolli, che aveva incontrato Comboni, un giorno del 1879 fuggì di casa e, a piedi, andò fino a Limone sul Garda dove, in quei giorni si trovava proprio mons. Daniele Comboni in persona.

Giori era più che convinto della sua vocazione ma sapeva che i suoi non ne volevano sentir parlare: erano troppo preziose le sue robuste braccia per mandare avanti la famiglia. Mons. Comboni, fissandolo negli occhi, gli disse: “Se tuo padre dovesse ostinarsi in un diniego correrebbe il pericolo di perdere l’anima sua ed anche la tua”. Ma il papà si dimostrò irremovibile.

Solo quando Giori seppe che Comboni era morto (1881) sentì come una scossa e si ricordò che le parole di un morto, e per di più vescovo missionario, erano sacre. La lotta in famiglia fu accanita. Finalmente, dopo aver dissodato l’ultimo pezzo di bosco per trasformarlo in vigneto, ebbe il permesso di partire per Verona dove, in una modesta casa nella parte bassa della città c’era la sede dell’Istituto fondato da Comboni.

La sfida con l’Adige

Nel settembre del 1882 la città di Verona venne sommersa dalle acque dell’Adige. Le ondate limacciose erano arrivate fino al tabernacolo dove era custodita l’Eucaristia. Fr. Giori, che era in quella casa da pochi giorni, senza perdere un attimo di tempo, si buttò nell’acqua, raggiunse il tabernacolo, lo aprì e portò in salvo Gesù eucaristia.

L’inondazione aveva devastato la povera sede dell’Istituto per cui Giori si trasformò in muratore, falegname, idraulico per renderla abitabile; ma all’occorrenza sapeva fare il cuoco, il contadino, il calzolaio… per aiutare i confratelli. Finalmente il 22 ottobre 1883 emise il duplice giuramento di fedeltà alla missione e di appartenenza all’Istituto. Ma le vie dell’Africa erano chiuse causa la rivoluzione del Mahdi che aveva distrutto le missioni e fatti prigionieri i missionari e le suore.

Intanto mons. Sogaro, successore di Comboni come Vicario Apostolico dell’Africa centrale, trasformò l’Istituto di Comboni in Congregazione religiosa. Fr. Giori nel 1885 iniziò il noviziato che concluse il 28 ottobre 1887 con i Voti che lo fecero missionario Figlio del Sacro Cuore.

Fr. Giori, è stato uno dei primi dieci comboniani che hanno emesso la professione religiosa nella vecchia casa dell’Istituto, attigua al seminario diocesano. Con lui c’era anche don Antonio Roveggio che poi diventerà suo vescovo nel cuore dell’Africa.

Cinque anni trascorsi a Verona pesarono sull’anima di fr. Giori, specialmente considerando quanto sarebbero state preziose le sue braccia in famiglia, ma alle volte la vocazione chiede anche questo sacrificio.

Con gli ex schiavi della Gesira

L’ultima domenica di novembre del 1887 il nostro missionario era al paese natale per salutare i parenti e gli amici. Il primo dicembre, infatti, partì da Trieste per l’Africa. Giunto al Cairo, fu mandato nell’isola di Gesira, sul Nilo, dove mons. Sogaro aveva dato inizio ad una colonia antischiavista. Lì trovavano rifugio quegli africani che riuscivano a fuggire dalle grinfie del Mahdi.

Fr. Giori diventò istruttore di quegli ex schiavi, ormai uomini liberi, costruì strade, canali, edifici; coltivò il cotone e il grano, curò l’allevamento del bestiame ricavando latte e formaggio. Nei momenti di sosta del lavoro si trasformava in catechista: radunava gli ex schiavi con i quali aveva condiviso il lavoro e parlava loro di Gesù, della Madonna, degli Apostoli. Giori si specializzò nel raccontare con vivezza gli episodi del Nuovo e del Vecchio Testamento, e gli ascoltatori lo seguivano con attenzione.

Con lui lavoravano altri confratelli, tra i quali p. Roveggio, suo compagno di noviziato, e alcune suore comboniane che si dedicavano alle donne e alle ragazze. Nel 1891 p. Roveggio fece arrivare una potente macchina a vapore che, sollevando l’acqua dal Nilo, assicurava l’irrigazione. Fu particolare impegno di fr. Giori quello di scavare canali, impastare mattoni, costruire linde casette e lavorare la campagna che cominciò a produrre in abbondanza, tanto che i prodotti non solo bastavano agli abitanti della Gesira e agli ex schiavi che continuamente si aggiungevano, ma venivano venduti al Cairo ricavando un buon guadagno. In pochi anni l’isola, prima una distesa di sabbia, fiorì e la vita trascorreva serena per tutti. Le famiglie africane si erano moltiplicate e abitavano un villaggio formato da belle casette.

Gli africani andavano a scuola e imparavano i diversi mestieri. C’era perfino un gruppo che studiava latino con la prospettiva di accedere al sacerdozio. Per rallegrare le serate e i giorni di festa, fr. Giori si esibiva con l’ocarina che suonava magnificamente e diede vita ad una banda musicale.

Quando, dopo 12 anni, s’allontanò dalla Gesira, poteva dirsi ben fortunato. In quella terra lasciava qualcosa di se stesso in ogni angolo anche più recondito, ma quel che è più, lasciava nel cuore degli ex schiavi il profumo delle sue virtù, della sua bontà.

Capitano del Redemptor

Il 21 aprile 1895 p. Roveggio fu eletto vescovo, succedendo a mons. Sogaro. Nel 1898 le orde del Mahdi furono sconfitte dagli inglesi e il Sudan si riaprì all’attività missionaria. Naturalmente i tempi erano cambiati e anche i missionari dovevano modernizzarsi. Per questo mons. Roveggio e p. Colombaroli, superiore generale dei Comboniani, andarono in Inghilterra per far costruire dai cantieri Jarrow di Londra un battello a vapore dalla chiglia piatta e di acciaio, in modo che potesse navigare comodamente sul Nilo, grazie allo scarso pescaggio. Alla nuova imbarcazione imposero il nome augurale di Redemptor.

Venne aggiunto un barcone con cabine su due piani, contrassegnato dal N. 964, cui i missionari imposero il nome di San Paolo. Sarebbe stato rimorchiato dal battello. Ad essi si aggiunse una barca lunga metri 5,30, costruita da fr. Giori, sulla quale avrebbe trovato posto il combustibile.

Mons. Roveggio aveva bisogno di un capitano per il battello e pensò subito a fr. Gianbattista Giori che aveva dato ottima prova di sé nella vita missionaria. E lo mandò presso i cantieri di Alessandria d’Egitto per far pratica di navigazione fluviale e di meccanica al fine di non restare sprovveduto di fronte ad eventuali guasti ai motori del battello.

I due erano ospiti dei Francescani. Intanto arrivò a Omdurman il battello, smontato e sistemato in casse. Il 13 dicembre 1900 ci fu il viaggio inaugurale: “Dunque, sia il nome del Signore benedetto – scrisse Roveggio – dopo quasi 16 anni di assenza e di forzato esilio, la nostra Missione ha potuto riprendere l’opera sua”.

 Partenza da Omdurman

Il Redemptor levò l’ancora da Ondurman, presso Khartoum, e puntò a Sud, sulla via del Nilo Bianco, seguendo le orme di don Angelo Vinco, di Comboni e dei primi missionari di don Mazza, che nel 1857 avevano solcato le stesse acque sulla barca Stella Mattutina, per raggiungere le tribù del Centro Africa.

La nuova imbarcazione era lunga metri 18,60 e larga 3,60. La velocità, marciando contro corrente e trascinando due barconi a rimorchio, era di 18 chilometri all’ora, portava 70 tonnellate di materiale. La caldaia poteva essere alimentata a carbone o a legna. I benefattori italiani, in soli quattro mesi, fornirono al vescovo Roveggio la somma di 53.500 lire, portate a 70.000 dalla Marchesa Teresa Ledochowska per pagarla.

La spedizione era composta dallo stesso mons. Roveggio, da due padri (Giuseppe Ohrwalder e Carlo Tappi), da due fratelli meccanici (Giovanni Giori e Clemente Schroer) da due giovani europei per la cucina e la pulizia, da dieci operai addetti alla macchina e alle due barche, da due ras e da un nostromo. Vi erano, inoltre, due donne denka, addette alla cucina degli operai… in tutto una ventina di persone. Fr. Giori, il capitano, dal ponte di comando scrutava la corrente cercando di evitare gli isolotti di sabbia contro i quali il battello sarebbe potuto insabbiarsi, e la rotta da seguire.

Tra gli shilluk

Dopo 10 giorni, lasciate le popolazioni arabe, incontrarono le tribù denka e shilluk. Il 25 dicembre 1900, giorno di Natale, giunsero a Fascioda, residenza del re degli shilluk, a 800 chilometri a Sud di Khartoum. Qui poterono incontrare il re che riservò loro un solenne ricevimento con scambio di doni. Mons. Roveggio chiese l’unica cosa che gli stava a cuore: fondare una missione nel suo territorio.

Il re acconsentì e assegnò la località di Tonga, 200 chilometri più a Sud. Il criterio che guidava mons. Roveggio era quello di trovare popolazioni numerose e ben disposte ad accogliere il Vangelo, senza badare alla durezza del clima.

Lasciato il corso del Nilo, il Redemptor esplorò il fiume Sobat, affluente del Nilo, che scende dalle montagne d’Etiopia. Quindi fece ritorno sul Nilo Bianco per andare verso Tonga, un luogo che, in quella stagione, pareva ideale per iniziare una missione.

Anche là l’accoglienza fu festosa tra danze e rullo di tamburi. Poi Monsignore riprese il viaggio per visitare altre località, ma il gran capo trattenne la scialuppa del Redemptor come pegno di ritorno.

Nelle sue esplorazioni il Redemptor si spinse sul Nilo meridionale alla volta di Gondokoro e Santa Croce, le missioni fondate quasi mezzo secolo prima ed ora abbandonate. Vedendo quei posti santificati dalla presenza di Comboni, fr. Giori provò un’intensa emozione. Scrutò le sponde del fiume per scorgere qualche segno dell’antica missione, ma l’acqua aveva spazzato via tutto. Solo due piante di limoni indicavano il posto della capanna dei missionari.

Nel loro avanzare verso l’ignoto i missionari incontrarono le barriere di erbe galleggianti. La ciurma, che non conosceva quei luoghi, ebbe timore di non trovare legna per la caldaia del battello, s’impaurì al pensiero di restare intrappolata e di morire. Roveggio diede ordine di tornare indietro

Il re degli shilluk, intanto, aveva cambiato idea. Invece di Tonga assegnava ai missionari la località di Lul, ad una ventina di chilometri più a Sud della sua residenza. Diceva che voleva proteggere i missionari e quindi li voleva vicini. In realtà sapeva che, avendoli vicini, avrebbe potuto ottenere da loro regali e benefici.

Monsignore fece buon viso a cattivo gioco e accettò Lul come prima missione lungo il fiume Nilo. L’11 febbraio 1901, festa della Madonna di Lourdes, attraccò a Lul, tra gli shilluk e diede inizio alla missione.

Inizio della missione di Lul

Sbarcati a Lul, i missionari furono ricevuti dal capo con segni di gioia, battito di tamburi e danze guerresche. Venne accaparrata un’area di 13 mila metri quadrati con la possibilità di estendersi quanto sarebbe potuto abbisognare. Per non aver questioni sulla proprietà, fu pagata con moneta egiziana e con alcuni regali.

Era arrivato il momento importante per fr. Giori, un momento sognato da tanti anni e atteso. Toccavano proprio a lui i primi lavori per dare inizio alla missione. Nel vicino bosco venne abbattuta una grande pianta e in poco tempo sfrondata. Poco sotto la sommità venne fissato un tronco a traverso e così si ebbe la prima croce che venne impiantata sulla collinetta che, un domani, avrebbe ospitato la chiesa.

La grande rozza croce aveva ondeggiato per alcuni attimi e poi, ritta e sostenuta dalle braccia dei missionari, trovò la sua dimora nella buca. Col dorso della mano fr. Giori si asciugò il sudore che, copioso, grondava dalla fronte e fissò gli occhi su quella croce. Era il primo segno cristiano che si alzava su quella regione.

Poi si cominciarono a costruire le prime capanne che servivano da ricovero ai missionari, e una più grande che avrebbe fatto le funzioni di chiesa, se gli shilluk si fossero dimostrati accoglienti del messaggio evangelico. Non furono anni facili, almeno i primi.

Lotta con gli stregoni

Gli shilluk erano attaccati alle loro tradizioni e si guardavano bene dal cambiarle. E poi c’erano gli stregoni che vedevano nei nuovi venuti dei pericolosi concorrenti.

Se le cavallette distruggevano tutto, gli stregoni sentenziavano che la colpa era dei bianchi che insegnavano una religione diversa da quella dei loro avi. Se la siccità si prolungava, era ancora colpa dei bianchi; se le piogge scioglievano le capanne e facevano marcire tutto, la colpa era sempre dei bianchi.

Durante una notte la missione venne incendiata e andò tutto perduto. Era stato un colpo ben studiato degli stregoni, nemici acerrimi dei nuovi arrivati. I missionari, per non urtare la suscettibilità degli shilluk e per evitare ai medesimi la punizione da parte degli inglesi, dissero, anzi pubblicarono su Nigrizia, che erano stati loro, per sbaglio, ad incendiare la missione che era costituita da capanne di paglia e fango.

Il grande capo di Tonga, vedendo questo comportamento dei missionari, si pentì e fece restituire tutto ciò che avevano rubato prima dell’incendio e poi costrinse la gente a collaborare con i missionari alla ricostruzione delle capanne. Ancora una volta la carità, la tolleranza e l’amore dei missionari ebbero il loro premio.

La fondazione di Tonga

 L’anno dopo (1902) mons. Roveggio morì a 43 anni, stroncato dagli strapazzi e dalle febbri. Il suo successore, mons. Francesco Saverio Geyer riprese il progetto del predecessore e puntò la prua del Redemptor verso Tonga. Era il primo dicembre 1904.

A p. Giuseppe Beduschi, proveniente da Lul, l’onore e l’onere di compiere la nuova impresa. Al mattino seguente i missionari lasciarono il battello ancorato sulla riva del Nilo e, immergendosi nella palude, raggiunsero Tonga. Siccome nel territorio non c’erano piante ad alto fusto, i missionari avevano portato con sé una grande croce. Toccò ancora a fr. Giori prenderla sulle spalle e, avanzando nell’acqua della palude fino alle ginocchia, raggiunse la collinetta sulla quale doveva sorgere la missione.

Seguivano altri che, sotto il peso di grosse travi portate dai missionari col battello, si dirigevano alla collina per dare inizio ai fabbricati della missione.

“Oh, quanti cari affetti mi si svegliavano nel cuore in quei sublimi momenti – scrisse p. Beduschi. – La croce! Il segnale della redenzione, il vessillo della fede, l’albero della salute era portata in trionfo in mezzo ad una popolazione che la onorava senza conoscerla, che la corteggiava senza ancora apprezzarla.

La croce! L’unico conforto del missionario che, nelle orme del divino Maestro, va ad immolare se stesso in terre straniere per portare a popoli ignoti la salute e la vita eterna… Gran Dio! Sì, noi portiamo l’albero della vita a questi popoli, noi lo portiamo, ma tocca a voi renderlo fecondo!”.

Era mezzogiorno quando arrivarono al posto designato. Il sole in mezzo al cielo inondava tutta la vasta regione di Tonga di un oceano di luce e di calore…

“Feci scavare una fossa nel punto in cui doveva sorgere, più tardi, la cappella da dedicarsi a Maria Addolorata. Indi, dopo aver rivolto agli astanti brevi parole di spiegazione, la croce fu calata nella fossa. Felice combinazione: era quel giorno il primo venerdì di dicembre, ed era appunto l’ora in cui nostro Signore era salito su quel duro legno per compiere la salute di tutto il genere umano. Il presagio non poteva essere più bello”.

Vita sotto la tenda

All’inizio i missionari si stabilirono sotto una tenda che rizzarono accanto alla croce, poi, cercando di coinvolgere la gente, costruirono un terrapieno lungo 500 metri che congiungesse la missione al fiume, senza doversi immergere nell’acqua fino alla cintola ogni volta che volevano raggiungere il battello.

Quindi fu la volta di un pozzo per avere acqua potabile. E qui fecero sbellicare dalle risa gli shilluk i quali si domandavano che bisogno c’era di attingere acqua sotto terra quando ce n’era così tanta tutto intorno.

Terza cosa, cercarono la terra adatta per impastare i mattoni allo scopo di costruire la casa e la chiesa. Dalle parti di Tonga non c’era terra adatta, allora la cercarono sull’altra sponda del Nilo. E per trasportarla, legarono due funi alle estremità della barca e via, avanti e indietro, riempiendo la barca di terra che poi trasformavano in mattoni.

Stessa musica per la legna. A Tonga esistevano solo canne la cui fiamma riusciva a malapena a far bollire l’acqua per fare la minestra. La legna era dall’altra parte del fiume… Come Dio volle, la chiesa e la casa diventarono una realtà per cui si poteva dire che a Tonga c’era una missione.

“Una quantità di gente accorre a noi da tutte le parti: il nostro cortile è sempre pieno di shilluk armati che vengono a farci visita… Hanno preso subito confidenza con noi. Già ci chiamano da tutte le parti per assistere e medicare i loro ammalati. Non è a dire quanto questi indigeni siano contenti nel sentire i bianchi che parlano la loro lingua…”.

Terminati i lavori più urgenti, fr. Giori riprese il ponte di comando, e via lungo l’interminabile fiume. Dopo Lul e Tonga, vennero fondate le missioni di Kayango, di Mbili, di Wau e tante altre che splendevano come fari di fede nel cuore dell’Africa.

Visita a Sacco e ritorno in missione

Dopo 18 anni di missione, a fr. Giori fu concessa una visita a paese natio. Il comando del battello venne preso da fr. Fanti, pure trentino. Fr. Gianbattista arrivò a Sacco una domenica mattina di novembre e fu accolto da un gruppo di socialisti provenienti da altri paesi per una loro manifestazione. Come videro un prete, cominciarono a gridare: “Dai al prete, dai al prete!”. Fortunatamente gli abitanti di Sacco, attratti dal baccano, accorsero e liberarono il loro eroico concittadino da quei facinorosi indiavolati. In casa fu accolto dal fratello, dalla cognata e dai nipoti che non aveva mai visti, poi andò al cimitero a pregare sulle tombe dei genitori e della sorella suora.

Quando tornò in missione, fu destinato Kayango dove poté esplicare le sue svariate attività dal costruttore al campagnolo, dal meccanico al cuoco. Da un lato della casa dei missionari si stavano effettuando i primi lavori per la costruzione della nuova chiesa. Dall’altro lato, un po’ indietro, in un ampio fabbricato fr. Giori installò una macchina a vapore che aveva portato con sé. Essa muoveva una grande molino per il grano, il torchio dell’olio, una pompa per provvedere l’acqua ai campi e una segheria. I grossi tronchi che arrivavano dalla foresta erano ridotti in travi e assi per costruire tetti, porte e finestre, banchi e mobilio vario. L’orto lussureggiante e i campi ben coltivati completavano il quadro. I ragazzi della scuola di arti e mestieri costituivano l’anello di congiunzione tra i missionari e la tribù. Ma poi l’obbedienza rimandò fr. Giori al posto di comando sul Redemptor.

Fu un giorno triste

Quindici anni su e giù lungo il Nilo, portando personale e materiale da costruzione per le nuove missioni sfidando le erbe galleggianti che sovente formavano delle vere isole mobili. Più di una volta il battello s’incagliò e allora il capitano e i suoi uomini, si immergevano nell’acqua sfidando i coccodrilli e, a colpi di accetta, si aprivano una passaggio. Qualche volta le isole formavano dei canali che poi risultavano chiusi per cui bisognava fare marcia indietro e tentate un’altra via, sempre col rischio di rimanere senza combustibile per il battello.

Costantemente bisognava proteggersi dai nugoli di zanzare che si avventavano fameliche sui marinai. Poi c’era la malaria che, alle volte trasformava il battello in un ospedale galleggiante. Eppure fr. Giori non perse mai il buon umore e l’entusiasmo, anzi, seppe infondere fiducia e ottimismo nei suoi uomini.

Quando arrivava ad una nuova missione, ancorava il battello alla riva e diventava costruttore, meccanico, e anche cuoco e infermiere all’occorrenza, perché la professione prima del fratello missionario è la disponibilità, lo spirito di servizio, l’aiuto ai confratelli. E nei momenti di pausa era evangelizzatore. Lo scopo ultimo per il quale aveva lasciato la famiglia e il paese era stato proprio quello di portare il vangelo alle genti dell’Africa.

Il 25 luglio 1914 fu un giorno triste per il nostro capitano e anche per il suo battello: per una manovra sbagliata di una grossa draga che si trovava nel porto di Khartoum, il Redemptor venne rovesciato e affondato.

Istruttore a Wau

Intanto era scoppiata la prima guerra mondiale e fr. Giori, nato sotto l’Austria, sarebbe dovuto finire in un campo di concentramento. Invece, essendo conosciuto e stimato dalle autorità inglesi, ebbe il privilegio di andare a Wau, nel cuore dell’Africa dove c’era bisogno di un istruttore nella scuola di falegnameria e di meccanica che i missionari avevano aperta.

Lasciando Khartoum chiese al superiore di poter portare con sé i suoi libri:

“Quali libri?”, chiese il superiore. Sorridendo mostrò gli attrezzi che si era fabbricato con le sue mani e disse: “Voi sacerdote vi portate dietro i vostri libri, anch’io ho i miei. Eccoli qua”.

A Wau non si accontentava di insegnare un mestiere ai giovani che gli erano affidati, ma li istruiva nelle verità della fede e li aiutava ad apprendere le preghiere”, scrive un testimone.

Un giorno alcuni missionari si misero in viaggio da Wau a Mesra er Rek per raggiungere il battello governativo. Fr. Giori faceva parte del gruppo. Dato che alcuni erano febbricitanti, avevano dovuto far uso di un carro trainato da muli. A metà viaggio si spezzò un raggio di una ruota, poi un altro, poi un altro ancora, finché la ruota si sfasciò del tutto. I missionari tennero consiglio e decisero di proseguire a piedi.

“E i malati?- disse fr. Giori. Poi aggiunse – è meglio che ognuno si scelga un posto per dormire, io tengo d’occhio il fuoco affinché non si spenga. Domani si vedrà”. (I missionari, nelle loro tappe nella foresta accendevano dei fuochi per tenere lontane le bestie feroci).

Durante la notte, il crepitio della fiamma mal soffocava l’eco dei colpi d’accetta ed il fruscio della sega di fr. Giovanni che voleva salvare il carro e aiutare i compagni. La mattina dopo furono tutti svegliati dallo stesso Fratello e videro con meraviglia che attaccava i muli alle stanghe del carro. Per tutta la notte, da solo, aveva aggiustato la ruota e la riparazione fu così efficace che il caro poté arrivare a Mesra e a ritornare a Wau.

Nella sua vita laboriosissima, come macchinista sul Redemptor, come costruttore di case, di carri, di macchine, di fornaci per fondere il fero e cuocere i mattoni e la calce, aveva subito anche degli insuccessi, eppure mai lo sfiorò il più piccolo scoraggiamento perché era uomo di Dio, uomo di preghiera.

Lasciò questo mondo a Wau per un attacco di febbre nera il 28 giugno 1918. Le ultime parole furono: “Facendomi missionario ho trovato il paradiso in terra”.

Il card. Gabriel Zubeir, arcivescovo di Khartoum, quando era vescovo di Wau eresse un monumento a fr. Giori e ai suoi primi compagni ritenuti dalla gente i “padri della fede” di quel popolo.

***

A 150 anni dalla nascita, i suoi compaesani hanno volute celebrare quest’uomo, questo “operaio di Dio”, questo missionario comboniano, evangelizzatore, costruttore di missioni e navigatore del Nilo ricordando le sue virtù e il suo amore per Dio e per i più poveri della terra. 

P. Lorenzo Gaiga

*****

Fr. Giovanni Battista Giori (Bosco Sacco di Rovereto TN, 27.09.1855 - Wau, 28.06.1918), trova Comboni a Limone il 19 ottobre 1879, questi lo invita ad entrare nel suo Istituto, ma vi entrerà solo il 22 ottobre 1882, dopo aver vinto le forti resistenze della famiglia. Il 22 ottobre 1883 emette il giuramento mis­sionario nell'Istituto. Anche lui appartiene al gruppo dei primi novizi e professi del 28 ottobre 1887. Dalla fine del 1887 al 1899 lavora in Egitto, soprattutto nei campi della Gezirah. Dal 1900 al 1907 serve la missione come capitano del Redemptor, partecipando alle più importanti spedizioni missionarie dell'epoca in Sudan. Dopo un periodo in Italia (1907-08) è destinato alla stazione missionaria di Kayango, dove rimane fino al 1913. Riprende in seguito il suo servizio sul Re­demptor, che vede naufragare il 25 luglio 1914. Dal maggio 1915 fino alla morte lavora nella stazione di Wau. Su di lui è stata pubblicata un'ampia biografia: A. dell'oro, Un operaio di Dio, Verona: Missioni Africane 1943.

da Archivio Comboniano XLVII-XLVIII, p. 86