In Pace Christi

Cotta Giovanni

Cotta Giovanni
Data di nascita : 17/01/1883
Luogo di nascita : Mortara PV/I
Voti temporanei : 13/11/1904
Voti perpetui : 13/11/1904
Data ordinazione : 23/09/1905
Data decesso : 26/10/1976
Luogo decesso : Arco TN/I

Il 26 ottobre 1976 si spegneva serenamente ad Arco (Trento) all'età di 93 anni, P. Giovanni Cotta, decano dei sacerdoti comboniani e una delle figure caratteristiche del nostro istituto.

            Proveniva dai seminari milanesi (e milanese sembra si considerasse egli stesso), ma era nato a Mortara (Pavia), in diocesi di Vigevano, il 17 gennaio 1883. Il padre, però, commesso viaggiatore, qualche anno dopo si trasferiva a Milano e vi apriva un albergo, e almeno dal 1895 risiedeva in Via Carlo Alberto, 19, perché il prevosto di S. Satiro, scrivendo al superiore di Verona in data 5 novembre 1902 attestava: «Giovanni Cotta, nel decorso di sette anni, da che abita in questa parrocchia, ha dato prova costante di condotta esemplare per ogni rapporto».

 

La vocazione

            Mentre frequentava nel seminario di Monza la prima liceale, un suo compagno, che disponeva di qualche mezzo, aveva ordinato, a sua insaputa, il libro di P. Carlo Tappi: Cenno Storico della Missione dell'Africa Centrale, Torino 1894. Quando arrivò per posta, al suo indirizzo, rimase sorpreso, ma quel suo compagno, ridendo alle sue spalle, gli disse: «Leggilo, che ti farà bene! ... ». «Egli era convinto» riferisce P. Cotta «che io avessi già deciso di farmi missionario». S'era accorto che gli piaceva leggere NIGRIZIA, che prendeva dal tavolo di qualche compagno, e perciò gli fece mandare quel libro che, asserisce P. Cotta, «io lessi e imparai quasi a memoria».

            Un suo compagno di seminario era entrato a Verona nel maggio 1901, e qualche mese dopo anch'egli inviava, dal seminario di Monza, la sua domanda, senza data, con la raccomandazione del suo confessore (datata 4 settembre 1901), che aggiungeva: «avrà forse da lottare un po' per il permesso dei parenti». Questi infatti vi si opposero energicamente, e dovette attendere per avere il desiderato consenso paterno.

            Quel periodo di attesa ci permette di conoscere il carattere esuberante ed emotivo che P. Cotta conservò inalterato per tutta la sua lunga vita. Basta leggere pochi brani di sue lettere. Dopo la prima domanda, scriveva nuovamente (senza data): «Circa venti giorni fa inviai umile calda supplica alla paternità vostra reverendissima, unita ad un biglietto del mio confessore, per essere accettato in cotesto istituto. Non avendo ricevuto risposta alcuna, mi faccio ancora, condotto dal mio confessore, ad implorare la grazia di essere ricevuto tra i Figli del Sacro Cuore, ove, fattomi religioso, possa adoperare tutta la mia vita, alla salute dei miei poveri neri».

            Avuta risposta da Verona, ma non il permesso del padre, il 19 dicembre 1901 scriveva al superiore di Verona: «Il ch. Malandra che fu costì, mi parlò del luogo, della regola, dei novizi, e ne fui inebriato; la porta del seminario (missionario) è chiusa, e tanta strada mi separa; ma la farei a piedi, scalzo, di notte, e fra la neve pur di poterci arrivare ... ».

            Poco prima, il 28 ottobre, aveva scritto: «Mi trovo nel seminario teologico di Milano, ma spero in Dio, per poco tempo. Mi consiglierò; posdomani invierò a mio padre una lettera, colla quale lo persuaderò su tutti i punti; il Sacro Cuore me l'ha dettata; dopo un paio di giorni muoverò tutti i preti della mia parrocchia, che egli stima, e di cui ha molto rispetto e riverenza: sarà l'ultimo colpo. Lo spero nel Sacro Cuore, che illuminerà me e mio padre; e mi tengo sicuro del buon esito. Voglio dire che fra una ventina di giorni potrò scriverle di essere pronto ... verrò. Verrò pieno di gioia, di volontà, di difetti, ma spero mi vorranno compatire».

            Ma l'opposizione dei genitori continuò accanita per qualche mese ancora. La sua costanza però fu premiata. Infatti scriveva il 26 febbraio 1902: «Mio padre tempo fa si trovò a Verona: non so cosa gli sia avvenuto; ma tornò mutato; contento stranamente ... non sapeva dire altro che: .. son contento", e ringraziava il Signore».

            Il permesso del padre è in data 16 ottobre 1902: «Mi opposi più volte, ma tutto fu inutile». Gli permise di entrare ma a condizione di poterlo richiamare dopo un anno se la sua salute non gli permettesse di continuare. Entrò in noviziato il 6 novembre 1902. Sotto la guida illuminata di P. Federico Vianello, Cotta fu a detta dei suoi compagni novizio «fervoroso». E godette sempre buona salute, tanto che il 13 novembre 1904 emise la professione religiosa, e il 17 successivo partiva per l'Inghilterra, destinato alla nostra casa e chiesa di Sidcup, con scuola parrocchiale, nella diocesi di Southwark. Vi restò due anni, con brevi intervalli in Italia nel 1905 per ricevervi gli ordini sacri, e ne approfittò per imparare e parlare correntemente l'inglese, quasi senza ombra di accento forestiero.

 

Khartoum

            Alla fine di novembre 1906 partì per l'Egitto col P. Angelo Colombaroli, proseguendo subito per Assuan. Ne approfittarono i confratelli per fargli dipingere lo scenario per il presepio di Natale, conoscendo la sua abilità in materia. Arrivò a Khartoum alla fine di dicembre, addetto alla scuola, di cui fu in seguito direttore. Si prestava anche per il ministero, specialmente di lingua inglese, e fungeva da cappellano ai soldati cattolici della guarnigione britannica.

            La «Catholic Mission Boys' School», come si chiamava, era in pratica l'unica scuola della città accessibile ai non sudanesi. I musulmani avevano le loro scuole coraniche e il Gordon College ben dotato dal governo. La scuola fu aperta nel 1904 da P. Meroni, e vi affluirono subito alcuni greci, italiani, maltesi, ebrei, siriani, copti, egiziani, ma anche sudanesi, sia cristiani cattolici che ortodossi e musulmani. Dai 30-40 dei primi giorni, si arrivò presto al centinaio, fino ad averne anche 100 interni, sui quali si poteva avere un maggiore influsso educativo. E la scuola diede i suoi frutti, con la formazione di diverse famiglie cattoliche e la benevolenza di molti non cristiani.

            Vi erano maestri per le varie lingue e materie. P. Cotta insegnava inglese. Con la collaborazione di valenti maestri e confratelli, la scuola ottenne risultati sorprendenti. Ogni anno gli alunni si esibivano in recite e trattenimenti. Alcuni allievi italiani (siciliani per la verità) presero parte a una recita in arabo, e in platea si facevano scommesse che, di certo quegli attori in erba erano tutti arabi di nascita! Dopo la recita di una scena di Shakespeare, un autorevole rappresentante del governo inglese, volle salire sul palco per congratularsi personalmente con ciascuno degli «attori». Con la fattiva partecipazione di P. Antonio Stoppani, poi vescovo nel Bahr el Ghazal, si iniziò anche una banda di 40 strumenti, che si esibiva in concerti nella ricorrenza di feste.

            Verso il 1910, racconta P. Cotta, un ufficiale egiziano ci presentò suo figlio di 8-10 anni dicendo: «Accettate questo mio figlio alla vostra scuola, ma iscrivetelo tra quelli che imparano il ta'alìm» cioè il catechismo della dottrina cristiana. Si disse di si, pensando si trattasse di un semplice atto di deferenza verso di noi, perché trattassimo bene il figlio. Non abbiamo mai dovuto lamentarci del ragazzo, che si dimostrava buono, diligente e faceva buoni progressi, premettendo buona riuscita». Si chiamava Negìb, il futuro presidente dell'Egitto.

            P. Cotta non si risparmiava nel lavoro, e dato anche il clima caldo di Khartoum, e la mancanza di certe comodità ora disponibili, il padre finì con l'esaurirsi, e dopo sei anni, nel 1912, dovette ritornare in Italia, per un periodo di riposo, e P. Federico Vianello, già suo padre maestro, gli affidò l'economia della Casa Madre, che comprendeva anche quella di tutto l'Istituto.

            Ma prima di passare alla molteplice attività di P. Cotta in Europa, sarà bene accennare alle sue successive attività in missione in Uganda e poi nuovamente nel Vicariato di Khartoum.

 

La scuola superiore di Gulu

            Da Khartoum, dov'era stato inviato da P. Meroni nel 1923, chiusa quella scuola maschile nel 1925, P. Cotta passò in Uganda, per aprire a Gulu una scuola secondaria (che ebbe poi vari nomi). Era la prima scuola superiore nelle nostre missioni del nord Uganda, e accoglieva alunni dalle varie stazioni. Alcuni di essi gli avevano scritto anche recentemente, ricordando quei giorni per loro indimenticabili. La scuola, sotto il suo dinamismo, e la buona volontà di alunni scelti, fece rapidi progressi, e incontrò l'approvazione delle autorità locali e del rappresentante della S. Sede, Mons. Arthur Hinsley, poi cardinale e arcivescovo di Westminter, allora in visita alle missioni dell' Africa orientale. Il continuo assillante lavoro e le inevitabili difficoltà e incomprensioni della vita logorarono presto la fibra poco resistente di P. Cotta, e nel 1930 dovette ritornare in patria. Ma quella scuola da lui ideata e portata a buon punto, con fabbricati nuovi e adatti, diede avvio ad un'intensa attività scolastica in tutto il nord Uganda.

 

L'esperimento di Detwok

            L'ultima impresa africana di P. Cotta si svolse a Detwok, ora diocesi di Malakal, in paese Scilluk. Dopo aver accompagnato a Khartoum Mons. Bini, che vi arrivava all'inizio del 1931 come nuovo vicario apostolico, passò a Detwok per iniziarvi una colonia agricola, come si era tentato nei primi anni a Tonga, pure paese Scilluk. Ci voleva proprio l'entusiasmo di P. Cotta per imbarcarsi in una impresa simile, giudicata inattuabile dalla maggior parte dei confratelli. Ma l'impresa sembrava avviarsi bene e prometteva i primi raccolti, quando una piena straordinaria del Nilo sommerse i terreni coltivati, seppellendo sotto uno strato di limo le speranze di P. Cotta e abbattendo le sue energie. Dovette lasciare Detwok, e dopo un periodo a Port Sudan nel 1935 ritornò a Verona.

 

Fondatore-sfondatore

            P. Cotta era l'uomo dell'entusiasmo, dalle idee luminose, che sapeva aggirare gli ostacoli, e con la sua parola suadente e maniere delicate sapeva guadagnarsi la benevolenza delle persone. In questo modo seppe agganciare molte amicizie, che non sfruttò mai a proprio vantaggio, ma sempre e solo a beneficio dell'Istituto. E i superiori si servirono di queste sue doti, veramente eccezionali, per imprese che altri avrebbero giudicato impossibili, e in questo campo ottenne certamente i migliori successi. Si può dire che il suo ruolo, anche in missione, sia stato quello di sfondare, piuttosto che di fondare: il ruolo del pioniere.

            Durante la prima guerra mondiale, come economo della Casa Madre, ebbe l'incarico di cercare un rifugio sicuro e fuori di mano per il noviziato di Verona, allora in zona di guerra e in pericolo di bombardamenti aerei. P. Cotta lo trovò in Liguria, a Savona, in località Valloria: Villa Rosa, una bella villa isolata, su un poggio sopra il porto, con magnifica visuale sul mare e ampio orto, che col clima mite della riviera poteva aiutare la salute dei novizi. Nel 1919 il noviziato passò in un'ala del seminario diocesano, un grande fabbricato nuovo, che però era servito come ospedale militare durante la guerra e pullulava ancora di cimici. Nel 1920 ancora trasloco nella villa del seminario, a Loreto, appena fuori di Savona, in un vecchio monastero cistercense, dove si stava a disagio, anche per il crescente numero dei novizi... Traslochi tutti eseguiti sotto le direttive di P. Cotta.

            Nel frattempo stava cercando una dimora stabile, se possibile in diocesi di Milano, e mise gli occhi sul castello di Venegono. In un primo tempo aveva sperato di concludere con una casa adatta a Quarto dei Mille, presso Genova, ma poi, visto che sarebbe insufficiente, si preferì Venegono, dove P. Cotta iniziò i primi lavori di adattamento, e il primo scaglione di novizi vi arrivarono il 16 luglio 1921.

            Intanto P. Cotta si era anche occupato di una nuova sede per gli aspiranti Fratelli, che da Verona, Campagnola, passavano nella villa Cornaggia di Thiene, prima di sistemarsi nella attuale sede del piccolo seminario.

            Si interessò anche di una nostra fondazione a Padova, iniziando nella chiesetta di S. Agnese, finché si poté acquistare il terreno dell'attuale seminario comboniano in via S. Giovanni di Verdara.

            Anche le Pie Madri gli devono riconoscenza: P. Cotta segnalò loro la proprietà del Cesiolo, allora appena fuori di Verona, per sistemarvi il noviziato.

            Nelle missioni era sempre più sentita la necessità di avere personale che conoscesse bene la lingua inglese. P. Vignato, superiore generale, nel 1936 mandò P. Cotta in Inghilterra per cercare un posto stabile per una nostra casa di studi (fino allora ci si era adattati in casa d'altri). Dopo molti assaggi, si decise per Sunningdale, casa che fu poi a più riprese ingrandita. La tempestività dell'acquisto, la fama del luogo e l'estensione della proprietà attirarono il consenso e le simpatie delle autorità inglesi, sia in Inghilterra che nel Sudan e in Uganda. Se ne accorse lo stesso P. Vignato nella sua visita alle missioni nel 1938. P. Cotta fu perciò molto benemerito per le missioni in quei tempi politicamente difficili.

            Nel 1938 P. Cotta fu richiamato a Verona, dove iniziò la sistemazione del museo africano con criteri moderni e tecnici, che furono in seguito migliorati secondo le nuove esigenze. Ma questa sua attività è un'altra delle sue numerose benemerenze.

            Come durante la prima guerra mondiale era stato arruolato nella sanità, e come caporale maggiore addetto all'amministrazione di un ospedale da campo situato appena fuori le mura di Verona, così nella seconda fu cappellano militare nelle zone di Udine e Bolzano, addetto specialmente all'assistenza di militari italiani in transito e dei prigionieri inglesi.

 

San Tomio, Verona

            Nel 1943 il Vescovo di Verona, Mons. Girolamo Cardinale, dopo una solenne processione per la pace, parlando nella grande piazza di S. Zeno, lanciò l'idea di istituire l'adorazione del SS. Sacramento in una chiesa della città. P. Cotta raccolse subito l'idea e offrì la chiesa centrale di S. Tomio, che i nostri Padri officiavano dal 1919. Ottenuta la benedizione del Vescovo, P. Cotta partì di slancio: fece togliere una rivenditina di giornali nella piazzetta antistante la facciata, iniziò i lavori di restauro della chiesa e la costruzione di un altare monumentale con trono per l'esposizione da lui stesso progettato. Fece fare da una ditta specializzata un grandioso ostensorio con magnifica raggera e teca d'oro. L'ostensorio è alto m. 1,20 e pesa Kg. 10. Per fare questi lavori mentre Verona era sottoposta a frequenti disastrosi bombardamenti ci voleva il coraggio temerario e la fede incrollabile di P. Cotta.

            Nel frattempo egli si dava d'attorno per trovare adoratori. Organizzò turni di adorazione con la partecipazione del seminario e degli istituti e case religiose, poi tra i vari ceti di persone, professionisti e signore, fino ai piccoli mercanti e le donnette di Piazza Erbe. Egli si teneva sempre pronto per le confessioni, predicazioni e turni di adorazione.

 

La «Quinta» di Viseu

            Nel 1947, dopo il secondo conflitto mondiale, essendosi aperte nuove prospettive di lavoro missionario nel Mozambico, P. Cotta fu inviato in Portogallo, senza sapere una parola di portoghese, per cercarvi una casa e fondarvi un seminario missionario. Quando raccontava le circostanze provvidenziali in cui giunse a Viseu e fu accolto dal vescovo come un dono di Dio (non c'era nessun altro istituto religioso in diocesi) P. Cotta s'infiammava con edificanti accenti di fede. Per lui, tutto era sempre opera dell'amorosa Provvidenza. Concluse con l'acquisto di una proprietà agricola appena fuori la città di Viseu, una «quinta», dove poi furono eretti una bella chiesa e ampi fabbricati. Fu in quel biennio portoghese che maturò in lui una profonda devozione alla Madonna di Fatima, il cui culto procurò di diffondere anche in Italia, traducendo dall'inglese e pubblicando un bel volume sulle apparizioni alla Cova da Iria.

            Al termine della missione in Portogallo fu destinato dai superiori per un altro biennio (1949-50) in Inghilterra, per la terza volta, per avviare la nuova parrocchia di Elm Park nei sobborghi di Londra, diocesi di Brentwood.

 

Un santuario alla Madonna a Milano

            A sessantasette anni si potrebbe pensare che un uomo che ha già lavorato tanto intensamente si ritiri ad una vita quieta. Dall'Inghilterra P. Cotta rientrò in Italia non per riposarsi, ma per dedicarsi, col permesso dei superiori, ad un'opera che nei suoi disegni avrebbe dovuto essere la più impegnativa della sua vita: l'erezione di un santuario alla Madonna di Fatima in via Giuditta Pasta, alla periferia di Milano.

            Si profilava l'idea di una casa provincializia a Milano, e P. Cotta che si trovava a Milano dal 1952 addetto alla chiesa di S. Marco in via S. Tommaso, già sognava il tempio finito e tempestava per iniziare l'opera.

            Comperò un triciclo con carrozzella, e con quello era disposto a portare lui stesso i mattoni in via Giuditta Pasta per la costruzione: come in Africa! Da via S. Tommaso si trasferì in locali prefabbricati, con annessa cappella, con un grande quadro della Madonna di Fatima. Ideò e fece costruire un piccolo modello del santuario che mostrava e illustrava a tutti i visitatori per invogliarli a concorrere all'impresa. Chi l'incontrò allora, ricorda di aver ascoltato con ammirazione i suoi progetti, grandiosi come l'esplosione del suo entusiasmo, ma sempre incorniciati da un'ampia visione di fede.

            Quanti passi abbia fatto presso uffici e personalità del comune e della curia di Milano per avere le necessarie autorizzazioni, chi lo potrebbe dire? Tutti gli davano buone parole perché, a sentire lui, i lavori avrebbero dovuto cominciare la settimana prossima ...

            Purtroppo quel sogno tanto sofferto e contestato da varie persone, compreso l'allora arcivescovo di Milano, Paolo VI, evidentemente con seri motivi, rimase un sogno. Passarono 14 lunghi anni, finché il giorno dell'Assunta, mentre P. Cotta si trovava a Fai per un breve periodo di riposo, un corto circuito provocava un incendio che distrusse completamente casa e cappella: non rimase che l'ossatura in tubi Dalmine tutti piegati e contorti dal calore. P. Cotta, allora più che ottantenne, fu avvisato con delicatezza. Ritornò a piangere su quella desolazione, ma non si perdette di coraggio. Si teneva sicuro che la chiesa della Madonna di Fatima sarebbe risorta. E difatti, ciò che sembrava un disastro servì a muovere le acque per la ricostruzione. Centinaia di firme furono presentate in curia, e la nuova cappella prefabbricata, ma più grande e consistente, fu eretta e benedetta da un vescovo ausiliare di Milano. P. Cotta venne appositamente da San Tomio, dove nel frattempo aveva ottenuto di essere trasferito per continuarvi il suo ministero della confessione e predicazione. Mai dimenticò la sua Madonna di Fatima a Milano. Essendo stato bruciato il primo quadro, dietro indicazione di confratelli, poté farne fare un altro che fu subito posto sull'altare della nuova cappella.

 

Sereno tramonto

            Al traguardo dei 90 anni, col sopravvenire di vari acciacchi, p. Cotta sentì di dover lasciare S. Tomio, e si ritirò prima in Casa Madre a Verona, poi ad Arco. Era sempre stato di salute cagionevole, ma aveva il vantaggio di dormire facilmente e sodo, per cui all'inizio di un nuovo giorno balzava dal letto pieno di energie. Bastava prospettargli qualche attività da svolgere, e si rimetteva subito da ogni incomodo. Ma ora non poteva richiedere altre fatiche dal suo fisico che per 90 anni aveva messo a dura prova.

            La sua pietà era sempre stata esuberante. Un confratello ricorda che, appena giunto in Inghilterra dopo la sua ordinazione, recitava tutto il breviario (che allora era ben più lungo di quanto è al presente!) inginocchiato per terra ... finché non si rese conto che la sua salute non gli permetteva un tale lusso. Durante la prima guerra mondiale, tornando a casa la sera stanco morto dal lavoro della giornata all'ospedale da campo, prima di coricarsi voleva terminare l'ufficio divino del giorno. Fu trovato qualche volta il mattino seguente sdraiato sul letto ancora vestito con il breviario aperto accanto.

            Gesù nell'Eucaristia fu il suo sostegno, specialmente negli ultimi anni: quante ore di adorazione! E la Vergine Immacolata aprì certo le porte del paradiso a lui che le era sempre unito mente e cuore. E quanti rosari aveva recitato! Compose e fece stampare un libretto: «Il Rosario della Madonna...». E si addormentò nel sonno della morte stringendo tra le mani la sua corona del rosario.

            P. Cotta lascia, tra i confratelli e quanti lo conobbero, memoria di un uomo dinamico ed entusiasta della sua vocazione, d'un combattente coraggioso per il regno di Dio, sempre disponibile a cedere il posto ad altri per dedicarsi ad altre imprese. Ebbe molto a soffrire per il suo carattere e per le incomprensioni e anche, in qualche caso, avversioni. Ma sapeva riprendersi subito, perdonare, e ricuperare il suo tono cordiale e affettuoso. E anche gli altri univano col dimenticare, perché egli era intimamente buono, portato come d'istinto a soccorrere e ad interessarsi degli altri.

            Degni di ammirazione il suo fervore religioso e missionario, l'attaccamento all'Istituto nel quale aveva maturato la sua consacrazione a Dio, la venerazione per il fondatore Mons. Comboni, nella cui missione di Khartum aveva lavorato: «Un vero uomo di Dio», l'ha definito un confratello che lo conosceva molto bene. Nonostante i suoi limiti, un uomo tutto d'un pezzo, eminentemente spirituale, molto apprezzato come confessore e direttore di spirito, specialmente di anime inquiete. Il migliore elogio che si possa fare di lui è riconoscerlo come un autentico missionario, degno figlio del Comboni.              P. L. BANO, FSCJ

Da Bollettino n. 115, dicembre 1976, pp. 62-68

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Mentre Giovanni Cotta frequentava la prima liceale nel seminario di Monza, un suo compagno ordinò, a sua insaputa, il libro di p. Carlo Tappi: Cenno storico della missione dell’Africa Centrale. Quando il libro arrivò per posta, Giovanni rimase sorpreso ma quel suo compagno, ridendo alle sue spalle, gli disse: ‘Leggilo, ti farà bene!...’. Lo lesse e decise di farsi comboniano. Era nato a Mortara, Pavia, nel 1883.

Studente di teologia, partì per l’Inghilterra, destinato alla casa comboniana di Sidcup alla quale era annessa una chiesa con scuola parrocchiale. Vi restò due anni, con brevi intervalli in Italia nel 1905 per ricevervi gli ordini sacri. Ne approfittò per imparare correttamente l’inglese, quasi senza ombra di accento straniero.

Arrivò a Khartoum alla fine di dicembre e fu incaricato della scuola, di cui in seguito fu direttore. Si prestava anche per il ministero, specialmente in lingua inglese, e fungeva da cappellano ai soldati cattolici della guarnigione britannica.

Nel 1925 passò in Uganda per aprire a Gulu una scuola secondaria. Era la prima scuola superiore nelle nostre missioni del nord Uganda, e accoglieva alunni delle varie missioni. L’ultima impresa africana di p. Cotta si svolse a Detwok, Sudan, nel 1931 Ci voleva l’entusiasmo di p. Cotta per imbarcarsi in un’impresa simile, giudicata inattuabile dalla maggior parte dei confratelli. Si trattava, infatti, di realizzare una fattoria tra gli Scilluk. L’impresa sembrava avviarsi bene e prometteva già i primi raccolti, quando una piena straordinaria del Nilo sommerse i terreni coltivati, seppellendo sotto uno strato di limo le speranze di p. Cotta. Dovette lasciare Detwok e ritornò a Verona.

P. Cotta era l’uomo dell’entusiasmo, delle idee luminose, che sapeva aggirare gli ostacoli, e con la sua parola suadente e maniere delicate sapeva guadagnarsi la benevolenza delle persone. In questo modo seppe agganciare molte amicizie, che non sfruttò mai a proprio vantaggio, ma sempre e solo a beneficio dell’Istituto. I superiori si servirono di queste sue doti, veramente eccezionali, per imprese che altri avrebbero giudicato impossibili. Si può dire che il suo ruolo, anche in missione, sia stato quello di sfondare, piuttosto che di fondare: il ruolo del pioniere, insomma.

Intanto p. Cotta si occupò per la nuova sede degli aspiranti Fratelli di Thiene e anche di una fondazione comboniana a Padova. Anche le suore comboniane gli devono riconoscenza: p. Cotta segnalò loro la proprietà del Cesiolo, appena fuori Verona, per sistemarvi il loro noviziato.

Nel 1936 andò in Inghilterra per cercare un posto stabile per una casa di studi per i futuri missionari comboniani. E acquistò la casa di Sunningdale. Nel 1943 il Vescovo di Verona lanciò l’idea di istituire l’adorazione perpetua del Santissimo Sacramento in una chiesa della città. P. Cotta raccolse subito l’idea e offrì la chiesa centrale di S. Tomio, che i Comboniani officiavano dal 1919. Ottenuta la benedizione del Vescovo, iniziò i lavori di restauro della chiesa e la costruzione di un altare monumentale, con trono per l’esposizione da lui stesso progettato.

Fece fare da una ditta specializzata un grandioso ostensorio con magnifica raggiera e teca d’oro. L’ostensorio è alto metri 1,20 e pesa chilogrammi 10. Nel frattempo egli si dava d’attorno per trovare adoratori. Organizzò turni di adorazione con la partecipazione del seminario, degli istituti e delle case religiose, poi cercò tra i vari ceti di persone: professionisti e signore fino ai piccoli mercanti e le donne di Piazza Erbe. Egli si teneva sempre pronto per le confessioni, predicazioni e turni di adorazione.

Nel 1947, dopo il secondo conflitto mondiale aprì un seminario comboniano in Portogallo, senza sapere una parola di portoghese. Al termine della missione in Portogallo fu destinato dai superiori per un altro biennio (1949-1950) in Inghilterra, per la terza volta, per avviare la nuova parrocchia di Elm Park nei sobborghi di Londra.

A sessantasette anni rientrò in Italia per dedicarsi ad un’opera che nei suoi disegni avrebbe dovuto essere la più impegnativa della sua vita: l’erezione di un santuario alla Madonna di Fatima in via Giuditta Pasta, alla periferia di Milano.

Comperò un triciclo con carrozzella e con quello cominciò lui stesso a portare i mattoni per la costruzione.

Quanti passi abbia fatto presso uffici e personalità del Comune e della Curia di Milano per avere le necessarie autorizzazioni, chi lo potrebbe dire? Tutti gli dicevano di no… Oggi il santuario, anche se piccolo, c’è.

Gesù nell’Eucaristia fu il suo sostegno, specie negli ultimi anni. E la Vergine Immacolata aprì certo le porte del paradiso a lui che le era sempre unito mente e cuore. Si addormentò nel Signore nel 1976, all’età di 93 anni, tenendo tra mani la corona del rosario.           P. Lorenzo Gaiga