In Pace Christi

Ubiali Angelo

Ubiali Angelo
Data di nascita : 14/07/1937
Luogo di nascita : Mozzo di Curdomo BG/I
Voti temporanei : 09/09/1956
Voti perpetui : 09/09/1962
Data ordinazione : 30/03/1963
Data decesso : 25/01/1986
Luogo decesso : Bergamo/I

“Signore, mi hai chiesto le braccia e le gambe. Grazie per avermi lasciato il cuore: sia come il tuo per chi cerca te. Grazie anche a te Mamma. Tuo Angelo”.

È, questa, una delle ultime frasi che p. Angelo è riuscito a scrivere con mano insicura e grafia incerta a Lima, il primo febbraio 1985, prima di lasciare per sempre la terra che lo aveva visto ardente missionario.

Col trascorrere dei mesi, in una lenta e dolorosa agonia, il Signore gli avrebbe chiesto tutto: ogni movimento, ogni reazione dei muscoli, perfino il respiro che andava e veniva a prezzo di sforzi inauditi, e la parola ridotta ormai ad un impercettibile ed incomprensibile alito. Due cose gli restarono fino all’ultimo: una mente lucidissima e il sorriso che, sgorgando dal cuore ormai donato completamente al Signore, gli illuminava gli occhi. Una foto che lo ha ripreso a qualche giorno dalla morte, dimostra tutto questo.

Chi andava a trovarlo nell’ospedale di Bergamo durante gli ultimi mesi di malattia, restava scioccato per la situazione fisica di Angelo e per la sua serenità di spirito. Dice il Signor Mario Gamba, compagno di seminario a Crema di Angelo: “Come sono entrato nella sua camera, fui preso da uno sgomento indescrivibile e subito mi domandai come un uomo potesse soffrire così tanto e per così lungo tempo. Per me era inconcepibile. E subito mi si annebbiò la vista, cominciai ad impallidire provando come un senso di svenimento. Allora fu lui, proprio Angelo che, raccogliendo tutte le forze, chiese ai presenti di adagiarmi e di portarmi qualcosa per tirarmi su... lui che era in quelle condizioni, si preoccupava di me! Uscii con un qualche cosa di nuovo nel mio spirito”.

Questo “qualche cosa di nuovo” succedeva a tutti coloro che avevano a che fare con Angelo, medici ed infermieri compresi. La conferma furono i funerali che si svolsero nella chiesa di Mozzo nel primo pomeriggio del 27 gennaio. Pur essendo giorno feriale, in un paese altamente industrializzato dove la legge del lavoro è sacrosanta, la gente riempì anche la piazza non potendo essere contenuta in chiesa; i concelebranti erano più di 70, tutti parati in bianco e con la solennità che è riservata per il giorno di Pasqua. Le campane suonarono a distesa diffondendo intorno un’aria di festa. La festa per quella circostanza era stata voluta da p. Angelo stesso: “Per il mio funerale, messa cantata in bianco. Il nero non è cristiano. E poi date da bere a tutta la gente, come fanno in Perù. E poi pregate perché lassù non faccia brutta figura. Finora ho fatto le prove, adesso c’è la verità”. E poi un ordine: “Non fatemi la tomba, ma date da mangiare alla gente povera”. Pensava alla gente povera delle Ande peruviane. Da essa aveva imparato grandi cose: come si vive e come si muore: “I miei poveri sulle Ande mi hanno insegnato a far festa quando uno muore, perché si torna a casa. E allora anche quelli che restano devono partecipare alla festa che io farò con il Signore”.

“Strano funerale, senza lutto, ma solo aria di gioia e di festa”, commentavano i partecipanti ritornando alle loro case.

Un “angelo” che volle essere “uomo”

Padre Angelo Ubiali era nato a Curdomo, Bergamo, il 14 luglio 1937. Il nome del paese raggruppava le iniziali di tre paesetti (Curno, Dorotina, Mozzo) che, secondo l’ideologia fascista vigente, erano troppo piccoli per essere scritti sulle carte. Oggi esistono Curno e Mozzo.

Papà Ferdinando faceva il meccanico in proprio con altri quattro fratelli; mamma Giuseppina Papetti accudiva la casa e pensava ad allevare i 10 figli (8 maschi e 2 femmine).

In quella casa di gente laboriosa e vivace la vita cristiana era intensamente vissuta. Prima di andare a letto, tutti, piccoli e grandi, dovevano inginocchiarsi attorno alla tavola per le preghiere. Al mattino la mamma svegliava i figli con l’Angelus e poi, mentre tirava su calzoncini, infilava calze e allacciava scarpe, risuonavano ancora preghiere e invocazioni. “Senza religione - ripeteva papà Ferdinando - non si può essere neanche onesti cittadini”.

In un clima di questo genere, lo sbocciare di qualche vocazione al sacerdozio diventa una cosa abbastanza normale. A Mozzo, poi, c’era un parroco che, a detta del missionario che “reclutò” Angelo, “conosce le sue pecorelle una per una e le segue come un vero pastore”.

Angelo divenne ben presto chierichetto, come lo erano i suoi fratelli, e cominciò a frequentare l’oratorio. Lì si giocava, si bisticciava, ci si prendeva a pugni e poi... si faceva la pace. Angelo era vivace, molto vivace, e assai intraprendente. Tutti, però, concordano nel dire che aveva il cuore buono, per cui stava sempre dalla parte dei più deboli (e li difendeva) e soffriva quando vedeva che qualche altro stava male. “Si chiamava Angelo - dice la sorella - ma mio fratello era un ragazzo come tutti, e poi sarà anche un uomo come tutti, prete naturalmente, ma con la sua umanità che si è sempre portata dietro, perché lui non ha mai voluto darsi atteggiamenti da primo della classe... Anzi, se a qualcuno scappava qualche parola di ammirazione per il suo lavoro missionario e poi per la sua capacità di soffrire sorridendo, si sentiva come offeso ed era il primo a ridimensionare le cose”.

Voglio farmi missionario

Un giorno passò da Mozzo un missionario comboniano il quale, dopo aver fatto le proiezioni sulla vita che i missionari conducono in Africa, chiese chi voleva seguirlo per battezzare i moretti. Angelo, che aveva seguito la proiezione con attenzione lasciandosi sfuggire anche qualche lacrima (era molto sensibile), alzò la mano e disse: “Io vengo”.

I genitori accolsero la decisione del ragazzo con gioia, anche se dicevano: “Da qui a diventar prete ce ne vuole del tempo! Vedrà lui, se è la sua strada”.

Nel 1947 Angelo entrò nel seminario missionario di Crema per frequentare la quinta elementare. Erano ancora i tempi in cui si sentivano i disagi del dopoguerra. Il cibo non mancava, anche se non era troppo raffinato. I ragazzini, a turno, davano una mano alle suore per lavare le stoviglie e spazzare. I Superiori dicevano che bisognava abituarsi fin da piccoli ai disagi della vita di missione, per cui si accettava la cosa come un fatto normale, anzi indispensabile per una soda formazione. Ciò che pesava di più erano le lunghe ore di studio per preparare le lezioni e i compiti che gli insegnanti esigevano dicendo che “in missione mancano i libri e i maestri”. Ma c’erano anche le ore di gioco nell’ampio cortile, le passeggiate, qualche commedia... Tutto sommato la vita nei seminari missionari, pur con gli inevitabili sacrifici, era bella, riscaldata dall’amicizia dei compagni e dall’affetto dei superiori che in quei ragazzi vedevano coloro che avrebbero preso il loro posto in missione. Qualcuno forse sarebbe diventato martire, o santo.

Il giudizio dei superiori su Angelo al termine degli anni di seminario fu: “Ragazzo serio, intraprendente, affettuoso. Fantasia viva, memoria buona, intelligenza aperta, volontà decisa, grande attitudine al lavoro, spiccato senso per la pietà e molto entusiasmo per la vocazione sacerdotale missionaria. Come hobby gli piace l’elettricità, ed è un po’ poeta. Di cuore è molto delicato. Bisogna stare attenti che non lavori troppo e che abbia cibo buono, perché è un po’ delicato di salute”.

Con queste credenziali, Angelo, il 24 settembre 1954 entrò nel noviziato di Gozzano in provincia di Novara. Aveva 17 anni.

Novizio

La sede del noviziato di Gozzano era l’antico seminario diocesano di Novara, passato poi in proprietà ai gesuiti e da questi ai comboniani. La costruzione, antica, umida, fatiscente, dalle pareti larghe più di un metro, aveva l’apparenza più di una prigione che di una sede per giovani.

Fortunatamente era posta sopra una collina e tutto intorno, con il lago di Orta, il Mottarone, il lago Maggiore, offriva panorami splendidi e occasioni di gite incantevoli. I novizi, sotto la guida di p. Pietro Rossi, intercalavano l’attività spirituale con quella materiale per rendere sempre più accogliente la casa e il parco circostante.

Non fa meraviglia, dunque, se nelle note di quel periodo, a proposito di Angelo, troviamo: “Qualche esitazione e scoraggiamento, sempre superati, però. Un po’ nervoso, tuttavia retto, umile e generoso”.

Dopo i primi attimi di smarrimento, Angelo “si è messo con buona volontà nel desiderio di migliorarsi”. Anche se di tanto in tanto “si lascia prendere dalla malinconia”. E chi non sentiva malinconia in quella casa... degli spiriti?

Dopo due anni di intenso lavoro spirituale, il padre maestro poteva scrivere: “Guardando tutto il suo noviziato, mi pare che abbia approfittato bene. Ha tribolato un po’ per la salute, tanto che è stato anche a casa sua per un mese. Ma ora si è ripreso bene. È gentile, modesto, riservato, pratico, attivo e di intensa pietà”.

Morire martire

Quel “mese a casa” fu per Angelo una prova non comune. È noto che per un comboniano, almeno fino a trent’anni fa, il fatto di non avere una salute di ferro costituiva un segno di “non-vocazione”. Il desiderio di partire per la missione era la cosa più cara ad Angelo, come per i suoi compagni. E sentirsi dire: “Se il Signore ti vuole, ti deve dare anche la salute” era... un pugno nello stomaco, specie per chi avvertiva qualche inizio di malessere nel proprio organismo.

Il medico, dopo aver visitato accuratamente il giovane, diagnosticò che si trattava, probabilmente, di un inizio del morbo di Pot.

All’esame radiografico, per fortuna, apparve solo artrite dorsale. Angelo passò giorni d’angoscia e notti in bianco. Pregò, intensificò i sacrifici, chiese a Dio di diventare sacerdote a costo di pagare quella grazia anche con la malattia.

Tra i novizi c’era Isaias Rocha Pereira, un giovane portoghese e oggi missionario comboniano. Egli, dovendosi recare in Portogallo per il secondo anno di noviziato, ricevette da Angelo una lettera con preghiera di bruciarla davanti alla Madonna di Fatima. Testimonia p. Isaias: “Nel 1956, Angelo Ubiali, durante il noviziato, mi consegnò una lettera da portare a Fatima e da bruciare davanti alla statua della Madonna. In essa chiedeva alla Madre di Dio la grazia di morire martire. Io eseguii l’ordine a puntino”. Post factum dobbiamo riconoscere che la preghiera fu esaudita, abbondantemente. Il 9 settembre 1956 Angelo emise i primi voti.

Infermiere

Giunto a Verona presso la casa madre dei comboniani per gli studi liceali, Angelo ricevette l’incarico di aiutante infermiere. Suo “capo” era fr. Angelo Viviani, l’uomo che tutti conosciamo, “la mamma dei missionari malati” come lo ebbe a definire p. Vignato. I due Angelo si compresero benissimo, non solo a livello professionale, ma anche a quello spirituale.

Mancando l’ascensore, a quei tempi, il lavoro di infermiere era assai pesante. Quante volte su e giù per i cento gradini della casa! Ubiali, essendo pieno di forze (“attualmente la sua salute è buona”, scrisse p. Rizzi) cercava di prevenire l’anziano confratello per risparmiargli le scale il più possibile. “Affabile e generoso”, annota p. Rizzi nello stesso periodo. E poi: “Carattere allegro, aperto e molto attivo. È ben voluto da tutti per il suo bel carattere. Aiuta tutti: come infermiere fa allegramente qualunque sacrificio per gli altri. Temperamento ottimista”.

Nonostante l’incarico di infermiere, il profitto scolastico non ebbe a soffrirne grazie all’impegno con cui sfruttava i limitati momenti di studio.

Alla fine del liceo, il superiore, p. Gino Albrigo, scrisse: “È uno degli scolastici più caritatevoli. Come infermiere ha assistito con amore i nostri vecchi anche di notte. Ha tante belle qualità anche se non eccezionali. L’allegria lo porta a qualche burla, ma sempre di buon gusto. In questi anni si è molto maturato sia spiritualmente come umanamente”.

Un’esperienza “forte”

A Venegono Superiore, dove frequentò i quattro anni di teologia, Angelo ricoprì ancora l’incarico d’infermiere. Si era procurato qualche libro di anatomia per studiare il corpo umano e le malattie più comuni. Non potendo fare esperimenti sugli uomini, spesso andava in cucina ad aiutare le suore a tagliare la carne per vedere come erano disposti i muscoli e i tendini. Non contento di questo, quando gli capitava tra le mani qualche gatto, lo uccideva e poi lo sezionava minuziosamente. Se invece di missionario fosse diventato dottore, sarebbe stato un ottimo chirurgo.

Quando il suo compagno Raffaele Lo Russo, colpito da una strana malattia, morì in pochi giorni, Angelo scongiurò il primario dell’ospedale, diventato suo amico, di poter prendere parte all’autopsia. Il primario cercò di dissuaderlo dicendogli che non era una scena piacevole. Angelo insistette finché ottenne di essere ammesso. Non dormì per due notti. E agli amici, che gli chie-devano come si sentiva, rispondeva: “Non sono cose da farsi. Sono stato proprio un incosciente”.

Aveva una grande confidenza con gli animali. Prendeva in mano le vipere e giocava con esse facendosele passare dentro le maniche della camicia.

Da buon bergamasco aveva insegnato ai compagni come si può ottenere la grappa con sistemi rudimentali ed elementari. E dava lezioni pratiche negli angoli più remoti del parco di Venegono. “Vi servirà – diceva – per quando sarete in Africa e vi sentirete un po’ giù”. Anche questo entrava nel suo ufficio di infermiere.

Un altro momento emozionante per la vita di Angelo fu la notte passata dentro la cella mortuaria dell’ospedale di Tradate, in compagnia di alcune salme. Era andato a far visita ad un defunto, e si era fermato a pregare davanti alla fila di salme ben allineate. All’ora di chiusura il guardiano sprangò le porte senza accorgersi che tra i morti c’era un vivente. Angelo non si sgomentò. Trovato un posto libero, cercò di adagiarvisi per dormire. Ma il sonno non venne “per il freddo cane che c’era in quella cella”, disse il giorno seguente ai compagni. Essi, però, attribuirono l’insonnia ad un altro motivo, più ovvio! La faccenda si colorò di tragedia al mattino, quando il guardiano aprì la porta e si vide davanti un giovanotto assonnato, ma vivo. Per poco il poveraccio non svenne dallo spavento. E appena si riebbe, disse: “Andiamo a prendere un bicchierino; glielo pago io volentieri”.

Sulle strade del meridione

Il 30 marzo 1963, ricevette l’ordinazione sacerdotale dal Card. Montini nel duomo di Milano. Fu un giorno indimenticabile per la famiglia che si trovò compatta attorno al loro figlio e fratello, anche se in tutti c’era un pizzico di amarezza per l’imminente partenza - così almeno essi pensavano - per le missioni.

Invece, dal 1963 al 1968 fu nella casa comboniana di Sulmona come economo e propagandista. Un lavoro duro, sempre in giro a cercare giornate missionarie e poi a predicarle per mantenere la fitta schiera di seminaristi che, uno alla volta, poi, tornavano alle loro case.

“Niente paura - diceva Angelo ad ogni partenza dei ragazzi - questo ci deve insegnare che dobbiamo lavorare per il Signore, solo per lui, altrimenti qui si conclude tutto con una “fregatura”.

Dal 1968 al 1969 fu a Napoli come addetto alla ristrutturazione della sede comboniana di Corso Vittorio Emanuele. La concretezza e lo spirito pratico di cui era dotato, insieme alla grande capacità di adattarsi alla mentalità degli altri, gli consentirono di riuscire egregiamente nell’impresa.

Un abbraccio e fu subito missione

“Senta un po’ - disse una sera p. Angelo al Padre Generale di passaggio a Napoli - non le pare che il mio dovere in Italia lo abbia compiuto? Non mi merito ancora la missione?”.

“Hai ragione... Appena hai terminato le tue cose qui, vieni a Roma e vedremo il da farsi”.

Scrive p. Pasina: “Fu nel 1969 che trovai Angelo a Roma. Ero di ritorno dalla missione; egli, giovane missionario, era in attesa di un nuovo campo di lavoro. Aveva tanti anni di vita, quanti io ne contavo di missione. Non ci eravamo mai conosciuti, ma subito nacque tra noi una sincera amicizia. Egli cominciò a interessarsi alla mia missione e a farmi un sacco di domande con curiosità e cordialità, come se ci fossimo conosciuti da sempre. “Vengo dal Perù che fa parte della circoscrizione comboniana dell’Ecuador - gli spiegai -. Abbiamo delle missioni a oltre i 4.000 metri sul livello del mare. C’è bisogno di missionari giovani e forti. La vita è durissima, lassù, e pochi ce la fanno a resistere. Mentre parlavo - prosegue p. Pasina - vedevo gli occhi di Angelo che si illuminavano. Allora mi feci coraggio e gli chiesi se fosse disposto a venire con me. ‘Padre, ho carta bianca. Basta che il Generale mi dia un ordine’.

Proprio in quel momento passava di lì p. Briani, che era stato mio superiore nel Bahr el Gazal. ‘Padre generale - gli dissi - mi faccia un grande favore. Lei sa il bisogno che abbiamo in Perù di qualche missionario. Pochi si offrono. Questo giovanotto è disponibile; non lasciamolo scappare!’ ‘Sì, gli ho anche fatto una certa promessa, ma sono al termine del mio mandato come Generale. Non vorrei essere indelicato con il mio successore prendendo delle decisioni all’ultimo momento!’ ‘Ammiro la sua delicatezza; però lei ha ancora tutta l’autorità e sa il bisogno di quelle missioni’. ‘Mi lasci pensare ancora un po’. Vedremo’. Padre Briani, o per far piacere a me, o a p. Angelo, o al Perù, ci pensò e firmò l’ordine. Angelo mi saltò al collo abbracciandomi come la persona più felice del mondo. E da quel giorno la nostra amicizia non fece che consolidarsi. In seguito tornammo in Italia insieme, facemmo le vacanze insieme, e ancora insieme riprendemmo il nostro posto di lavoro in Perù... E quando p. Angelo si vide affetto dalla malattia incurabile, volle venire nella casa dove mi trovavo e scelse la stanza accanto alla mia, quella dell’amico dei suoi primi tempi di vita missionaria”.

Nella parrocchia più alta del mondo

Dopo alcuni mesi trascorsi a Barcellona per imparare lo spagnolo, p. Angelo spiccò il volo verso il Perù, dove rimase cinque anni, coprendo l’incarico di parroco e superiore di una delle missioni più alte del mondo. Segno, questo, che le sue doti e capacità erano state ben presto notate dai confratelli.

Nella prima lettera scritta dal Perù, datata Lima, 25 novembre 1969, rivolgendosi al Padre Generale, dice: “Ho atteso una ventina di giorni prima di scriverle, perché volevo vedere in che mondo ero capitato. Innanzitutto la ringrazio per avermi lasciato raggiungere questo mio campo di lavoro. E con lei ringrazio gli altri superiori. Il viaggio è stato ottimo, sebbene gli spostamenti diano l’idea dell’eternità. Ora sono ospite dei padri e suore monfortani. Sono di una grande carità e allegri quanto mai. Ho già salutato il nostro vescovo di Tarma al quale ho portato i suoi saluti. Mi ha ricevuto con vera cordialità e sono stato a lungo a parlare con lui. Mi ha detto di andare per un po’ di giorni a Yanahuanca, per acclimatarmi un poco, prima di salire su a Cerro de Pasco, e anche per conoscere un pochino l’ambiente della Sierra. Qui a Lima ho pure incontrato i nostri comboniani tedeschi. Vedesse che buoni padri, zelanti, allegri, ospitali. Non sapevo dove fossero, altrimenti sarei andato da loro. Quando scenderò dalla Sierra sarò loro ospite. Speriamo proprio che la riunione tra le due congregazioni comboniane si faccia presto. Ne vale proprio la pena”.

Il tema della riunione tra il ramo tedesco e quello italiano dell’Istituto comboniano stava particolarmente a cuore a p. Angelo. In una lettera scritta a p. Agostoni, nuovo Generale, da Cerro de Pasco, il 21 marzo 1970, ebbe a dire: “Stiamo bene qui e siamo contenti. Ci troviamo molto bene con i nostri confratelli tedeschi e spessissimo vengono a trovarci, e noi da loro. Così pure con monsignore Kuhner nostro vescovo. Abbiamo cominciato a lavorare in mezzo alla gente e, grazie al Signore, troviamo tanta cordialità e corrispondenza. In questi giorni la nostra parrocchia di San Juan de Yanahuanca si è riempita di fedeli e non sappiamo come esprimere la nostra soddisfazione. Il Signore ci aiuti a non rovinare le tante buone qualità che questa gente possiede. Il vescovo ci ha dato piena fiducia e piena libertà di lavoro. La visita del padre provinciale è stata una festa ed è servita per mettere a punto il programma di lavoro per essere più uniti e più incisivi. Con i confratelli delle altre missioni ci vogliamo molto bene e spesso ci incontriamo e ci aiutiamo, così pure con le ottime suore monfortane che stanno con loro. Venga a trovarci. Respirerà aria fine”.

L’aria fine! Il Signore sa quanto sia costato ai missionari il soggiorno a più di 4.000 metri di altitudine dove l’aria è così rarefatta e l’ossigeno tanto scarso da costringere il cuore a battiti velocissimi con conseguente stanchezza e giramenti di testa.

Padre Agostoni, il Generale, andò a trovarli, ma si fermò pochissimo perché aveva tanti impegni e perché l’altitudine cui non era abituato lo fece quasi morire.

“Le diciamo un grazie di tutto cuore - scrisse p. Angelo poco dopo - per la sua visita, anche se siamo un po’ arrabbiati perché è passato come un missile. Abbiamo bisogno di trovarci un po’ in famiglia, perché, come ha constatato, siamo proprio tagliati fuori. Andiamo in crisi a turno, così c’è sempre qualcuno ‘normale’ che tira su gli altri. Siamo o non siamo gli alpini del Signore?”.

Leggendo tra le righe, si comprende come la vita non era facile tra le montagne del Perù... “Alla sera, a volte, mi viene un magone che solo il Signore sa... Stiamo ancora aprendo gli occhi su un mondo indecifrabile, entusiasta, ma pure che non si fida troppo di noi e tanto incostante”.

Cerro de Pasco, 50.000 abitanti a 4.400 metri di altitudine, è la capitale della regione. Situata su di un altopiano stepposo, è un importantissimo centro minerario. Gran parte degli abitanti è impiegata nelle attività estrattive. Le ingiustizie sociali, lo sfruttamento dei lavoratori da parte delle compagnie minerarie con i conseguenti “turbamenti”, sono all’ordine del giorno.

Angelo si schierò dalla parte dei poveri, degli sfruttati, agendo con avvedutezza e discrezione. Si sa che la polizia da quelle parti non ha la mano tenera, eppure egli riuscì a prestare più volte la chiesa come sede per i raduni del sindacato dei lavoratori.

Egli si teneva fuori dalle assemblee... e intanto, con le sue buone maniere, convinceva la polizia a non intervenire, a lasciare che la gente si scambiasse le idee come avviene in ogni paese libero. Fu un miracolo se gli andò sempre bene. Durante la sua permanenza a Cerro de Pasco la polizia non “disturbò” nessun raduno.

“La sua fu una vita missionaria dura - scrive p. Pasina - sia per la geografia dove si svolgeva, sia per l’ambiente umano, come pure per il clima quasi impossibile dei 5.000 metri di altitudine, che ha fatto scappare vari missionari. Là si esige una capacità morale e psicologica a tutta prova, con la pazienza e la resistenza fisica e morale di Angelo. ‘Quante volte - mi diceva la donna di casa - questi poveri missionari ritornano dai loro viaggi apostolici con le gambe intirizzite e gelate. E bisogna massaggiare forte, per riattivare la circolazione’”.

“Ciò che fece grande p. Angelo - prosegue p. Pasina - fu la sua grandezza di cuore. Sempre aperto a tutti, sia in aiuti materiali che spirituali, con un tratto gentilissimo, soprattutto con gli indios. Angelo era intelligente e aveva senso critico e acuto. Era esperto anche negli affari. Capì subito l’importanza dell’auto e procurò per la missione una Fiat campagnola, poi ringraziò il Padre Generale ‘per la generosa gomma con la quale ha cancellato il mio debito’. Naturalmente dovette fare anche lui il suo rodaggio, con le inevitabili gaffe. Ma appena si accorgeva di aver toccato qualche tasto falso, ricorreva a tutti i mezzi per una spiegazione in modo da non lasciare strascico di malessere in nessuno.

Mentre la gente dice che noi siamo sempre molto occupati e non abbiamo tempo, Angelo passava molte ore anche ad ascoltare una sola persona. ‘Io - diceva - penso che quella persona mi è stata mandata da Dio, proprio in quel momento’. E si vedevano queste persone che uscivano da lui con una gioia grande in volto. Angelo riusciva sempre a calmare i cuori feriti, sapeva dissipare i rancori che spesso corrono tra la gente. ‘Tiene un don especial de hacer felices a todos’, commentava la gente, accomiatandosi da lui”.

I fioretti

“Qui ci sarebbero da scrivere dei fioretti molto belli sulla vita di p. Angelo - continua p. Pasina -. Ricordo bene il suo sforzo per rimettere la pace dove c’era un po’ di maretta. Eravamo in Italia durante le vacanze. Angelo mi chiamò ‘Vieni con me – disse – ho un conto da saldare, e non voglio tornare in Perù senza averlo saldato. Tu ti ricordi che con il tale ci siamo separati con un po’ di ruggine? Vieni, andiamo a pescarlo’. Abbiamo percorso insieme parecchi chilometri fino a trovare quella persona. Ci fermammo e facemmo una buona fumatina con un paio di bicchieri di birra. Tornammo a casa cantando dall’allegria.

Un altro caso. Angelo si mise un giorno alla stazione centrale di Milano e passò tante porte finché riuscì a scovare quella tal persona che in Perù aveva procurato dei grattacapi alla missione (erano laici che, con le migliori intenzioni, avevano causato delle difficoltà ai missionari, nell’intento di aiutarli, naturalmente). L’incontro si concluse con un buon pranzetto. Poi tornò cantando dalla gioia per essere riuscito anche in quell’affare. ‘Sennò la Messa non torna bene’, diceva.

Ricordo anche Miriam, una signorina peruviana, accesa terrorista, una di quelle giovani che dicevano di aver trovato nel terrorismo l’unica maniera di far cambiare le strutture ingiuste e di aiutare i poveri. Quanti colloqui dal giorno in cui incontrò p. Angelo. Finché capì che la sua strada non era quella giusta. Ora lavora davvero con i poveri e per i poveri, ma con spirito evangelico e con la faccia contenta.

Durante la messa a Monterrico c’era anche la signorina Soledad, poliomielitica. Era arrivata, un po’ portata a spalle e un po’ con le sue stampelle. Piangeva sconsolata. Dall’altare io le diedi la parola. Piena di riconoscenza per p. Angelo, disse: ‘Angelo mi ha salvato dalla prostrazione più profonda, dal senso di disperazione che avevo a causa della mia malattia. In casa ero inutile, di impiccio per tutti, rinchiusa in me stessa. Non volevo né mangiare, né studiare. Poi un giorno morì un mio parente in Venezuela. Quando arrivò la bara, non trovammo un sacerdote per celebrare la messa. I miei si attaccarono al telefono, finché p. Angelo raccolse la mia voce e mi rispose che sarebbe arrivato immediatamente... Quanto gli sarà costato quello spostamento... Finito il funerale, mi avvicinò e cominciò la serie dei nostri colloqui che un poco alla volta mi riportarono a vita nuova. Ora lavoro, insegno in un istituto, mi sento realizzata in pieno. Per tenermi su, di tanto in tanto p. Angelo mi telefonava e ogni discorso terminava con queste parole: ‘Sempre avanti e mai paura; c’è chi soffre molto più di noi e non ha l’assistenza medica che possiamo avere noi’”.

Il Signore mi sta preparando una missione interessante

Dal novembre del 1974 al settembre del 1975 p. Angelo fu in Italia per le vacanze e per un corso di aggiornamento a Roma. “Sono un missionario preconciliare”, aveva scritto, per cui sentiva ormai il bisogno di respirare aria nuova, di mettersi al passo con la Chiesa e la “missione nuova”, di cui tanto si parlava.

Dal 1975 al 1980 fu prima vice-parroco, poi parroco e superiore a Yanuahuanca, per passare, nel 1981, a Lima come direttore delle Pontificie Opere Missionarie.

Poi, quasi un fulmine a ciel sereno, ecco una lettera ai familiari: Lima, 13 giugno 1983.

“Carissimi tutti, eccomi qui. Oggi sono particolarmente contento giacché mi trovo in compagnia di Camilla. Come state? Vi sento sempre con me. Mamma come sta? Spero bene. In questi giorni stavo guardando la cartolina “Ovid” di Natale con tutte le vostre firme; dice “Buon Natale e Felice Anno Nuovo”: vedo che quest’anno è proprio nuovo per me e sono felice.

Ho cominciato con grande allegria e slancio; bellissimi i tre mesi con p. Pino nel postulato con magnifiche esperienze per il mio lavoro; Cile che mi si apre, fatti tutti i piani, arriva la novità più grande dal Signore con la nuova destinazione.

Sento la gamba un po’ pesante; in pochi giorni, esami e raggi e hanno scoperto che un virus mi ha capovolto la vita.

La diagnosi è sclerosi laterale amiotrofica, che in bergamasco vuol dire atrofia muscolare. Sono in trattamento dal neurologo a tutto full e in riposo assoluto. È una malattia rarissima qui (all’inizio pensavano che fosse tropicale) è soprattutto dei bianchi e attacca chi gli tocca, prendo il cortisone e la gamba sta rispondendo bene, non ho nessun dolore. Le medicine mi danno una fame da orbi. II medico dice di aspettare che termini la fase acuta e vedere come va. Il trattamento è lungo. Cosa sta preparando per me il Signore? Mi sento alla vigilia di qualcosa di nuovo, in tutti i modi grande e bello perché viene da Lui. Non gli chiedo né salute né malattia; a Lui chiedo solo forza e allegria di vivere quello che sta nel suo piano per il bene della mia gente. Sono interiormente contento che mi viene da gridarlo, il Signore è veramente buono e dà allegria e gioia di essere amato da Lui. Grazie Signore. Scusatemi la scrittura, le medicine mi frastornano un po’, però il cuore no. Stiamo uniti e aiutatemi a non perdere questa occasione di grazia. Ringraziamo il Signore per l’amore con cui ci ama; è un momento di prova e Lui è la mia forza e allegria. Avanti sempre. La Madonna sia sempre esempio di fede grande nei momenti che umanamente non si capiscono.

Un male che arriva senza volerlo sicuramente ha un gran significato per il bene che il Signore vuol fare scegliendoci; dà paura di non essere fedeli a tanta fiducia, per questo la preghiera è nostra forza perché è fidarsi del Signore sempre fedele e questo riempie il cuore di grande pace e allegria, che non si può esprimere a parole. Ogni giorno ringrazio il Signore per tutto. Sono qui a Miraflores, mi assistono bene, non mi manca niente, ho il centuplo, quando penso che la maggior parte della gente, se si ammala, non ha niente, mi dà vergogna: poveretta la mia gente! Una poliomielitica viene a visitarmi poveretta lei sì, è senza gambe.

Bene, termino e avanti nel Signore. Ditelo alla mamma tutto questo e che stia allegra perché il Signore mi vuole bene e mi sta preparando una missione interessante. Non è detto che non mi riprenda prima; il Signore lo sa. Sia sempre benedetto, sempre. Grazie Signore! A tutti, tutti ciao. Grazie. Un bacione. Angelo.

P.S. Scrivo come un bambino e mi dà di ridere, non vi sembra?”

La via dolorosa che conduce al Calvario è appena cominciata. Dal luglio 1983 al febbraio 1984 p. Angelo è di nuovo in Italia per vedere se si può trovare un rimedio al male. Ma i medici si mostrano perplessi, incerti. La malattia è rara perciò non ben conosciuta. Quanto a cure... siamo a zero. Angelo capisce: deve prepararsi l’animo ad un nuovo modo di affrontare i mesi o gli anni che Dio gli concederà. “Non chiedo niente al Signore; sono nelle sue mani”, “Si può essere missionari in tanti modi”.

Mamma, sei missionaria anche tu

Vedendo che in Italia non si trovava rimedio al suo male che ormai galoppava, p. Angelo espresse il desiderio di tornare in Perù per morirvi, lavorando finché gli era possibile.

I benpensanti, naturalmente, lo dissuadevano adducendo il motivo che, stando in Italia, avrebbe tirato avanti di più. “La vita è nelle mani di Dio - rispose p. Angelo - è lui che sa quando sarà la nostra ora. Io so che sono missionario, e il missionario deve partire”.

La disputa si accese. Per “tagliar la testa al toro” si interpellò l’anziana mamma (il papà era morto da tanti anni). Lei, che non si staccava dal figlio ammalato, rifletté a lungo e poi, facendo appello alla sua fede, disse: “Angelo ha scelto di servire il Signore come missionario. Compia la sua missione fino in fondo, per me può partire”.

In data 7 giugno 1985, da Lima, Angelo scriverà: “Cara mamma, salve! Sono missionario. Anche tu! Sono, per suo dono, crocifisso con Lui. Anche tu! Sono contento, anche per te. Cosa voglio di più? Stiamo allegri. Animo! Lui ci vuol bene. Un bacione. Tuo Angelo”.

Tra poco respirerò l’universo

Rientrato in Perù poteva ancora lavorare e camminare aiutandosi con il bastone. “Mai paura, i1 Signore sa! Siamo Chiesa, dobbiamo sentirci Chiesa... Senza amici non posso vivere. Per gli amici Gesù ha dato la vita”. In Perù gli amici non mancavano. “Ammalato, ma contento”.

“Umanamente ho poco, nel Signore ho molto. Cantiamo sempre le sue lodi, Lui ha fatto meraviglie... Ti voglio bene, Signore, grazie”... “La vita è bella quando è dono agli altri. Ha ragione il Magnificat: più ci tiriamo da parte, più Dio lavora in noi”...

Di settimana in settimana p. Angelo doveva limitare il suo lavoro. Ormai anche la mano si rifiutava di scrivere perché faceva segni incomprensibili, eppure... “Mai pentirsi di quello che si fa con amore. È il modo che conta, non la quantità di lavoro accumulato... Sento che il Signore è vicino. Presto l’ultimo salto nel buio, l’ultimo atto di fede. Il Signore si rivela attraverso il prossimo. A me si è rivelato attraverso i medici e gli infermieri, gli amici e voi tutti. La vita è comunione... Mantieni in noi, Signore, la gioia di volerti bene”.

Dio stava lavorando il suo missionario con scalpello duro, impietoso si direbbe. Niente da meravigliarsi se, per qualche istante, la luce poteva essere offuscata da un velo di nebbia. “Dio mio, ora mi devi aiutare... Signore, se tu vuoi fallo presto, oppure cambia pagina... Sto facendo le prove, ma non ho ancora azzeccato la strada giusta...”. Poi tornava il sereno. “Prima non capivo. La malattia è un dono. Grazie. Sta a vedere che muoio sorridendo... È meraviglioso! Potessi comunicare tutto quello che sento dentro!... Ti voglio bene, Signore, con tutta la fiducia. Tu solo sei il mio Pane...”. Quest’ultima frase stava ad indicare che ormai non riusciva più nemmeno a deglutire, perché i muscoli si erano atrofizzati. “Tra poco respirerò l’universo...”. Angelo si sentiva finalmente libero anche di fronte alla morte, perché: “Io non morirò, ma canterò in eterno le meraviglie del Signore”. Per chi ci crede sul serio, e Angelo ci credeva, la morte non esiste; è solo un nuovo modo di vivere. Già su questa terra, tra le sofferenze atroci (“gli analgesici non gli fanno più niente” disse il medico) viveva già nella dimensione celeste... Perù o Italia, malattia o salute, gli erano indifferenti.

Santo Padre, non sei solo

Prima di lasciare il Perù ebbe la fortuna di incontrarsi con il Papa durante la visita apostolica a quella nazione. Padre Angelo era in carrozzella in prima fila con gli altri malati. Quando il Papa gli si avvicinò, egli lo invitò ad abbassare il capo perché potesse sentire ciò che voleva dirgli. Il Papa si piegò fino ad accostare l’orecchio alla bocca del Padre.

“Santo Padre - gli disse Angelo - fai bene ad andare a trovare le tue pecorelle, specie le più povere, in tutto il mondo. Non aver paura, sai. Ricordati che non sei solo. Non sei solo”.

Il Santo Padre rimase un attimo sorpreso, quasi perplesso, poi gli mise tutte e due le mani sulla testa e gliele tenne per un istante. Certamente aveva capito che si era incontrato con uno dei suoi figli migliori e gli rispose: “Grazie! Grazie!”

La stanza santuario

Il 14 luglio 1985 p. Angelo rientrava in Italia definitivamente. Non avrebbe voluto lasciare il Perù che era diventato la sua terra, ma non c’era alternativa. Dietro ripetuta insistenza dei famigliari, i superiori concessero ad Angelo di essere ricoverato presso l’ospedale di Bergamo, dove era già conosciuto e di essere assistito dai suoi, con l’aiuto di qualche missionario.

I fratelli, specialmente la sorella Celina, si prodigarono oltre le possibilità umane, ma non vollero staccarsi da quel letto di sofferenza neanche per un minuto, di giorno e di notte, a turno. La malattia di Angelo, che si prolungava per mesi – inspiegabilmente – fu una prova anche per la famiglia.

“Signore, benedici il Perù e tutta la mia gente. Grazie per quello che ho ricevuto da loro. Grazie, Signore, che mi vuoi bene. Grazie perché mi sono fidato di te. Benedici coloro che mi hanno amato. Di’ ai miei colleghi ammalati che non abbiano paura. Il Signore è un bravo Ragazzo. Sono proprio mani sicure quelle del Signore. Mi sento protetto... Io sono stato sempre un tipo curioso e dovevo provare anche questa situazione. Sapessi come le cose cambiano, viste da qui...”. “I miei peccati? Mi fanno ridere di fronte alla misericordia del Signore...”. “Sto facendo le prove per imparare a morire. Ma il Signore è fedele, è un bravo maestro. Sia fatta la sua volontà, sempre, con gioia. Mai paura. Si può essere missionari anche nella tomba...”.

Il 22 ottobre 1985 passò dall’ospedale di Bergamo p. Marengoni. Padre Angelo gli dettò un messaggio per il padre generale. “Sono molto contento di esser comboniano e di essere nella Chiesa di Dio. Ringrazio il Signore della mia malattia. Ringrazio il Padre Generale e tutti i confratelli per le loro preghiere per me. Vorrei dire a ciascun confratello: ascolta il Signore nella preghiera per compiere solo i suoi piani, nei suoi tempi”.

La stanza di p. Angelo era diventata un santuario dove, chi poteva, metteva dentro almeno la testa perché ognuno era persuaso che là dentro c’era un autentico santo. Soffrire capita a tanti, ma soffrire in quel modo! Con quelle espressioni, con quel sorriso, con quella gioia! Non poteva trattarsi che di una faccenda divina.

La congregazione intanto si preparava al XIII Capitolo generale, un momento importante per la vita della medesima e delle missioni. Padre Angelo aveva un motivo in più per offrire le sue sofferenze.

I confratelli, di tanto in tanto, andavano a trovarlo. Appena uno entrava in quel santuario, era p. Angelo il primo a salutare e a dire all’infermiere o al famigliare che lo assisteva: “Su, dagli un bicchiere di vino. Viene da lontano ed è stanco”. Poi chiedeva come stava... lui che era sulla croce.

Uno, un giorno, gli chiese che cosa potesse fare per lui. “Beh! se proprio vuoi aiutarmi - rispose con il solito filo di voce - schiacciami ritmicamente la pancia in modo da facilitarmi il respiro”. Ormai il suo sistema muscolare era completamente paralizzato per cui non riusciva a fare nessun movimento con le proprie forze. Anche le esigenze fisiologiche dovevano essere provocate artificialmente.

Passò anche il 1985 e cominciò il 1986. Quanto sarebbe durata quell’agonia straziante? Scrive don Corinno Scotti, direttore del Centro Missionario di Bergamo, e assistente spirituale di Angelo: “Arrivò dal Perù ormai completamente immobile. La sclerosi gli aveva paralizzato tutti i nervi. Eppure nei mesi passati in casa prima e in ospedale poi, ha fatto una propaganda di serenità, come solo poteva fare uno che viveva la certezza che Dio è Padre, è un galantuomo e che le sue mani sono mani sicure. La sua è stata un’agonia lunghissima e straziante con crisi di asfissia sempre più frequenti. Eppure non ha mai smesso di donarci un sorriso luminoso e trasparente, al punto che pochi giorni prima di morire disse: ‘Vuoi vedere che muoio sorridendo!’. Da Lima p. Angelo scriveva: ‘Sono molto contento di essere missionario e di sentirmi amato in modo speciale dal Signore con questa malattia strana. Lui è veramente forza e sono proprio contento... ci vuol coraggio a essere ammalati e anche molta fede e allegria e il Signore mantiene la sua Parola dandoci forza e pazienza. Lui che pensa ai passeri e ai fiori è fedele e non si dimentica di noi. Lo ha detto Lui che ci vuol bene, anche se ‘noter di òlte ansà un po’ besocc’.

Ecco p. Angelo è stato missionario nella parrocchia più alta del mondo (la sua missione, a Cerro de Pasco sulle Ande, comprendeva villaggi oltre i 5.000 metri di altezza): lavorò 15 anni. Ma è stato missionario soprattutto quando non poteva muovere se non gli occhi e donarci un sorriso luminoso e trasparente che ora ci portiamo nel cuore. Perché siamo Chiesa’’.

Il giorno dell’incontro con il Signore, che era stato così esigente con lui, si avvicinava. A Natale aveva detto: “Mangerò il panettone in paradiso. Mai paura. Ho fede. Ma faccio fatica. Però Dio è fedele e buono”. Ormai gli restavano solo la mente lucida per percepire la sofferenza, il cuore per accettarla e gli occhi luminosi e sorridenti per trasmettere l’amore di Dio a chi gli era vicino.

Più povero di così!

“Sono contento di morire senza niente, povero come un missionario autentico. Più povero di così... devo dipendere in tutto dagli altri. Muoio lontano dalla mia terra (il Perù) e dalla mia gente, come Abramo”.

Come Abramo, p. Angelo stava diventando un campione della fede, quella preziosa che fa di un uomo un capolavoro di Dio, una luce per gli altri. Per questo ai suoi funerali accorse gente che da anni non si confessava, che si era dimenticata di Dio, del paradiso, dell’inferno.

E scoprì il momento della verità. Era p. Angelo che faceva ancora la sua predica, efficace questa volta.

“Nella messa del 27 gennaio - prosegue p. Pasina - io concludevo con queste parole: Quante volte concelebrando la messa nella sua stanzetta di dolore consideravamo alla luce della Parola di Dio il mistero della sua malattia che lo aveva privato di qualsiasi attività missionaria. Quante volte ritornava su quelle parole benedette: chi vuol venire dietro a me prenda la sua croce ogni giorno... Non sono da paragonarsi le pene di questa terra con le gioie che ci aspettano!”.

E il suo superiore, p. Luis Weiss: “Dal suo letto di dolore, p. Angelo è stato un grande missionario. Ringraziamo il Signore che ci ha dato un potente intercessore per noi e per i poveri che cercano di rialzarsi dalla loro situazione di ingiustizia e di miseria. Il Signore gli ha concesso il dono della contemplazione”.

Uno stile di missione

Terminiamo questa breve carrellata su p. Angelo con un’ultima testimonianza che p. Pasina ha rilasciato a Verona il 30 aprile 1986, prima di entrare nella sala operatoria dell’ospedale di Borgo Roma. Vuole riassumere lo stile missionario di p. Angelo.

“Padre Angelo è stato il missionario delle Ande del periodo tipico del 1970-1980, quando dal lavoro comune doveva nascere comunione.

Arrivato a Cerro de Pasco con una certa conoscenza della situazione del lavoro di apostolato, superò difficoltà di distanze e di tempo, raggiungendo quote a quasi 5.000 metri di altezza. Una delle sue doti principali fu la grande pazienza usata con gli indios e la minuziosa ricerca dei valori della loro cultura specialmente per quanto riguarda il lato religioso. Lo si poteva considerare anche troppo accondiscendente di fronte a certe forme di religiosità che sapevano molto di superstizione. Egli diceva: ‘L’emorroissa fu premiata da Gesù solo per aver voluto toccare un lembo del suo mantello’.

Sapeva perdere un’infinità di tempo per poter arrivare a celebrare una messa in posti lontanissimi. Si trattava di tenere acceso un barlume di religiosità, una tradizione che forse non aveva un grande senso teologico. Non mancava mai alle loro processioni, ai funerali, alle feste, accettando di prendere cibi e bevande a volte poco indicati alla nostra costituzione fisica. Insomma, era riuscito, a prezzo di grossi sacrifici, ad incarnarsi molto bene nel popolo e nella sua cultura, della quale metteva in risalto i lati positivi”.

Elemento di unione

“Padre Angelo ha contribuito enormemente all’unificazione dei rami comboniani, sancita poi nel Capitolo del 1975. Egli dimostrò che i confratelli tedeschi erano né più né meno come noi italiani e che perciò non c’era motivo di restare separati.

Parlava sempre bene di loro e si trovava a suo agio con loro ed essi con lui. Scrisse più volte in questo senso anche ai superiori di Roma sollecitando l’unificazione dei due rami. La sua esperienza, il suo ottimo esempio in questo campo, incoraggiarono certamente le due congregazioni a riunirsi.

Padre Angelo non era un teorico. Diceva che la riunione non sarebbe avvenuta grazie a dei documenti, ma in seguito a gesti pratici, a testimonianza di vita vissuta insieme, a comunione, nel senso più evangelico della parola.

I gesti di p. Angelo non erano meta-fisici ma molto concreti: invitava a casa sua a chiacchierare, a mangiare, a bere qualche bicchiere di vino quando ce l’aveva o a condividere un po’ di grappa peruviana. Offriva alloggio e ospitalità con un cuore che pareva gli si facesse un’offesa non accettare.

Lassù, dove si vive con il fiato mozzo e per il gran freddo ci si imbottisce come fantocci, dove si ha solo voglia di tornare a casa, egli sapeva fermarsi con la povera gente e ascoltarla.

Con i confratelli promuoveva incontri e passeggiate. Non gli sfuggivano le date dei compleanni dei confratelli e delle diverse ricorrenze. Per ogni occasione sapeva tirar fuori la frasetta giusta, il regaletto significativo, anche se povero. In queste espressioni di amicizia era davvero maestro.

Sapeva organizzare la pastorale, ed era sempre pronto a difendere i diritti della gente meno difesa, a promuovere corsi e incontri di promozione sociale e pastorale”.

Quel sorriso

Poi la malattia! Quel sorriso. Si tratta di una cosa incomprensibile. Tutti notavamo che Angelo soffriva, egli però copriva tutto con un sorriso e un’occhiata che non si sapeva da dove venisse. O meglio, si sapeva: veniva dalla sua profonda fede e speranza in Colui che lo aveva chiamato alla vita missionaria. Noi tutti notavamo che, goccia a goccia, le forze gli venivano meno, proprio come dicevano i dottori, ma lui: ‘Nunca miedo, siempre adelante: yo no he de morir, yo vivré para cantar las azanas del Senor’. E dicendo questo si accomodava, o invitava ad accomodarlo nel seggiolone, e sorrideva a tutti infondendo coraggio e togliendo anche a noi quella pena intima che ci feriva ogni volta che lo andavamo a trovare. Il ritornello che sentivamo da chi usciva dalla sua stanza era: ‘Vuole bene a tutti. Gli piace stare con noi. Ha grande pazienza. Non vuole che soffriamo per lui...’. Personalmente - conclude p. Pasina - mi chiamava il suo Vecchio Simeone, e ridevamo.

Quando recitavamo il rosario insieme, arrivato al quarto mistero gaudioso, mi diceva: ‘Questo è per te, mio vecchio Simeone, perché anche tu possa vedere la salvezza’. Il mio carissimo Angelo la Salvezza l’ha già vista e la sta gustando. E dal Cielo mi sta aiutando perché possa vederla anch’io. Ciao, Angelo. Arrivederci!”.

Erede della croce di Comboni

Al termine di queste note, inadeguate per delineare la statura spirituale di p. Angelo Ubiali, il missionario comboniano che a 48 anni ha terminato così gloriosamente il suo cammino, non ci resta che ringraziare il Signore per avercelo dato, e pregarlo perché “segni” così luminosi di predilezione divina non manchino mai nella nostra congregazione e nella Chiesa. Padre Angelo è stato un erede fedele della Croce che ha caratterizzato la spiritualità di monsignor Comboni. Quindi lo possiamo definire un comboniano autentico, genuino; un missionario del Cuore di Gesù, di quel Cuore dalla cui ferita, segno di morte, sono sgorgati sangue e acqua, simboli di vita.

Sabato 24 maggio 1986, alle ore 19, nella chiesa di Guzzanica di Dalmine, parrocchia di adozione della mamma e della sorella Celina di Angelo, si è tenuta una concelebrazione solenne in memoria, dopo la quale è stato distribuito un volume redatto dal Gruppo Missionario di Guzzanica, animato da don Corinno Scotti, parroco, e già missionario diocesano in Ecuador. Il libro raccoglie le testimonianze di chi ha conosciuto p. Angelo durante la malattia; le lettere da lui scritte dalla missione; e un’appendice sui funerali.                        (P. Lorenzo Gaiga)

Da Mccj Bulletin n. 150, luglio 1986, pp.72-85