Di questo confratello molto si è scritto sia sul Bollettino, sia con una biografia, sia attraverso riviste e giornali. Tra le riviste, merita di essere segnalato "Mondo e Missione" del PIME (dicembre 1987) che ha presentato un bel profilo di 20 pagine.
Molto si è detto e, ancora di più, forse, si dirà. P. Giuseppe, infatti, è una di quelle figure di missionario che hanno lasciato il segno. Il segno del passaggio di Dio. Tra le tantissime testimonianze arrivate, non ce n'è una - dico una - che si discosti dal riconoscere la genuina santità di questo nostro confratello. Perfino chi gli è vissuto accanto per 23 anni di seguito, come è capitato al medico e sacerdote don Palmiro Donini, è fermamente convinto dell'esercizio eroico di alcune virtù come la povertà, la disponibilità, lo spirito di servizio, la fortezza, la carità, la purezza, l'obbedienza ... da parte di p. Giuseppe.
Il segreto di tanto successo nelle vie dello spirito sta sicuramente nella grazia di Dio prima di tutto, poi nel cuore della mamma, donna piissima, e nel suo sforzo costante di migliorarsi. Chi crede che p. Giuseppe sia nato senza peccato, si sbaglia di grosso. P. Giuseppe ha vissuto sul serio il suo sacerdozio, e con spirito di servizio la sua profesisione di medico. A questo proposito vorrei riportare la testimonianza di mons. Renato Corti, vicario generale della diocesi di Milano, testimonianza che non è stata riportata tale e quale sulla biografia perché di contenuto teologico piuttosto impegnativo. Sul nostro Bollettino, tuttavia, mi pare che possa trovare posto. Si intitola: Il Cristo di p. Ambrosoli.
Il Cristo di P. Ambrosoli
"Aggiungerei un'osservazione - conclude Monsignore - che è relativa a ciò che è stato chiamato Il Gesù Cristo di p. Ambrosoli. Il segreto è stato indicato nella scoperta, avvenuta nella sua vita, di Dio, di Gesù, del Vangelo, del Regno a cui ogni uomo è chiamato.
Dobbiamo riconoscere che tutta l'esistenza di p. Giuseppe è stata un possibile segno di un Altro, di Dio amore. Ora a me pare che valga la pena riflettere un istante sulle modalità fondamentali attraverso le quali la Chiesa rivela Dio partendo dal principio che la vocazione e la missione della Chiesa consistono proprio in questo: svelare il volto di Dio-amore. Ci si può domandare quali sono le modalità fondamentali di questa operazione. Sono l'incarnazione, la vita pubblica, la passione e la morte di Cristo. Il Verbo di Dio ci salva incarnandosi, facendosi uomo, abitando tra di noi, avvicinandosi a noi. E così svela il Dio-amore. P. Ambrosoli ha cominciato la sua missione ancor prima di andare in Africa, quando ha cominciato a capire il cristianesimo e quando ha cominciato a desiderare di mettersi a disposizione del Vangelo.
Poi vi è la seconda modalità che è quella indicata soprattutto nella vita pubblica di Gesù e dal fatto che egli predica, agisce, incontra, prepara, educa, costruisce. I tanti anni trascorsi da p. Ambrosoli in Africa, stanno ad indicare in modo esplicito questa modalità importante della missione, che lo rende simile a Gesù nella sua vita pubblica.
Terzo: è decisivo riconoscere che Cristo vive la missione nella passione e nella morte. Anche per p. Ambrosoli la missione raggiunge il culmine quando gli è domandato di sacrificare tutto.
La distruzione dell'ospedale non è stata per p. Ambrosoli un problema, perché lavorava solo per Dio e per la sua gente. Il suo atteggiamento nei confronti di Dio è stato espresso con le parole: Quello che Dio vuole non è mai troppo. Se si aggiunge poi il riferimento al Comboni e al suo senso della croce, ai martiri d'Uganda di cui si era appena celebrato il primo centenario, siamo in pieno nell'espressione più viva della testimonianza. È a questo livello che p. Ambrosoli somiglia a Gesù, al Fondatore del suo Istituto, ai martiri, e che la sua esperienza di fede si realizza al sommo grado. I Santi sono l'esegesi più viva del Vangelo. Ambrosoli lo ha dimostrato.
P. Giuseppe, perciò, ci inserisce in una nuova realtà di vita di Chiesa. Egli ci costringe ad uscire dai nostri schemi e dalle nostre autodifese per riflettere sulla nostra vita in rapporto al Vangelo. P. Giuseppe è una testimonianza, un sentiero percorso, una dimostrazione che le Beatitudini sono possibili, tanto è vero che egli le ha vissute.
Vorrei dire ai giovani di non guardarsi allo specchio facendo di se stessi la misura, ma di specchiarsi in coloro che probabilmente hanno fatto un po' di strada più lunga o sono andati più a fondo nel Vangelo per comprendere in quale maniera, come e dove Dio chiama".
Studente e soldato
Settimo di otto figli, Giuseppe è nato a Ronago (Como) il 25 luglio 1925 da Giovan Battista e da Valli Palmira. Terminate le elementari al paese, scese a Como per le medie. Fu iscritto alla scuola pubblica. L'anno dopo, però, dovette seguire la tradizione degli Ambrosoli quanto a preparazione scolastica. E fu trasferito al Collegio Calasanzio di Genova dove già si trovava il fratello Paolo. Concluse gli studi liceali al Liceo Volta di Como.
L'incontro con don Silvio Riva, fondatore del Cenacolo, un'associazione nella quale i giovani si incontravano per pregare, fu determinante per la preparazione spirituale del giovane che divenne attivista di Azione Cattolica. Al termine del liceo, Giuseppe si iscrisse alla facoltà di medicina e chirurgia presso l’Università degli Studi di Milano.
Intanto scoppiò la guerra e Giuseppe si prestò per accompagnare in Svizzera tanti ebrei e perseguitati dal regime fascista. Alla fine, per evitare noie alla sua famiglia, egli stesso dovette entrare tra i repubblichini.
Dopo alcuni mesi nel campo di esercitazioni militari di Heuberg (Germania), fece parte dell'esercito italiano "fascista" nella zona dell'Appennino tosco-emiliano. "Si lasciò sparare addosso dai partigiani, senza mai rispondere al fuoco".
Dopo la "naia", proseguì i suoi studi laureandosi il 18 luglio 1949 con centodieci su centodieci.
Vengo a cercare Dio
Giuseppe Ambrosoli aveva parlato della sua vocazione con p. Zanoner, che si trovava a Rebbio, e poi con p. Antonio Todesco, generale dei comboniani.
"Ora mi sto preparando per entrare a Gozzano - scrisse Giuseppe a p. Leonzio Bano il 5 ottobre 1951. - Purtroppo non posso fare a meno di portare con me tutto il cumulo delle mie tare e dei miei difetti. Penso che i superiori dovranno esercitare la loro pazienza con me".
Al Superiore generale scrisse: "Vengo a cercare Dio". La ricerca di Dio sarà l'impegno costante durante il noviziato e in tutto il resto della sua vita.
A Gozzano Giuseppe si rese conto che la vita del missionario era piuttosto dura. La sede del noviziato ne era un antipasto. Non si scoraggiò anche se "L'unico a non essere contento che io sia qui è il diavolo il quale qualche volta cerca di darmi fastidio" (dal Diario). E più avanti: "Morire martire per testimoniare la mia fede in te, Signore. Rimanere qui, in questa casa a servirti, anche questo è una specie di martirio" (dal Diario).
Medico in Uganda
Il 9 settembre 1953 emise i Voti temporanei ed andò a Venegono Superiore per la teologia. Dovunque si è fatto notare per la squisita carità nei confronti degli ammalati per i quali aveva sentimenti delicatissimi. Sfruttava i tempi liberi per frequentare gli ospedali onde imparare l'arte chirurgica.
Previa dispensa, il 9 settembre 1955 emise i Voti perpetui e, con un'altra dispensa poté essere ordinato sacerdote all'inizio del quarto anno di teologia (17 dicembre 1955). Il motivo di tanta fretta: l'urgenza di avere un medico in Uganda per l'ospedale che monsignor Cesana intendeva fondare a Gulu.
Ma anche p. Malandra voleva ingrandire l'ospedale di Kalongo. E dato che quest'ultimo era conosciuto col nome Aguata Matek (zucca dura), riuscì a spuntarla e a tenere p. Ambrosoli per sé.
Quello che Dio vuole non è mai troppo
Nessuno avrebbe mai immaginato che i quasi 32 anni di vita missionaria a Kalongo, caratterizzati dalla dedizione più assoluta e da un amore grande agli africani, si sarebbero conclusi con il forzato allontanamento dall'ospedale e con l'apparente distruzione di un lungo e paziente lavoro.
È stato il prezzo della guerra. P. Ambrosoli, già sofferente per un'insufficienza renale, ha accettato il calice amarissimo con quella fede che lo ha sempre caratterizzato:
"Dobbiamo essere convinti che tutto questo succede per il nostro bene", e ha resistito oltre le possibilità umane allo scopo di rimandare in Italia i confratelli malati, in particolare mons. Cesana e fr. Bonalumi. Dopo aver sistemato ad Angal la scuola per ostetriche ed infermiere che rappresentava per lui un aspetto di quella autosufficienza dal punto dì vista sanitario che è auspicabile per tutti i paesi del terzo Mondo, era pronto a morire. "A molti fa spavento il passare degli anni. Per noi è gioioso perché ci riporta al pensiero che ci avviciniamo alla Casa del Padre".
In pochi giorni, il suo male lo ridusse alla fine. Lui, che aveva assistito tanti, morì senza aver vicino un medico. Fu curato al limite del possibile dalle suore e dai colleghi interpellati via radio. Quando si rese conto che non c'era più niente da fare e che l'elicottero richiesto, non da lui che non lo voleva, ma dai confratelli, per portarlo a Gulu (dove esiste il rene artificiale) non ar-rivava, chiese come una grazia di poter essere sepolto in terra d'Africa e all'africana, cioè avvolto in un semplice lenzuolo. Fu esaudito solo quanto al luogo della sepoltura.
Spirò sereno. Le parole che rimasero impresse nei presenti furono quelle che il Padre ripeteva nei momenti più critici della sua vita: "Ciò che Dio vuole, non è mai troppo".
Ora riposa nel cimitero di Lira e sulla sua tomba si verificano episodi di pacificazione e di perdono.
P. Lorenzo Gaiga
Da MCCJ Bulletin n. 156, Gennaio 1988, p.86-89
P. GIUSEPPE AMBROSOLI
Medico della Carità
P. Giuseppe Ambrosoli è nato a Ronago, Como, il 25 luglio 1923, ed è morto a Lira, in Uganda, il 27 marzo 1987. Perché lo ricordiamo? Perché p. Giuseppe Ambrosoli ha condotto una vita santa, come medico e come sacerdote, ed è morto in concetto di santità. Di lui è introdotta la causa di canonizzazione. San Francesco d’Assisi diceva: “Il narrare le glorie di coloro che ci hanno preceduto, non ci porti ad un vano gloriarci, ma ad un reale santificarci”. Questo è lo scopo per cui ricordiamo queste belle figure.
Non è facile concentrare la personalità spirituale di questo sacerdote, missionario comboniano e medico. Ambrosoli era medico e, in Uganda, lo chiamavano: “Il medico della carità”. “Nessuno mai si è allontanato da lui a mani vuote o a cuore spento”, assicurano i testimoni.
Anche il libro su di lui s’intitola “Il medico della carità”.
P. Giuseppe è stato anche un autentico seguace di Comboni (fondatore del suo Istituto) che è stato dichiarato santo il 5 ottobre 2003: Come Comboni anche p. Giuseppe ha cercato di salvare l’Africa con l’Africa. E come Comboni ha assaporato “la predilezione del Calvario”.
Vorrei ora fare un accenno all’infanzia di p. Giuseppe, poi un accenno alla giovinezza, quindi vorrei parlare della sua vocazione e, in fine, della sua “esperienza di Calvario” prima della morte.
Chi ha influito maggiormente sulla formazione spirituale di Giuseppe è stata la Mamma, mamma Palmira, una donna piissima e piena di carità verso i poveri. P. Ambrosoli ebbe sempre una grande venerazione per la mamma. Il nome Mamma lo scriveva sempre con la M maiuscola.
1. Dopo le elementari al paese, le medie a Como e il ginnasio al Calasanzio di Genova, dove gli Ambrosoli solevano andare per i loro studi, Giuseppe ebbe la fortuna di imbattersi in un sacerdote, don Silvio Riva, poi francescano, assistente dell’Azione Cattolica di Como. Fu un incontro benedetto e provvidenziale. Don Riva aveva istituito il “cenacolo”, un’associazione di giovani di Azione cattolica fortemente impegnati nella vita cristiana. Messa e meditazione ogni mattina, visita al Santissimo quotidiana, ritiro mensile ed esercizi spirituali annuali, confessione settimanale. Dal giovedì al venerdì c’era la veglia di preghiera davanti al Santissimo per buona parte della notte. Una ventina tra i frequentatori del cenacolo diventarono sacerdoti e gli altri ottimi cristiani.
Giuseppe Ambrosoli è stato delegato aspiranti ad Uggiate e poi presidente degli Aspiranti a Ronago ed Uggiate. Con la sua moto rossa andava da un paese all’altro a organizzare i gruppi e le adunanze.
2. Nel 1942, a 19 anni, Giuseppe terminò il liceo e si iscrisse alla facoltà di Medicina presso l’Università degli Studi di Milano. Ma era già cominciata la Seconda guerra mondiale. Anzi l’anno dopo ci fu il famoso 8 settembre 1943 con lo sfacelo dell’esercito italiano, la costituzione della Repubblica Sociale di Salò e l’invasione dell’Italia da parte delle truppe tedesche. Ebbene, in quella grande confusione che si era creata in Italia, Giuseppe si prefisse di salvare il numero più grande possibile di vite di partigiani, di renitenti alla leva, di ex militari, di ebrei perseguitati (c’erano le leggi contro gli ebrei). Li accoglieva in casa, (col consenso dei genitori) li forniva di cibo e, di notte, sfidando i tedeschi di guardia, li portava in un boschetto che confinava con la Svizzera (Ronago confina con la Svizzera) dove aveva praticato un buco nella rete e da lì li mandava in Svizzera dove aveva degli amici. Così li salvava dai campi di concentramento o dalle camere a gas.
Quando la cosa arrivò alle orecchie di qualcuno anche Giuseppe dovette riparare in Svizzera e poi, per non esporre la famiglia a vessazioni, dovette entrare tra i Repubblichini di Salò. E fu inviato nel campo di addestramento militare di Heuberg, in Germania. In quell’inferno è brillata ancora di più la virtù di questo giovane di Azione Cattolica:
Ogni giorno c’erano le manovre militari, sfibranti; il cibo era scarso, la vita nelle baracche durissima. Eppure Giuseppe, pur di fare la comunione tutti i giorni, rimaneva digiuno fino alla due del pomeriggio quando poteva andare in una chiesa cattolica dove c’era un sacerdote che gli dava la comunione. Gli esempi di altruismo, di carità, di aiuto ai compagni al campo sono moltissimi e edificanti.
Ma voglio raccontare un altro fatto della sua vita militare in cui brilla la sua onestà. Nel dicembre del 1944, terminato l’addestramento, venne inviato a Collecchio in provincia di Parma e, nel 1945 si trovò con la sua Divisione a Berceto. I testimoni assicurano che questo giovane soldato ebbe modo di aiutare tante famiglie povere. E quando la situazione della guerra precipitò e tutti si diedero alla fuga, rifiutò energicamente di appropriarsi della cassa della Divisione anche se ne aveva la possibilità.
3. Con la fine della guerra intraprese gli studi interrotti, e il 18 luglio 1949 conseguì la laurea in medicina e chirurgia. Ma intanto aveva già maturato nel cuore la sua decisione. Tornando a casa da Milano con la laurea, fece tappa nella Casa comboniana di Rebbio di Como (dove la sua mamma si recava spesso a fare delle offerte per le missioni) e incontrò il superiore generale, p. Antonio Todesco, che casualmente si trovava lì.
Giuseppe tirò fuori la sua carta e la mise timidamente nelle mani del missionario e disse:
“Vorrei andare in Africa a curare i più bisognosi”.
“Come medico o come sacerdote?”, gli chiese il Generale.
“Come medico e come fratello coadiutore”, rispose Giuseppe. E poi aggiunse:
“Mi pare che il Sacerdozio sia una cosa troppo grande per me”.
“Andrai come medico e come sacerdote”, concluse il generale.
Per dimostrare che faceva sul serio, Giuseppe andò a Londra a specializzarsi in malattie tropicali e da lì scrisse alla mamma: “Dio è amore, c’è un prossimo che soffre e io sono il suo servitore”. Con queste semplici, ma profonde parole, annunciò alla mamma e ai familiari la sua vocazione missionaria.
Nell’ottobre del 1951 entrò nel noviziato di Gozzano in provincia di Novara e il 9 settembre del 1953 emise i Voti. Poi passò a Venegono per la teologia e fu ordinato a Milano il 17 dicembre 1955. Fu ordinato un po’ prima dei suoi compagni perché era richiesto con urgenza in Uganda dove c’era da creare un ospedale. Ci sarebbe un bell’episodio della sua ordinazione: siccome era rimasto in piedi tutta la notte al capezzale di un confratello ammalato, alla mattina si era addormentato. Svegliato all’ultimo momento, si precipitò a Milano. Quando dovette sdraiarsi a terra durante le litanie dei Santi, tutti si accorsero che aveva le suole delle scarpe bucate. E nei primi banchi c’erano i familiari e gli amici di famiglia. Ambrosoli era fatto così.
Per tirar su l’ospedale di Kalongo, p. Giuseppe alternava il lavoro di medico a quello di manovale. Uno dopo l’altro sorgevano i vari padiglioni e intanto p. Giuseppe cercava di coinvolgere dottori europei perché andassero a trascorrere qualche periodo a Kalongo. Centinaia ne sono passati. L’ospedale crebbe fino ad arrivare a 350 letti.
P. Giuseppe attrezzò il reparto dei malnutriti. Nei suoi spostamenti per curare le persone, quando trovava qualche bambino denutrito, lo portava all’ospedale con la mamma perché erano denutriti entrambi. Ebbe una cura speciale per i malati di lebbra. Ancor prima che Follereau proclamasse che i lebbrosi sono “uomini come gli altri”, egli li ricoverava nel suo ospedale con gli altri e non si è mai sognato di chiuderli nei lebbrosari che erano luoghi di disperazione e di morte.
Poi Ambrosoli volle realizzare il piano del Comboni. “salvare l’Africa con l’Africa” ed ecco che iniziò la scuola per ostetriche e infermiere professionali. Naturalmente in questo, ma anche in sala operatoria, era coadiuvato dalle suore comboniane. Le suore comboniane hanno una parte importante nella vita di p. Ambrosoli.
Un giorno i soldati volevano entrare in ospedale per uccidere i ribelli feriti che erano ricoverati. P. Ambrosoli si mise davanti a loro e, invocando le leggi internazionali, disse che non si poteva entrare. Un ufficiale lo minacciò con la pistola e p. Giuseppe disse: “Spari pure: Per entrare in ospedale deve passare sul mio cadavere”. E riuscì a convincerli a desistere.
Per tutte vorrei portare la testimonianza del dottor Stoffel, uno svizzero, protestante, uomo piuttosto taciturno e duro che lavorò parecchi anni con Ambrosoli:
“Tante e tante volte rimasi colpito dalla sua compassione, dalla sua generosità e dalla sua infinita pazienza. Spesso mi sentivo colpevole di non essere capace di ricambiare ciò che faceva per me”. Solo in sala operatoria p. Ambrosoli diventava esigente e duro: non ammetteva leggerezze, scherzi o sbagli. “Qui dentro si gioca la vita delle persone” diceva.
4. Ma veniamo all’esperienza di Calvario che ha colpito p. Giuseppe. Un’esperienza che si è rivelata “il giorno della verità”. E’, questo, il momento in cui uno vede crollare attorno a sé tutto ciò che aveva costruito con impegno e fatica e che si conclude con la disfatta e con morte. È proprio questo il momento dove si prova la tempra di un uomo, di un santo. E credo che, più o meno, dobbiamo passare tutti per questa fase, per questo “momento della verità”.
Di “momenti della verità” p. Giuseppe ne ha avuti due: il primo quando ha scoperto la malattia nel suo corpo. Era nato con un rene solo, cioè l’altro rene non si era sviluppato, era rimasto “rene grinzo”, come dicono i medici, ma lui non lo sapeva all’inizio. Lo ha capito un poco alla volta da una certa insufficienza renale che si accentuava di anno in anno e poi dagli esami. Fu un colpo duro, indubbiamente, ma la fede in Dio lo sostenne: Poi c’è l’altro “momento della verità” quello ancor più tragico, quando cioè, ha visto il suo ospedale crollare ed egli stesso si è trovato povero esule con sulle spalle un immenso cumulo di preoccupazioni proprie e altrui.
Tutto è cominciato il 7 febbraio 1987 quando i militari hanno dato 24 ore di tempo per sgomberare l’ospedale e portar via gli ammalati. Essendo in zona di guerra, l’ospedale di Kalongo doveva essere distrutto per impedire ai ribelli di trovarvi un rifugio.
Prima preoccupazione del Padre furono gli ammalati.
“Dove li metto?” si domandava, e le medicine, e i viveri messi da parte per il tempo della carestia che fine avrebbero fatta?
Qui si vede l’uomo di Dio: Ambrosoli non si agitò, non perse la pazienza, non imprecò contro i soldati. Trascorse la notte in preghiera, assicura un confratello e, al mattino, radunò i medici e gli infermieri per la santa messa. Era una messa di addio. All’inizio citò la frase di Comboni.
“Le opere di Dio nascono, crescono e si sviluppano ai piedi della croce” e prima del Padre nostro disse:
“Chiediamo al Padre che sia fatta la sua volontà e a noi la forza di compierla”.
Trentaquattro automezzi, in parte forniti dall’esercito, il personale medico, 23 cittadini italiani, 1.500 tra militari e civili, 150 ammalati (che non erano riusciti a tornare alle loro case) infermieri e studentesse, parte a piedi, parte a bordo dei camion lasciarono Kalongo alle 3 del pomeriggio dei 13 febbraio 1987.
Per percorre il 120 Km che separano Kalongo da Lira dove pensavano di essere fuori dalla zona di guerra, impiegarono 22 ore perché si marciava a passo d’uomo, sempre sotto tiro dei ribelli nascosti nel bosco (che però non hanno mai sparato sul convoglio), durante una notte afosa e poi sotto il sole implacabile senza poter bere neanche un goccio d’acqua (lui col suo mezzo rene bruciato).
P. Ambrosoli nella sua auto portava mons. Cesana, 88 anni, che aveva subìto un ictus cerebrale e un vecchio Fratello che aveva rotto il femore. Mentre il convoglio si muoveva, si vedeva alle spalle le colonne di fumo che si alzavano dall’ospedale: erano le riserve di viveri e di medicinali che andavano in fumo.
Arrivato finalmente a Lira, p. Ambrosoli già sofferente, si preoccupò di mille cose. Dei malati, prima di tutto, come sistemarli, della scuola infermiere che doveva andare avanti, delle medicine che occorrevano. Avrebbe dovuto fermarsi, pensare a se stesso. Non lo fece
Così il suo Calvario fu relativamente breve: Il 19 marzo di quel 1987, festa di San Giuseppe e onomastico di p. Giuseppe, p. Ambrosoli presentò il Santo come modello di obbedienza nelle difficoltà (fuga in Egitto, fuga da Kalongo; strage degli innocenti, uccisioni e vendette a causa della guerra…) Nel pomeriggio di domenica 22 cominciò a sentire i brividi e il 24 sopravvenne il vomito. Aveva sempre vicino p. Mario Marchetti che ascoltò la sua confessione e gli impartì tutti i sacramenti. I confratelli cercavano un elicottero che lo portasse a Gulu (150 km) dove, nell’ospedale tenuto dal dottor Corti, c’era la possibilità della dialisi. Ma a causa della guerra non era possibile muoversi con la macchina, né trovare un elicottero.
La notte più brutta fu quella tra il 26 e 27 marzo. Ambrosoli, infatti, era ormai in agonia. Quando qualcuno gli disse che, finalmente, avevano trovato un elicottero militare per portarlo a Gulu, p. Ambrosoli disse:
“Lasciate perdere l’elicottero e anche la dialisi. Io desidero morire qui con la mia gente. Aiutatemi piuttosto a pregare”. E dopo un po’ aggiunse:
“Vorrei essere sepolto come un africano, avvolto in un semplice lenzuolo, senza bara”. Devo dire che in questo i confratelli non l’hanno ascoltato. Quattro assi le hanno trovate anche per lui. Poco dopo, sentendosi svenire e constatando che gli arti si irrigidivano disse: “Signore, sia fatta la tua volontà. Come vuoi tu, va bene”. Quindi, bisbigliando il Padre nostro, è spirato. Erano le 13 e 50 minuti di venerdì 27 marzo 1987. Così un nuovo testimone della fedeltà alla vocazione missionaria, il medico della carità, si aggiungeva alla lunga schiera di coloro che lo avevano preceduto.
Quando Dio ama qualcuno – questo vorrei che rimanesse come il succo di questa testimonianza - lo fa morire in croce, spogliandolo di tutto, come Cristo. P. Giuseppe ha conosciuto questa predilezione. Crollo della salute, crollo dell’ospedale e la morte senza un medico a fianco, lui che aveva curato tanti. Insomma fu identificato a Cristo, identificato a Comboni.
Il 7 aprile 1994 la salma di p. Ambrosoli è stata riesumata dal cimitero di Lira e, in un clima di festa, è stata portata a Kalongo, accanto al suo ospedale.
P. GIUSEPPE AMBROSOLI
Medico-sacerdote della carità
Il piccolo Giuseppe viene ad allietare i coniugi Ambrosoli, il 25 luglio 1923 a Ronago (Como). È il settimo di otto figli. La famiglia Ambrosoli è già nota per la sua grande industria ma soprattutto per la serietà, l'onestà e l'attenzione umana e cristiana nei confronti dei dipendenti. Mamma Palmira arricchisce spiritualmente la famiglia con le basi religiose molto solide.
Giuseppe cresce in un clima d'amore vero, è vivace, allegro e in un primo periodo piuttosto gracile di salute. Nutre uno spiccato amore alla natura e in modo particolare agli animali. Terminate le classi elementari al paese, Giuseppe scende a Como per le medie. Dimostra una intelligenza spiccata quasi unica unita a una grande semplicità, sobrietà e amore verso i più umili.
Inizia gli studi liceali a Genova presso il Collegio Calasanzio, li terminerà però a Como presso il liceo Volta. Al paese i suoi amici sono i figli dei contadini, loro dipendenti, dai quali cerca di non distinguersi affatto, li aiuta in molti modi durante i suoi tempi liberi. In questo periodo si interessa pure dell'Azione Cattolica e ha amicizie con tutti i Parroci della zona. Si incontra così con Don Silvio Riva, assistente dell'Azione Catt. di Como e più tardi fonderà "Il Cenacolo" un'associazione per i giovani del quale farà parte Giuseppe e che costituirà un momento fondamentale per la sua vocazione.
Durante i primi anni della guerra 1939-1945 Giuseppe si incontra per la prima volta con il fratello comboniano Francesco Spreafico, il quale va a Ronago per l'animazione missionaria. Al termine, mentre il fratello si accinge a tornare a Rebbio, Giuseppe lo trattiene con mille domande sull'Africa e sulla vita missionaria.
Nel 1942 Giuseppe, terminato il liceo, si iscrive alla facoltà di medicina e chirurgia presso l'Università degli Studi di Milano. Durante questo periodo il giovane studente di medicina si presta molto per salvare molti infelici che rischiavano di finire nelle camere a gas. Il coraggioso giovane riesce a farli fuggire in Svizzera a rischio e pericolo della sua stessa vita.
Più tardi lo vediamo militare della Repubblica Sociale di Salò. Si è nel 1944 egli è a Baggio e presta la sua opera all'ospedale militare. Ma dopo qualche settimana è inviato nel campo di addestramento militare di Henberg (Germania). Giuseppe – nella baracca 114 – spicca per il suo comportamento per il suo altruismo, per la sua comprensione e bontà intuitiva.
Vive gli stessi problemi dei camerati, la stessa vita di fatica, di fame, ecc. ma sa reagire in un modo diverso. E rincuora, incoraggia i compagni ad avere speranza e pazienza. Rispettoso di tutte le idee e di tutte le fedi egli non nasconde le sorgenti della sua fortezza morale e ogni sera lo si vede in ginocchio sul suo pagliericcio raccolto in silenziosa preghiera.
Sempre con il suo "perenne sorriso" egli è disponibile per qualsiasi necessità altrui, non si preoccupa di se stesso, frequenta però quotidianamente i Santi Sacramenti. E così il giovane Ambrosoli e i suoi camerati escono bene da questo anno di bufera, hanno imparato ad amarsi, ad aiutarsi. I sopravvissuti danno atto che l'anno 1944 in Germania li fece diventare veri uomini. E finalmente il 25 aprile 1945 raggiunge Ranago.
Giuseppe riprende i suoi studi universitari e il 18 luglio 1949 consegue la laurea in medicina e chirurgia con il massimo dei voti. È giunto il momento della scelta...
Così con la sua laurea in tasca, in compagnia di Don Silvio Riva bussa alla casa comboniana di Rebbio, Como. Lo riceve il Rev. P. Antonio Todesco, Sup. Gen., Giuseppe gli espone il suo desiderio: "Andare in Africa a curare i più bisognosi come medico e fratello". Al che il P. Todesco risponde: "Ciò è possibilissimo come medico, e sacerdote".
Chiede quindi di iscriversi e di conseguire una specializzazione in malattie tropicali in Inghilterra. Ed il 16 ottobre 1951 Giuseppe entra il Noviziato Comboniano a Gozzano, viene a cercare Dio, desideroso solo di conoscere la volontà divina per compierla. E' disposto ad ogni sacrificio e scrive nel suo diario spirituale: "Morire martire per testimoniare la mia fede in Te, Signore. Che onore! é rimanere qui, in questa casa, a servirti perché ogni giorno muoia un po’ di questo mio uomo vecchio ... Ho lasciato tutto per seguirti, ma ora ti prego prendimi come sono e fammi come vuoi...". E con questa disposizione si adatta a tutte le "regolette" anche a quelle che appaiono assurde ma che tendono a maturare la volontà per il dominio su se stessi e l'acquisto dello spirito di sacrificio, sull'esempio del Fondatore.
Giuseppe percorre così le varie tappe della preparazione alla sua futura missione superando con eroica generosità anche le "famose regolette" assurde. Durante la Messa di mezzanotte del Natale 1951, Giuseppe indossa la veste talare dei Missionari Comboniani del Cuore di Gesù. Frequenta poi teologia nello Studentato di Venegono, ed è ordinato sacerdote il 17.12.1955. Ormai il suo sogno sta per realizzarsi. Infatti nel febbraio del 1956 parte per l'Africa: l'Uganda del Nord e precisamente Kalongo sarà la sua missione.
A Kalongo vi era un piccolo ospedale e P. Ambrosoli trova subito lavoro. Si dona senza misura, e sempre con un sorriso. Aiuta e presta servizio senza concedersi sosta. E pian piano questo ospedaletto assume dimensioni sempre più grandi articolandosi nei reparti di maternità, chirurgia, medicina, pediatria, malati di lebbra ...
Sorgono nuovi padiglioni capaci di accogliere 354 posti letto, chiede aiuti di personale e finanziari ogni volta che viene in Italia per un corso di aggiornamento. Attirati dalla sua personalità arrivano volontari dall'Italia e dall'estero. Attratti dai suoi pressanti S.O.S. lanciati dall'Africa, riesce a coinvolgere verso Kalongo anche aiuti materiali e personale.
E questo durante l'arco di tempo di ben 30 anni. Padre Ambrosoli instancabile lavoratore, vide a Kalongo più di 100 medici quali collaboratori così che fu possibile anche la creazione di scuole per ostetriche e per infermiere. All'ospedale di Kalongo si lavora con serietà, impegno, grande carità e spirito di parsimonia per mandare avanti quel complesso. E questo grazie a Padre Ambrosoli che sa trascinare tutti con la sua duplice attività di medico e di sacerdote.
Segue i suoi malati sia come medico che come sacerdote, con attenzione amorosa che a volte sfiora l'eroismo. Alla base del fascino che esercita su tutti, c'è la sua profonda spiritualità di uomo di Dio, segnata da grande umiltà, spirito di preghiera e donazione continua. E giunse all'ultima drammatica pagina della sua vita; quando si trovò coinvolto nella guerra civile in Uganda.
Il 7.2.1987 l'ospedale di Kalongo è assediato dalle truppe governative. I missionari sono accusati di collaborare con i guerriglieri per aver curato i feriti, quindi sono nemici del popolo. L'ordine è categorico, devono lasciare l'ospedale di Kalongo entro 24 ore. La prima preoccupazione di P. Ambrosoli sono gli ammalati. Come tasportarli? Nella sua voce c'è la preoccupazione della mamma che si china sul figlio morente.
Poi si riprende, va a celebrare la S. Messa. Il sacrificio di Cristo è la migliore risposta al suo sacrificio. Quella S. Messa di commiato lo rassenerò. Non uscì dalla sua bocca una sola parola di protesta, solo all'inizio della S. Messa dirà: "Le opere di Dio nascono, crescono, si sviluppano ai piedi della Croce". Ed il 13 febbraio parte la "colonna della sofferenza": i malati più gravi sono caricati su automezzi seguiti dagli altri e dal personale a piedi e dopo 22 ore di marcia arrivano a Lira, mentre alle spalle, colonne di fumo segnalano che tutto è stato dato alle fiamme. P. Ambrosoli soffre... il lavoro di una vita di sacrifici sta andando in fumo.
Stremato di forze, lo coglie un blocco renale. Solo a Gulu c'è un apparecchio per la dialisi. Necessita un elicottero per il trasporto del Padre, ma questi arriva troppo tardi. Padre Ambrosoli cosciente della gravità del suo male riceve con fede i Sacramenti e dice: "Lasciatemi morire qui con la mia gente. Ho speso tutta la mia vita per gli africani. Vorrei essere sepolto come un africano con un semplice lenzuolo, senza la bara".
Il martirio desiderato da P. Ambrosoli arrivava così il 27 marzo 1987, egli moriva senza un medico accanto e dopo aver visto distrutta la sua opera. Cristo l'associava al suo Venerdì Santo come premessa del trionfo della domenica di Pasqua.
P. Leonzio Bano
UN DONO ALL’AFRICA
(Articolo per Piccolo Missionario)
Questa è la storia di un giovane che, un bel giorno, decise di mandare un suo dono all’Africa. “Ma cosa mandare? Un bel pacco di caramelle per i bambini?”. “No, quando le avranno succhiate – diceva – non resterà loro più niente”. “Un po’ di indumenti?” “Neppure: in Africa fa così caldo che si sta meglio senza”. “Allora cosa manderò?”. Pensa che ti pensa, finalmente decise di… mandare se stesso. Ecco come sono andate le cose.
Giuseppe Ambrosoli, questo era il suo nome, in un giorno di luglio del 1949 ritornava da Milano verso Como con la sua bella laurea di medicina e chirurgia in tasca. Passando davanti alla casa dei Comboniani di Rebbio (Como) decise di entrare.
“Cosa desideri, giovanotto?”, gli chiese il superiore. Giuseppe tirò fuori la sua laurea fresca di inchiostro e, mettendola timidamente davanti agli occhi del missionario, disse:
“Vorrei andare in Africa a curare i più bisognosi. È possibile?”.
“Altroché!”.
A questo punto bisognava avvertire i genitori:
“Cara mamma – scrisse Giuseppe – ho capito che Dio è amore. Ho capito anche che ci sono tante persone che soffrono, e ho capito che io sono il loro servitore”. La mamma versò due lacrime, ma erano di gioia per quel suo ragazzo tanto buono e generoso.
Quando mons. Giambattista Cesana, vescovo di Gulu, sentì che c’era un giovane medico che si preparava ad essere sacerdote comboniano, si leccò le dita. Aveva appena aperto un ospedale e aveva estremo bisogno di medici. Ma qualche centinaio di chilometri più in là, a Kalongo, c’era un altro missionario, Alfredo Malandra, che l’ospedale ce l’aveva già, anche se era piccolo, malandato e senza neanche un infermiere. Tra i due contendenti iniziò una specie di braccio di ferro. Cesana era vescovo, Malandra aveva la testa dura. Chi l’avrebbe vinta?
Ambrosoli venne ordinato sacerdote dal cardinale Montini, vescovo di Milano, alcuni mesi di anticipo sui suoi compagni, tutto per quel fuoco che Cesana e Malandra gli mettevano sotto i piedi. Giunto in Uganda, la lotta tra i due arrivò ai ferri corti. Il Vescovo ebbe la peggio. E’ chiaro, chi ha la testa più dura vince sempre.
In 30 anni di lavoro l’ospedale di Kalongo divenne uno dei migliori dell’Uganda, possiamo dire dell’Africa. I padiglioni, uno dopo l’altro, si allineavano nella savana racchiudendo tutte le specializzazioni. I posti-letto diventarono 354. Centinaia di medici, attirati da Ambrosoli, andavano a Kalongo a trascorrere qualche anno di volontariato o anche le loro ferie, ma non per andare a caccia di bestie o per visitare i parchi, bensì per chiudersi in sala operatoria o negli ambulatori a curare centinaia e centinaia di persone, ogni giorno. Una bella scuola per infermiere, diretta da Ambrosoli in persona, sfornava personale specializzato.
Ancor prima che Raoul Follereau, l’apostolo dei lebbrosi, dicesse che i malati di lebbra sono uomini come gli altri, Ambrosoli li accoglieva nell’ospedale e li metteva insieme agli altri malati. Egli, che aveva studiato medicina tropicale a Londra, aveva capito che i lebbrosi, dopo le prime cure, non erano più contagiosi, perciò non dovevano essere discriminati.
L’ospedale di Kalongo andava proprio bene. I personaggi più importanti, anche di altri Stati dell’Africa, e perfino dall’India, andavano a farsi operare da Ambrosoli, perché, dicevano, era Dio che operava attraverso quel medico buono. Ed era vero, perché Ambrosoli, oltre che medico bravo, era un missionario santo. Prima di andare in sala operatoria, si recava in chiesa a chiedere luce e aiuto al Signore, e in chiesa tornava anche dopo il suo lavoro per dire a Dio il suo grazie.
Nel 1979 l’Uganda fu travolta da una feroce guerra interna. Ribelli ed esercito regolare si scannavano a vicenda. In tutta la nazione ci fu la fame, il vaiolo, la distruzione di case e villaggi. Tanta gente dovette fuggire in Sudan o in Congo, molte missioni furono distrutte e alcuni missionari vennero uccisi.
Un giorno i soldati arrivarono anche a Kalongo.
“Abbiamo saputo che in ospedale ci sono alcuni ribelli feriti. Dobbiamo ucciderli”. Ambrosoli, sempre mite, umile e delicato con tutti, quella volta si trasformò in un leone:
“In ospedale non ci sono ribelli, ci sono solo feriti ed ammalati!”. Così dicendo si mise in mezzo all’entrata. L’ufficiale, per tutta risposta, estrasse la pistola e gli sparò un colpo alla testa. Ma la pallottola sbagliò il bersaglio.
Ambrosoli non si mosse, e con calma esasperante disse:
“Se vuoi entrare in ospedale a compiere la tua vendetta, sappi che prima devi passare sul mio cadavere” L’ufficiale, masticando amaro, rimise la pistola nella fondina e girò i tacchi.
Il 7 febbraio 1987 fu il pomeriggio più tragico per Kalongo. Ai medici e agli infermieri furono date 24 ore di tempo per sgomberare l’ospedale essendosi venuto a trovare in piena zona di guerra. Tra il personale fu subito grande agitazione.
“Calma - disse Ambrosoli - calma per favore. Andiamo tutti in chiesa”. Celebrò la messa di commiato. Non fece prediche, non uscì dalla sua bocca neppure una parola di protesta. Lasciò molto spazio alla preghiera. Solo all’inizio citò la frase di Comboni: “Le opere di Dio nascono, crescono e si sviluppano ai piedi della croce”. E prima del Padre nostro disse: “Chiediamo al Padre che sia fatta la sua volontà e che dia a noi la forza di compierla”.
Il viaggio Kalongo/Lira, con tutti gli ammalati al seguito su camion militari e con le poche cose salvate, durò 24 ore. Ambrosoli, già sofferente ai reni, non poté mai bere neanche un goccio d’acqua, e faceva un gran caldo, per cui giunse a destinazione più morto che vivo. Tuttavia non si diede per vinto: bruciò le sue ultime energie per sistemare la scuola per infermiere. “Salvare l’Africa con l’Africa”, aveva detto Comboni.
Domenica 22 marzo celebrò quella che sarebbe stata la sua ultima messa. Poi, scrivendo a una persona, disse: “Quello che Dio ci chiede, non è mai troppo”. Nel pomeriggio fu preso dai brividi della febbre. I giorni seguenti furono una continua agonia. Ad un certo momento, sentendo che i confratelli cercavano un elicottero per portarlo a Gulu dove poteva essere sottoposto a dialisi, il Padre dettò il suo testamento:
“Lasciatemi morire qui… Ho speso tutta la mia vita per gli africani… Su, aiutatemi a pregare”. E dopo un po’:
“Vorrei essere sepolto come un africano, con un semplice lenzuolo, senza neanche la bara”. Dopo un altro po’:
“Signore, sia fatta la tua volontà. Come vuoi tu, va bene”. Quindi, bisbigliando il Padre Nostro, spirò.
La gente, tornando dal cimitero diceva:
“Ambrosoli è stato un grande dono dell’Italia all’Africa, perché nessuno mai si è allontanato da lui con le mani o col cuore vuoti”.
P. L. G.