Un confratello che è vissuto a lungo accanto a padre Vincenzo Pellegrini, meglio conosciuto con l'appellativo di "Ce", ci lascia la seguente testimonianza: "Padre Vincenzo è una vera istituzione nel nord Uganda; un missionario d'avanguardia, vissuto sepolto da montagne di carte per rendere il suo giornaletto mensile - acholi e inglese ( LOBO MEWA) il vero amico delle famiglie acholi e lango. Padre Vincenzo rimarrà per lunghi anni negli annali della Chiesa del Nord Uganda, come il buon papà, sempre sorridente e disponibile a tutti, sempre pronto alla battuta arguta , animato da un sottile e intelligente umorismo che serviva a sdrammatizzare le situazioni. Sarà ricordato, soprattutto, come il missionario zelante, amico degli ammalati e degli anziani, consigliere delicato e prudente delle Suore e di tante anime che volevano vivere più intimamente e generosamente la loro vita cristiana.
La mia permanenza nella camera attigua all'ufficio di padre Ce, mi permise di apprezzare le sue molte qualità e virtù apostoliche, la sua semplicità, la sua fede genuina radicata in Cristo, nel Vangelo, negli insegnamenti della Chiesa e nella parola del Papa che amava come rappresentante di Cristo in terra.
Si dimostrò particolarmente attento ai cambiamenti e alle nuove proposte del post Concilio, sempre pronto ad ascoltare gli altri per confrontare le proprie idee ed esaminarle alla luce del Vangelo, amico di tutti, specie degli ammalati che visitava all'ospedale e in casa loro, confidente dei sacerdoti indigeni che amava con cuore di padre e di fratello... E tutto ciò senza trascurare il suo lavoro principale, la Stampa, che era la sua creatura prediletta".
Il giuramento davanti alla salma della nonna
Per seguire, pur brevemente e inadeguatamente, la vicenda terrena di quest'uomo, sarà bene cominciare dall'inizio della sua vocazione, una vocazione sofferta e da lui stesso raccontata in una lettera scritta al superiore generale dei Comboniani.
"Reverendissimo Padre Paolo Meroni,
Mi sono già messo in relazione con padre Fornasa, missionario della sua Congregazione, perché sento, ormai da più di quattro anni, un'attrattiva potente per le missioni africane.
Ascoltando per mezzo dei missionari e delle loro lettere la voce stessa di quei popoli che sono ancora nel paganesimo, il mio cuore si è infiammato ancora di più per l'apostolato.
Prima che lei mi possa dare delle buone indicazioni, è necessario che io mi presenti. Incomincio col narrarle l'origine della mia vocazione. Nel 1920 io avevo 12 anni e frequentavo la terza classe ginnasiale nel seminario diocesano. In quel periodo sentii parlare per la prima volta di missionari ( o, meglio, ne avevo sentito parlare anche altre volte però senza capire nulla, o quasi). Questa volta sentii un grande desiderio di partire, ma non dissi niente per più di un mese. Intanto la mia carissima nonna morì ed io, davanti alla sua salma, giurai che mi sarei fatto missionario.
Manifestai l'idea ai genitori e il babbo mi proibì perfino di pensarci. Inoltre non volle che rinnovassi l'abbonamento alle riviste missionarie. Cosa che non ho eseguito.
L'anno appresso andammo in pellegrinaggio a Loreto e, dentro la santa Casa, durante la comunione, giurai di nuovo di farmi missionario. Poi passò dal nostro seminario un missionario di Parma, che mi infervorò sempre di più. Finalmente venne padre Fornasa che, con le proiezioni sull'Africa, mi indirizzò definitivamente alle missioni africane.
La prima volta che ne parlai al confessore ne ebbi quasi un rimprovero. Ma era una prova, perché poi mi incoraggiò. Avevo deciso di partire dopo la quinta ginnasiale, il babbo però mi disse (dopo aver sentito uno zio sacerdote) che mi avrebbe permesso di partire a 18 anni, dopo la terza liceo. Spero che mantenga la parola.
Le condizioni della mia famiglia sono discrete. Sono figlio unico con tre sorelle ...".
Con questa lettera, scritta nel mese di ottobre del 1924 dal seminario regionale di Fano (Pesaro), padre Pellegrini prende contatto con i Missionari Comboniani.
Il mese dopo si fa portavoce del Seminario stesso presso i Superiori dei Comboniani per la morte di padre Beduschi "il primo missionario che è passato dal nostro seminario e che ha entusiasmato tutti con il suo ardore apostolico".
La risposta dei Superiori fu affermativa. Vincenzo scrisse, con gli auguri di Natale: "Mi sento membro della sua Famiglia, benché per ora solo spiritualmente, ma verrà un giorno che lo sarò del tutto e quello sarà il giorno più bello della mia vita. Se tutto andrà bene potrò entrare nel 1926 quando avrò terminato il liceo".
Nei primi mesi del 1925 padre Abbà passò da Fano, parlò con Vincenzo, con lo zio prete e con il babbo e fece sì che il giovane aspirante potesse entrare ancora in quell'anno. " La gioia che provo in questi giorni - scrisse Vincenzo - non può essere tradotta dalla penna perché solo il Signore la può misurare" (15 aprile 1925).
Terminata la seconda liceo, con la benedizione del papà e con la dichiarazione di buona condotta da parte del Rettore del "Pontificio Seminario Regionale Pio XI di Fano", Vincenzo partì per il noviziato di Venegono Superiore. Era il 9 settembre 1925. Sulla cartella del Rettore, oltre ad un accenno alle difficoltà incontrate per seguire la sua vocazione e alla esemplare condotta avuta negli anni di seminario, si parla delle buone capacità intellettuali dell'alunno e della sua soda applicazione allo studio.
Con l'Africa negli occhi
Vincenzo affrontò il noviziato con impegno, sotto l'amabile e soda guida di padre Bertenghi. "Ha sempre mostrato buona volontà e grande amore alla sua vocazione e all'Istituto; manca un po' di costanza e di serietà. E' un po' sbadato e distratto. Un po' irascibile; è sincero e schietto".
Il giovane aveva i suoi difetti, ma tanta volontà di correggerli per essere un missionario come si deve. In tutte le sue azioni teneva presente l'Africa che lo aspettava, e ciò costituiva una forza determinante per superare le difficoltà della nuova vita.
Il primo novembre 1927 emise i Voti temporanei di povertà, castità e obbedienza che lo consacrarono missionario a tutti gli effetti.
Compiuti gli studi teologici nel seminario di Verona, venne ordinato sacerdote nel Duomo della stessa città il 12 luglio 1931 dal Vescovo Mons. Girolamo Cardinale. Non avendo ancora 23 anni, usufruì di una dispensa per l'età di ben 16 mesi.
Padre Vincenzo fremeva dal desiderio di partire per l'Africa, invece fu inviato a Riccione come insegnante nel seminario missionario di quella città. Vi rimase per due anni con grande gioia dei genitori (papà Augusto e mamma Maria Pieralisi) che andavano a trovarlo con una certa frequenza. Egli, però, continuava ad insistere presso i superiori perché lo lasciassero partire.
Oh sponde d'Africa...!
Il permesso arrivò nel 1933. Padre Vincenzo stesso, nella presentazione del suo libro "Attorno al fuoco con gli Achioli" racconta la partenza dall'Italia e il suo arrivo in Uganda.
"Il 30 luglio 1933 dopo una solenne celebrazione in Duomo, presieduta dal Vescovo Mons. Zaccherini, io lasciavo la mia città nativa di Jesi, in provincia di Ancona, diretto a Genova, ove dovevo imbarcarmi sulla nave "Mazzini" che salpava per Mombasa, nell'Africa Orientale Inglese.
Al termine della cerimonia notai che una ragazza stava bisbigliando qualche parola all'orecchio di mia sorella, volgendo lo sguardo verso di me. Mi accorsi subito che la cosa doveva riguardarmi e allora mi avvicinai a mia sorella per sapere ciò che le aveva chiesto la sua amica. Ed essa mi rispose che le aveva sussurrato: 'Tuo fratello va in Africa? Ma tu pensi che, magro com'è, potrà davvero raggiungere l'Africa?'.
E invece io in Africa non solo dovevo arrivarci, ma vi dovevo trascorrere un periodo di mezzo secolo ('33 - '83). E forse ci sarà anche un'aggiunta".
Questa aggiunta è stata di 5 anni. Viaggiavano con lui padre Alessandro Medeghini e padre Aristodemo Maccagnan.
"Da Mombasa - prosegue padre Vincenzo - per via ferroviaria e per via stradale, dopo una breve sosta a Nairobi e attraversato il Kenya, raggiungemmo l'Uganda. Arrivati a Gulu, che era allora il centro delle missioni comboniane nel nord d'Uganda ove risiedeva il Prefetto apostolico Mons. Antonio Vignato, e il superiore provinciale, fui destinato alla missione di Kitgum, aperta nel 1915, tra la tribù degli Acholi".
La lunga giornata africana
A Kitgum padre Vincenzo rimase per 21 anni, prima coadiutore e poi superiore. Egli diede subito un metodo al suo apostolato. Metodo che egli stesso descrisse più tardi, quando cercò di spiegare ai confratelli perché aveva messo per iscritto gli usi e i costumi locali, che finì per conoscere così bene da diventare esperto per gli stessi Acholi. "Ho cercato senza preparazione scientifica. Ma ero molto interessato, desideravo conoscere sia i costumi che la mentalità della gente. Allora non era come adesso; si stava fuori con la gente fino a mezzanotte, si chiacchierava, sentivo tante cose e le raccoglievo cercando di farmi spiegare ciò che non capivo. Sono stato parroco per tanti anni e ho sempre cercato nella predicazione di utilizzare i proverbi locali che sono pieni di saggezza. La gente apprezzava questo. Ho lavorato molto anche nel campo liturgico. Sono del parere che si fa troppo poco in questo settore. Ci sono elementi locali che andrebbero valorizzati di più... Adesso, però, ho quasi 80 anni e ho già preso l'Estrema Unzione un paio di volte".
Kitgum restò il grande amore di padre Pellegrini. Negli anni 1940 - 1941 il Padre, con gli altri confratelli, dovette subire l'internamento a Katigondo che a lui fu molto utile, come vedremo più avanti. Quando, nel 1954, dopo sei mesi di vacanze a Carraia tra il '48-'49, fu trasferito a Layibi nei dintorni di Gulu, aprì con alcuni fratelli coadiutori comboniani la Scuola Tecnica. Da quel momento ebbe anche l'incarico di "dare un'occhiatina" alla tipografia e alla stampa. Qui padre Pellegrini scoperse un nuovo aspetto della sua vocazione missionaria.
Addetto alla stampa
La tipografia aveva avuto inizio da poco per interessamento di Mons. Angelo Negri, ed era collocata presso la missione, a circa 300 metri dalla cattedrale.
Scrive un confratello: "Io chiamerei padre Ce 'il più grande apostolo della penna tra gli Acholi'. Tantissimo ha scritto su questo popolo e per questo popolo, sempre con anima e cuore di missionario. A Gulu padre Pellegrini avrebbe trascorso il restante della sua vita.
Al suo attivo ci sono diversi libri in acholi, opuscoletti, articoli su varie pubblicazioni (per lo più in acholi e in inglese). Non si contano le traduzioni di parti della Bibbia e altri scritti spirituali e devozionali. Per questa sua attività ebbe anche alti riconoscimenti: per esempio fu insignito di medaglia per alti meriti culturali dal presidente dell'Uganda Dr. Milton Obote. Il l8 maggio 1983 ebbe il certificato di residenza a vita in Uganda. Anche il suo comune di Jesi lo considerò cittadino benemerito in una seduta speciale del 24 settembre 1983.
Padre Romanò scrisse: "Padre Pellegrini, quantunque viva per Kitgum, si è adattato magnificamente nel nuovo posto. E' zelantissimo; difficilmente lo si trova a casa. Ha una vera passione per il ministero. Se ha un difetto è un po' di lentezza nel suo lavoro, se tale cosa è un difetto. Ha uffici svariati: scuola elementare, tipografia, girls school, convento delle suore... eppure trova tempo per molto ministero". E Mons. Cesana: "Padre Pellegrini Vincenzo è un ottimo missionario, attivo, zelante, di criterio pratico, ben voluto dalla popolazione e dai confratelli che amano stare con lui. Sente e vive profondamente la sua vita religiosa e missionaria".
Padre Pasetto ricorda gli inizi della tipografia di Gulu. "Ricordo la gioia di padre Pellegrini all'apertura della piccola tipografia di Gulu e l'apprezzamento per i Fratelli incaricati. Ricordo benissimo i giorni e i mesi della 'Gulu printing press' e ricordo le frequenti visite di Mons. Cesana al quale non pareva vero di potersi ora rendere quasi autonomo per la stampa di libri di scuola, di catechismi, di circolari, di sussidi religiosi, ecc. senza dover ogni momento correre a Kisubi-Kampala. L'inizio della Gulu press fu un grande passo avanti, non solo per la diocesi di Gulu ma per tutta la provincia del nord. L'anima di tanta attività era padre Ce, sempre sorridente, con la sua sigaretta, o mozzicone di sigaretta, tra le dita. Correva su e giù, dalla sua stanza alla tipografia, ad osservare, a controllare, a correggere bozze, ecc. La sua creatura cresceva ed era apprezzata da tutti, specialmente dagli allievi che sotto la guida dei bravi Fratelli lentamente imparavano a comporre, a impaginare, a stampare".
Acuto osservatore
Padre Vincenzo è stato un missionario moderno nel senso che ha saputo incarnarsi perfettamente nella cultura del popolo tra il quale ha lavorato. Questa sua integrazione, impregnata di amore profondo agli Africani, gli ha sviluppato la naturale dote di acuto osservatore.
"Dai primordi del mio apostolato nel vasto territorio degli Acholi - scrisse - percorrevo lunghe distanze a piedi, in bicicletta o in moto, portandomi sempre dietro due quaderni e la matita. Nella tasca destra tenevo il quaderno che riguardava il lavoro apostolico: cristiani e catecumeni con i loro nomi e lo stato delle anime. Nella tasca sinistra quello dove notavo tutto quanto avevo visto, sentito o chiesto alla gente, in modo speciale dagli anziani, a proposito della loro storia, della loro lingua, dei loro usi e costumi e delle loro tradizioni.
Trattare con gli Africani, tanto cristiani che pagani o protestanti, è sempre stata la mia passione. Durante i 18 mesi di internamento a Katigondo ho cominciato a ordinare le mie note e mi ci sono appassionato anche perché si dimostrarono un valido strumento per un apostolato più efficace"
Quello di padre Pellegrini è "un nome" nel campo delle ricerche etnografiche nel nord Uganda. Molti studiosi africani della zona si rivolgevano a lui per consigli e chiarimenti.
Obwo, Opel e Acholi Macon
Nella sua permanenza tra gli Acholi padre Pellegrini si è sentito attribuire tre nomi che la dicono lunga sulla sua attività e sul suo modo di fare con la gente.
Obwo è un vezzeggiativo che gli veniva attribuito dai giovani e dalle mamme quando il Padre era ancora giovane. E voleva significare "imbroglione", nel senso che, dopo essere rimasto tanto tempo con loro, se ne andava in un'altra missione lasciandoli.
Opel era una maniera tutta africana di accorciare o storpiare i nomi, specie se lunghi. Opel, quindi, voleva dire Pellegrini. Era il nome che più di ogni altro si sentiva attribuire.
Acholi Macon ( Vecchio Acholi) era il titolo di un suo libro sulla storia degli Acholi e il nome che il Padre si portò dietro in età matura e che gli veniva attribuito specialmente dalla gente di una certa cultura.
Gli Acholi (ma anche altri popoli) amano dare la stura ai loro sentimenti e ai loro ricordi nelle lunghe sere, mentre se ne stanno seduti attorno al fuoco e con qualcosa da bere davanti. Attorno al fuoco gli anziani usavano aprirsi e raccontavano ai giovani la storia del passato, le loro origini, le loro migrazioni, le guerre con i popoli vicini e le gloriose imprese degli avi. Queste conversazioni costituivano una vera cattedra di insegnamento per le nuove generazioni. Il tutto veniva intramezzato da gustosi canti e balletti di sapore etnico, storico, religioso. Padre Pellegrini partecipava a queste interminabili sedute come un diligente scolaretto, attento a non lasciarsi sfuggire nulla.
Ormai i tempi delle storie attorno al fuoco sono passati anche per gli Africani. Per questo padre Pellegrini resta una pietra miliare, vissuto in un tempo irripetibile nella storia d'Uganda.
Comboniano autentico
Padre Vincenzo Pellegrini ha lavorato moltissimo anche con la penna. Non è un lavoro facile, questo. Ma è il lavoro che ha occupato buona parte della vita di Mons. Comboni. Scrivere in funzione di un apostolato sempre più penetrante, sempre più efficiente. Ciò che lui ha detto può essere ridetto e riascoltato tutte le volte che una persona prenderà in mano uno dei suoi scritti. E chissà per quanto tempo, e chissà per quante volte. "Padre Vincenzo Pellegrini - ha scritto un confratello - è una figura da conoscere, è una figura da imitare. La sua parola e i suoi scritti erano tramite di pace, di serenità, di sicurezza, di grande fiducia in Dio. Chi gli stava accanto esperimentava un raggio della bontà del Signore. Sapeva perdere tempo chiacchierando con la gente, a lungo, con infinita pazienza, con amore, con vero interesse. Per questo fu amato dagli Acholi, e tanto. Ed anche dai suoi confratelli".
Padre Vincenzo aveva la dote di saper collaborare, di gradire e di chiedere l'aiuto degli altri. In ciò si mostrò apertissimo ed esemplare riuscendo a valorizzare chi gli stava vicino e a interessarlo ai problemi che egli trattava. Questo fatto trovava una ragione nel profondo spirito di umiltà che animava questo missionario.
Il grande umorista
Padre Vincenzo aveva anche un'altra dote che lo rendeva simpatico: il senso dell'umorismo, che tirava fuori specialmente nei momenti più tragici, quando bisognava sdrammatizzare le situazioni.
Scrivendo a Mons. Cesana nel 1987 disse: " Dopo una permanenza di 5 mesi in patria, sono tornato alla missione di Gulu. Nella mia parrocchia d'origine il parroco mi ha amministrato, 'coram populo' e di domenica, l'Olio degli infermi per due ragioni: prima, 80 anni con i loro acciacchi mi danno il diritto a questo sacramento. Seconda, dato che in Uganda fischiano le pallottole con una certa disinvoltura, non è impossibile che una di esse, volontariamente o no, venga a farmi sgradita visita".
Il Padre poi accenna ad alcuni avvenimenti che, a un missionario della sua età e con il suo passato alle spalle, non avrebbero dovuto assolutamente accadere.
"Circa un mese fa, durante la notte, gente armata prese di mira la porta della mia stanza a colpi di fucile. Ma sentendo rumori all'interno, i malandrini se la diedero a gambe. All'interno, naturalmente, c'ero io. Peggio ancora fu quello che accadde in cattedrale un paio di domeniche dopo, quando guerriglieri armati, alla messa delle 10, come contorno alla celebrazione del rito dei battesimi, si avvicinarono all'altare sparando come forsennati. Fu solo per la grande calma e sangue freddo della gente se non successe una strage... A buon conto io ho già ricevuto l'Estrema Unzione e sono contento di aver portato le mie ossa in Uganda. Non solo, ma sono predisposto a ricevere anche una pallottola". Questo era lo spirito che animava padre Vincenzo Pellegrini il quale, dopo aver dato tutto, si dichiarava disponibile a donare anche la vita.
Sempre sul suo umorismo ci sarebbe da registrare anche una intervista che il Padre ha rilasciato nel 1987 in occasione del suo settantanovesimo compleanno. Richiesto di raccontare i suoi successi e i suoi insuccessi, egli, con sottile ironia, rispose: "Visto da destra (da me) ho fatto tutto io e gli altri han fatto niente prima e stanno facendo niente adesso. Visto da sinistra (dagli altri) io non ho fatto niente, e se c'è qualcosa di buono l'hanno fatto gli altri. Io, mente corta, non ho capito i segni dei tempi nell'apostolato e in tutto il resto. Le cose che non ho fatto e che potevo fare, chi le può contare? L'apostolato, le scuole, la stampa, le traduzioni?... Tutto per pigrizia e con tanta incompetenza... Di tutto il bene che ho fatto e del male che non ho fatto, in tutta sincerità, davanti a Dio e agli uomini, devo rendere grazie a Dio, ai Confratelli e a tante anime buone che mi hanno assistito".
All'altra domanda, sul come fare per vivere a lungo e bene, ha risposto: "Per vivere a lungo c'è un solo mezzo: non morire prima.
Per vivere bene come Missionari Comboniani, per me c'è un solo mezzo sulla terra: vivere la vita comune come è voluta dalle Regole e, ancor più, come la vuole Gesù per i suoi apostoli. Bisogna superare il fossato tra vecchi e giovani in modo che l'anziano vinca la tentazione di barricarsi nel suo mondo passato rifiutando le novità... e il giovane non rigetti tutto il passato intestardendosi a sbattere il naso a non finire... Oh! la Madonna dell'equilibrio!".
Fino alla fine
Nel 1975 padre Pellegrini dovette mettere il pacemaker per dare una mano al cuore affinché battesse con una certa regolarità e consistenza. L'unico terrore del Padre in quel periodo fu quello di non poter ritornare in Africa. I medici, dopo tanti "distinguo" lo lasciarono partire. Avevano capito che, se lo avessero costretto a rimanere in patria, sarebbe morto prima.
Egli continuò il suo lavoro di sempre con entusiasmo e con grinta. A proposito di grinta è interessante esaminare la risposta a una lettera di un padre generale che si lamentava perché gli pareva che il cristianesimo vissuto in Uganda non fosse genuino (si riferiva alla situazione di odio scatenata dalla guerra). Forse la predicazione dei missionari non era più all'altezza? Pellegrini, sfoderando la sua consueta arguzia, ribatté: "Come mai si può arrivare, in un Paese a maggioranza cristiana come l'Italia, ad approvare il divorzio e l'aborto?
Quale cristianesimo è stato predicato qui in Uganda? Quello che ha prodotto i Martiri dopo sette anni circa dalla venuta dei primi missionari; quello che al nord, tra gli Acholi, ha prodotto gli eroi di Paimol; quello per cui molti dei nostri cristiani soffrirono per la fede al tempo del colonialismo che difendeva i protestanti; e quello per il quale morirono sacerdoti indigeni, cristiani, ufficiali e soldati ai tempi del musulmano Amin. E non parliamo qui dei nostri confratelli che hanno versato il loro sangue...". Insomma, il grande vecchio sapeva dir la sua, eccome!
Ma ormai la sua ora stava per suonare. E sarebbe scoccata quasi all'improvviso. Il Padre, nel giorno dell'Epifania, aveva preso parte alla messa dei due Vescovi e dei missionari per la professione delle Sisters in Cattedrale. Poi andò a pranzo, sempre dalle Sisters. Tornò in missione verso sera. Disse, però, che non si sentiva bene e chiese di essere portato all'ospedale. Qui venne ricoverato e subito soccorso con le cure del caso. Il cuore, pur spinto dal "motorino", si rifiutava di funzionare e il respiro andava e veniva a fatica. Il malato chiese a padre Pizzocolo di amministrargli gli ultimi sacramenti che ricevette in piena coscienza e con intima partecipazione. Verso le 9 di sera chinò il capo e morì con molta serenità, così com' era vissuto.
I confratelli sono concordi nel ritenere che in questa morte abbiano avuto una parte determinante le angherie subite ultimamente dal Padre quando, per esempio, i briganti entrarono in stanza e gli puntarono la pistola alla testa costringendolo a consegnare i pochi soldi che aveva...
I suoi funerali, inutile dirlo, furono un trionfo, un'apoteosi.
Ora padre "Ce" riposa nel cimitero di Gulu accanto ad altri eroici confratelli che dal cielo intercedono per l'Uganda così ingiustamente martoriata. Egli ci lascia l'esempio di un missionario autentico, instancabile e moderno, capace di incarnarsi nel popolo per il quale ha lavorato allo scopo di rendere più "familiare" il messaggio evangelico. P. Lorenzo Gaiga
Da Mccj Bulletin n. 159, ottobre 1988, pp.41-49