In Pace Christi

Corona Filippo

Corona Filippo
Data di nascita : 01/03/1931
Luogo di nascita : Gaggio di Piano MO/I
Voti temporanei : 09/09/1948
Voti perpetui : 09/09/1954
Data ordinazione : 26/06/1955
Data decesso : 22/04/1991
Luogo decesso : Verona/I

P. Filippo Corona era l'uomo dal cuore tenero e sensibile, nascosto, tuttavia, sotto una ruvida scorza; era il sacerdote che visse fin dall'infanzia all'ombra della sofferenza; era il missionario che ha dovuto fare sempre ciò che non avrebbe mai voluto fare, ma che lo ha fatto bene per genuino spirito di obbedienza.

Solo dopo la sua morte, e dopo aver considerato la sua vicenda terrena, si è capito chi era p. Corona e il perché di alcuni suoi comportamenti. Contrariamente ad ogni apparenza, era estremamente bisognoso di affetto lui che, fin da piccolo, non ne aveva mai avuto. Ma si è guardato bene dal manifestare questa sua esigenza per il timore di restare ancora una volta deluso.

Colui che non poteva deluderlo in questo settore era Dio. Ecco allora la ragione della ricchissima antologia di brani che egli ha scelti, scritti e selezionati quasi esclusivamente sulla tenerezza di Dio per l'uomo. Se è lecito esprimere un augurio è che questi brani (undici quaderni) possano un giorno venir pubblicati a conforto di coloro, e sono molti, che hanno bisogno di sentirsi amati e che magari sono tentati di rivolgersi su strade non confacenti con la loro scelta di vita.

Ma cominciamo con un fatto che ha dell'incredibile. La mattina del 26 giugno 1955, p. Filippo Corona veniva ordinato sacerdote nel duomo di Milano dall'arcivescovo mons. Montini. All'uscita del duomo, un giovane chierico della congregazione di don Orione, che era tra la piccola folla dei parenti e degli amici dei neo ordinati si avvicinò a un comboniano e gli chiese che gli indicasse il p. Filippo Corona.

"Chi è lei?", chiese l'interpellato.

"Mi chiamo Germano. Sono suo fratello".

"Suo fratello? E non conosce p. Filippo?".

"Ci siamo separati fin dalla prima infanzia e poi non ci siamo più visti. Io studio presso i sacerdoti di don Orione, lui invece ha preferito i Comboniani, così non ci siamo mai incontrati".

Incredulo, il comboniano prese il giovane studente di teologia per mano e lo condusse da p. Filippo.

Una storia di sofferenza

A questo punto lasciamo la penna al fratello di p. Corona, don Germano dei sacerdoti di Don Orione. Ci servirà a capire meglio il carattere di p. Filippo.

"La mia famiglia è un po' sui generis: molto unita sul piano degli affetti e degli ideali, molto divisa dalle vicende storiche che l'hanno coinvolta. Papà Bruno rimase vedovo a 24 anni, quando già la sua famiglia di origine era stata colpita da due gravissimi lutti. La corriera di linea finì in un canale e, tra i morti, ci furono il nonno e lo zio, rispettivamente papà e cognato di papà, che erano il sostegno della piccola ditta familiare di costruzioni.

In una frazioncina, qual era il mio paese, gli affari si facevano sulla parola e, alla scomparsa dei due, come era prevedibile, i creditori si accanirono subito e i debitori si guardarono bene dall'onorare il loro impegno.

Mio padre, 20 anni, e suo fratello di poco più anziano, dovettero svendere tutto per far fronte alle richieste e fu in pratica, se non la miseria, qualcosa di simile.

Nel 1931 nacque mio fratello Filippo e, nel 1932 venni al mondo io ma, colmo delle disgrazie, la mamma, Zini Maria, dandomi alla luce, morì. A questi lutti se ne aggiunsero altri ugualmente gravi: la morte delle zie paterne, una di 17 anni e un'altra di 33, che in qualche modo avrebbero potuto seguirci al posto della mamma. Una di queste zie aveva rinunciato alla sua vocazione religiosa per prendersi cura di noi.

Fu così che Filippo, quando aveva due o tre anni, venne preso dalla nonna, ed io - appena nato - dopo aver fatto il giro di chissà quante balie, passai alla sorella di questa. Filippo vicino a Modena, io a Parma. Soltanto per sentito dire sapevamo di avere un fratello.

Giunti all'età scolare, finimmo in due istituti diversi perché nostro padre, oltre a non poterci accudire, come muratore non trovava in Italia un benché minimo lavoro e dovette emigrare in Germania. Aveva si e no una trentina d'anni.

Filippo venne accolto nell'istituto Paride Colfi di Saliceta San Giuliano (MO), io portato a Magreta, nell'istituto gestito dall'Opera Don Orione.

Grazie a Dio i miei sono stati cristiani praticanti e la vocazione, sia di noi due, sia di un nostro cugino, figlio di una sorella del babbo rimasta vedova a causa dell'incidente della corriera, sentimmo la vocazione sacerdotale. Il primo ad andare in seminario fu don Lidio, il cugino, poi Filippo, poi io". Fin qui don Germano.

A proposito della religiosità della famiglia, un giorno fu chiesto a papà Bruno come ha reagito a livello di fede di fronte a tutte quelle disgrazie. La sua risposta fu questa: "Ho capito che era allora il momento di aver fede".

Un'altra volta gli è stato chiesto perché, rimasto vedovo a 24 anni con due bambini piccoli, non ha pensato di risposarsi. Ha risposto: "Non ho mai capito chi, dopo aver amato veramente una donna, possa amarne un'altra".

Mamma Maria, a detta del papà, era un'autentica santa "di fronte alla quale c'è solo da inchinarsi e pregare".

"Il papà non sempre aveva il denaro per andare a trovare i figli sparsi per l'Italia - prosegue don Germano - perché i muratori si fermavano con la cattiva stagione e, allora, non esisteva la cassa integrazione. Per sopravvivere, dovevano fare i salti mortali. Lui aveva perfino imparato a fare la maglia. In compenso ci inseguiva con le sue lettere traboccanti affetto e saggi suggerimenti".

Baci e bastonate

P. Corona è stato per un paio d'anni revisore dei conti dell'Associazione Amici di Raoul Follereau. In quel periodo andava spesso da Verona a Bologna in compagnia di un altro confratello che era direttore del giornale Amici dei Lebbrosi. Tra i due ci fu sempre una grande e sincera amicizia. Ebbene, quando si faceva il tratto di autostrada tra Modena e Bologna, ad un certo punto appariva lontano tra i campi, sulla sinistra, una specie di cupola ottagonale. P. Filippo guardava con interesse quel fabbricato e diceva che molto probabilmente era il collegio dove aveva trascorso i suoi anni giovanili.

"Vorrei proprio andare a vedere che cosa c'è là dentro - disse un giorno. - Forse ci sono ancora quelle terribili suore".

"Racconta, racconta", insisteva l'altro.

"Furono anni terribili. La superiora era una mezza isterica che ci comandava a colpi di manico di scopa sulla schiena. E noi, come cani randagi costretti nel canile, ci limitavamo a guaire senza poter dire una parola. Si capisce, eravamo lì quasi per carità. Ricordo le domeniche d'inverno, quando le suore, per non perdere l'unica messa che veniva celebrata alle cinque del mattino, ci tiravano giù dal letto (non potevamo restare incustoditi e dovevamo ascoltare la messa) e ci portavano quasi di peso in chiesa. E lì, sui banchi, intabarrati e ancora addormentati eravamo tenuti svegli dai pizzicotti della superiora. Veramente, fra tanto squallore, c'era una suora veneta che era buona e, di nascosto dalla superiora, ci dava qualche bacio consolatorio. Le facevamo proprio pena... Qualche volta veniva sorpresa mentre ci accarezzava o ci gratificava con qualche segno di affetto, cosa giudicata peccaminosa, e allora doveva pagarla cara.

Siccome colei che contava, per noi, era la superiora, ti assicuro che quell'esperienza mi ha lasciato il segno, per cui non ho mai più potuto vedere le suore. Capisco che questa avversione non è giustificata, ma ormai è cresciuta con me e non c'è niente da fare".

Così, tra pochi baci e molte bastonate, il piccolo Filippo formò il suo carattere. Un carattere duro, diretto all'essenziale delle cose, dove non ci doveva essere posto per i sentimenti umani. Questi, però, era il Filippo esterno. Dentro, appena sotto la scorza, palpitava un cuore tenero e sensibile. Tenerezza e sensibilità ereditate dai genitori, e consolidate, per la legge degli opposti, proprio in quell'ambiente da lager.

La vocazione

Fortunatamente, nel piccolo mondo di Filippo la parte delle antipatiche era riservata esclusivamente alle suore, non ai preti. "Anzi - disse in uno dei soliti viaggi Verona-Bologna - colui che ci dava un po' di coraggio e di fiducia era proprio il sacerdote che veniva a confessarci e a celebrare messa. S'intratteneva con noi piacevolmente, ci consolava; insomma si vedeva benissimo che ci voleva bene e che se avesse potuto ci avrebbe tirati fuori da quel posto".

Terminate le elementari, Filippo manifestò l'idea di farsi sacerdote. Papà Bruno accolse la notizia con gioia e disse al figlio che quello era un dono della mamma che, dal cielo, stava operando efficacemente per il suo maggior bene. In seguito, questo "dono" si rinnovò anche per il fratello Germano. Il povero muratore stagionale, intensificò i suoi sforzi per pagare la retta, cosa che fece con estrema regolarità anche se solo il Signore sa quanto gli sia costato.

Il primo ad entrare nel seminario minore di Modena (si trovava a Nonantola) fu il cugino Lidio. Per Filippo, quindi, la strada era abbastanza appianata. Filippo affrontò le medie e il ginnasio con molta disinvoltura e senza applicarsi troppo negli studi. Si scoprì, infatti - e i superiori ne presero atto - che il ragazzo aveva un'intelligenza molto superiore alla media. Ma questo non lo spinse ad impegnarsi, anzi, favorì in lui un po' di lazzaronaggine. Essendo privo di orgoglio, Filippo diceva: "Mi accontento di farcela". E siccome ce la faceva solo ascoltando i professori in scuola, lo si vedeva poco alle prese con i libri scolastici durante le ore di studio, preferendo altri libri di cultura generale.

Come si usava una volta, i missionari andavano a scaldare gli animi facendo visite anche ai seminari diocesani. Filippo, dopo la conferenza di un missionario, si entusiasmò talmente che, terminato il ginnasio, chiese di entrare tra i Comboniani'.

La prima di una lunga serie di lettere scritte ai Comboniani è indirizzata a p. Giacomo Andriollo. In essa Filippo così si esprime: "Sono un seminarista di quinta ginnasiale che desidera ardentemente entrare nella vostra congregazione". Tutto qui. Poi passa a chiedere spiegazioni sul corredo e altre cose secondarie.

I superiori, volendone sapere di più, si fecero raccontare la sua storia. Così Filippo narrò per tratti essenziali e precisi ciò che già sappiamo della sua vita. Aggiunse anche che: "Il babbo non fa alcuna difficoltà. Riguardo agli studi sono sempre andato discretamente e non ho mai ripetuto. Ho passato le elementari in collegio e il ginnasio in seminario. Riguardo alla vocazione, da oltre due anni penso di abbracciare la vostra congregazione. Ho parlato col p. Enrico Farè e ho scritto a p. Giacomo Andriollo".

Colpa dell'indigestione

Agli esami di quinta ginnasio in seminario fu promosso. I superiori, però, gli fecero fare anche quelli di Stato. E qui fu rimandato in francese e in matematica.

La spiegazione di questa bocciatura la dà il rettore del seminario: "Filippo, per essere più vicino alla sezione d'esami, andò a casa sua. Ma, proprio la mattina degli esami, si trovava febbricitante per una forte indigestione di angurie e di meloni. Tuttavia volle tentare lo stesso e, logicamente, gli andarono male". Poi il canonico Ottavino Pilati, rettore del seminario di Nonantola, aggiunge il suo giudizio sul giovinetto. Eccolo:

"Ha un carattere vivace, un po' ardente, ma buono, sensibile, aperto. Però disordinato in tutto.

Come virtù è stato ben custodito ed èdelicato. La condotta morale è buona. La sua abitudine ad essere trasandato lo porta a non impegnarsi nella scuola per cui il profitto deriva esclusivamente dalla sua intelligenza non comune e pronta. Con fatica pone quella diligenza che sente non occorrergli. Se gli esami di matematica e di francese gli sono andati male, lo si deve un poco al suo contegno facilone, e molto all'indigestione. Tuttavia credo che potrà fare una buona riuscita".

Agli esami di riparazione, in settembre, fu promosso e allora si affrettò a scrivere: "Non vedo l'ora di venire con voi per poter essere un santo missionario. Finalmente il mio sogno si sta avverando davvero".

Il 7 ottobre 1946, Filippo fece la sua entrata nel noviziato di Venegono Superiore (Varese), dove maestro era p. Antonio Todesco. Nel 1947 i Comboniani acquistarono dai Gesuiti la casa di Gozzano e, all'inizio del 1948, cominciò a funzionare come noviziato col maestro p. Giordani (p. Todesco era diventato Generale) per lasciar libero Venegono agli studenti di teologia.

"Ancora bambino e quindi distratto e superficiale - scrisse p. Todesco di Corona - tuttavia di buona volontà, generoso e fortemente attaccato alla sua vocazione".

"Va avanti a strappi e ha bisogno di essere ammonito o rimproverato per mettersi d'impegno. Tiene duro un mese, poi siamo daccapo. Lui vuol farsi missionario e questo amore alla vocazione lo salva. Anzi, sta facendo di tutto per attirare altre vocazioni dal suo seminario" (p. Giordani).

P. Corona parlò più volte con qualche amico di questa sua difficoltà ad ambientarsi in noviziato. Egli voleva farsi missionario, andare in Africa, predicare, battezzare, incontrare la gente. Il fatto che i Comboniani fossero anche religiosi e che nel noviziato si insistesse su questa caratteristica, quasi dimenticando l'altra, non gli andava proprio.

Alla vigilia dei primi voti, p. Giordani era ancora perplesso. "Rappresenta la pecora che sbanda dal resto del gregge. Ha avuto dei brevi periodi in cui si metteva d'impegno, poi tornava a lasciarsi sopraffare dal suo carattere. Ora, per esempio, dopo l'esercizio di correzione che è durato tre giorni, è un agnellino. Però deve averne fatta di strada se un suo compagno di seminario afferma che se a Modena vedessero Filippo come è oggi, non lo riconoscerebbero più, tanto è migliorato. Io dico che ha ancora molti gradini da salire".

Il 9 settembre 1948 emise la professione temporanea a Gozzano e poi partì per Verona dove frequentò il liceo che coronò con gli esami di Stato.

Assistente dei ragazzi

All'inizio della teologia Filippo fu inviato a Crema come assistente dei ragazzi. Sembra strano che un tipo come lui, piuttosto disordinato e rude, sia stato mandato a far quel mestiere. Eppure, chi è stato con lui afferma che fu bravissimo. Il segreto era il grande amore che aveva per la vocazione missionaria incarnata in quei ragazzi, e la terribile esperienza della sua infanzia senza amore. Abbiamo già detto che sotto la scorza dura Filippo aveva un cuore tenerissimo e sensibile. Lo dimostrò appunto con i ragazzi di Crema.

Negato per il canto (era stonatissimo) suppliva con l'organizzare commedie e recite che contribuivano a tenere alto il morale dei seminaristi. Anche nei giochi dimostrò una straordinaria inventiva. E poi era uno sportivo fatto e finito. Conosceva il nome delle squadre, dei giocatori e di tutto quanto concerne il calcio e le corse in bicicletta. I ragazzi erano felici di ascoltarlo e di lasciarsi entusiasmare da lui.

Bisogna dire che aveva molto tempo a disposizione perché, anche per la scuola di teologia, gli bastava la spiegazione dei professori. P. Luigi Penzo, che è stato professore di teologia per qualche tempo a Venegono, e ha avuto sotto di sé anche p. Corona, afferma: "Ricordo l'attenzione con cui Filippo seguiva le lezioni. Non gli scappava una parola, fissando continuamente l'insegnante per cui, grazie alla sua formidabile memoria, riteneva tutto senza bisogno di ricorrere ai libri. Naturalmente ciò impegnava i professori ad essere ben preparati e a non tralasciare una parola di ciò che gli studenti dovevano sapere".

La sentenza del "Gran Consiglio"

Sempre p. Penzo racconta un altro episodio della vita di Corona. Come abbiamo già visto, aveva un modo piuttosto sbrigativo di esprimersi, era sicuro delle sue idee e le esprimeva con il suo vocione che non ammetteva repliche. Tra i professori c'era anche p. Sassella, un uomo non troppo tenero con gli studenti e, in particolare, con "quel Corona" che ne sapeva sempre una pagina più del libro. Ed era vero, perché Corona leggeva moltissimo, in particolare libri di teologia di probati auctores.

Ebbene, un giorno venne a diverbio proprio con Sassella su una questione controversa. Sassella non cedeva, l'altro non mollava adducendo a sostegno delle proprie ragioni fior di autori approvati dalla Chiesa. Gli animi si accesero, le voci si alzarono di tono, la scolaresca assisteva muta al dibattito con un malcelato senso di soddisfazione per via di quell'innato gusto per la lotta che si nasconde in ogni uomo.

In classe sembrava essersi scatenata l'ira di Dio, finché il suono del campanello portò la disputa nel corridoio. Ma la cosa non finì lì. Il professore, toccato nel suo prestigio, sostenuto da qualche altro che con Corona aveva pur avuto qualche dibattito, convenne che era ora di farla finita. Tanto disse e tanto fece che fu radunato il "Gran Consiglio" dei professori e dei formatori per vagliare il caso e per prendere, se era opportuno, anche una drastica decisione.

P. Penzo era presente. "Dopo un'animata discussione - afferma - le cose per Corona si mettevano male. La maggioranza dei professori era propensa a espellere 'quell'insubordinato che stava compromettendo il buon andamento della scuola e la serenità dello scolasticato'. Ciò era, evidentemente, una esagerazione.

Ma ecco che a questo punto intervenne p. Costante Franceschin, p. spirituale dei teologi, il quale aveva lasciato che tutti si sfogassero. Egli, con la sua solita calma, equilibrio e serenità, chiese la parola. "Il modo di fare di Corona - disse parlando sotto voce e adagio, ma in modo che le parole penetrassero come la pioggerellina di marzo in quelle teste surriscaldate - il modo di fare di Corona, ripeto, è solo fumo, solo crosta, solo apparenza. Dentro è tutto diverso, tutto un'altra cosa. Se voi mandate a termine la decisione che avete presa, priverete la Chiesa di un ottimo sacerdote e la Congregazione di un bravissimo missionario che farà tanto bene. Invito ognuno a meditare sulla responsabilità che si assume". E si sedette.

"Anch'io - afferma modestamente p. Penzo - condivisi l'opinione del p. spirituale. Qualche altro fece notare che, se uno ha ragione, ha ragione, e bisogna dargliela mettendo da parte i propri pur lodevoli punti di vista. Inoltre nelle diatribe vale sempre il principio di fisica che afferma "ad un'azione corrisponde una reazione uguale e contraria". Sassella capì l'antifona e, da uomo virtuoso qual'era, sciolse il Consiglio e non si parlò più del fatto.

La crisi

Abbiamo già accennato al dualismo che esisteva in Corona quanto a vita missionaria e vita religiosa. Egli aveva lasciato il seminario affascinato dalla prima, senza neanche sapere che per essere missionari comboniani bisogna anche abbracciare la vita religiosa. Ciò fu sempre motivo di una certa inquietudine per cui, ad un certo punto, sentì il bisogno di chiarire definitivamente la faccenda con un discernimento serio.

Per farlo nel modo migliore possibile, chiese di fare il mese ignaziano. Cosa che gli fu concessa con molto piacere da parte dei superiori e dei professori nel febbraio del 1953. Recatosi presso i Gesuiti di Lonigo (Vicenza), si mise sotto la direzione di p. Leone Rosa SJ., uomo di grande spirito. Filippo si impegnò a fondo seguendo le regole di sant'Ignazio.

Alla fine p. Rosa scrisse ai superiori che "il carissimo fr. Corona ha fatto con impegno gli esercizi e con notevole frutto". Poi aggiunge: "Il mio parere nei riguardi della vocazione è positivo anche quanto a vocazione religiosa. Penso che debba essere dispensato, almeno per un periodo, da incombenze speciali per avere a sua disposizione, nel pomeriggio, un po' di tempo per l'orazione".

Risolto il problema di fondo, Corona non tornò mai più sull'argomento e proseguì imperterrito per la strada religioso-missionaria intrapresa. Non è detto che gli esercizi abbiano modificato il suo carattere se, alla vigilia dei voti perpetui, p. Rizzi, allora superiore provinciale, scrisse: "Manca molto al silenzio, ha un'obbedienza senza convinzione avendo ragioni sue proprie che lo convincono del contrario, però obbedisce solo per motivo di fede; è portato a sentenziare e ciò perché poco si adatta a tanti modi di pensare e di agire contrari alle sue idee".

P. Baj, superiore di Venegono, più sobriamente scrisse: "Comportamento troppo dimesso. Usando buoni modi si ottiene da lui qualsiasi cosa perché è buono e generosissimo".

Il 26 giugno 1955 venne ordinato sacerdote nel duomo di Milano.

Una strada controvoglia

Ormai conosciamo il desiderio intenso di p. Corona di partire al più presto per la missione. La missione era stata la molla che lo aveva tolto dal seminario di Modena e lo aveva fatto entrare tra i Comboniani. Invece, appena sacerdote, dovette tornare a Crema come insegnante di latino, greco, francese, storia e geografia. Ciò dal 1955 al 1958.

Dal 1959 al 1960 fu a Brescia, sempre come insegnante di latino, italiano, matematica e disegno.

Contemporaneamente i superiori lo obbligarono a laurearsi in Economia e Commercio presso l'Università cattolica del Sacro Cuore di Milano. Con tutta quella scuola, come abbiamo visto, il 23 febbraio 1960 gli venne conferita la laurea.

Dal 1960 al 1961 lo troviamo nel liceo comboniano di Carraia come insegnante di matematica e di storia. Ormai era terrorizzato, ma rassegnato. "Devo fare ciò che non avrei mai voluto fare", disse. Tuttavia non si perse d'animo e i suoi ex alunni lo ricordano sempre gioioso e contento. Al sabato e alla domenica, in tutte le case dove è stato, doveva prestarsi per le giornate missionarie perché quei giovani, oltre che di istruzione, avevano bisogno di cibo sano e abbondante.

L'amara esperienza di Khartum

Finalmente, nel settembre del 1961 fu inviato a Londra per imparare l'inglese. "Meno male - disse - la missione si avvicina".

Missione, sì, ma nel Comboni College di Khartum come insegnante di matematica, storia, geografia e ragioneria. Fu un'esperienza amara. Di quel periodo scrisse: "A Khartum mi sono trovato malissimo perché ritenevo e ritengo che il Comboni College è spropositato ai fini che si vogliono raggiungere; e in pratica chi non sente quella missione come missione si sente tradito nella sua vocazione missionaria".

L'obbedienza, dunque, si era trasformata in tradimento della sua vocazione. Era la sua opinione personale. Tuttavia i superiori non potevano più fare orecchie da mercante. A p. Corona occorreva una vera missione.

In Brasile

Il 5 novembre 1964 poté imbarcarsi per il Brasile ma, destino crudele, fu assegnato alle Scuole Magistrali di Ibiraçù come direttore e professore di matematica, inglese, scienze e religione (1964-66).

Solo col primo gennaio del 1967 poté finalmente respirare, sentendosi assegnato alla parrocchia di Campo Erè come superiore e parroco. Solo per due anni. E furono i due anni più belli della sua vita.

Scrive p. Sorio: "Sono stato qualche mese a Campo Erè, stato di Santa Caterina, dove p. Corona era stato inviato per dare inizio a un seminario minore comboniano. Dopo di lui sono passati di là vari dei nostri ma il nome che tornava sempre sulla bocca della gente con grande stima e simpatia, dopo tanti anni, era quello di p. Filippo Corona. Nonostante l'apparente durezza di carattere, si rese subito amico visitando le famiglie ad una ad una e interessandosi ai loro problemi. Ricordavano la sua saggezza e il suo buon cuore.

Capitolare ed economo

Che p. Corona si sia guadagnata in breve tempo la stima dei confratelli in Brasile, lo dimostra il fatto che, dopo appena tre anni di presenza in quella terra, fu eletto capitolare al Capitolo del 1969.

Appena espletato il suo compito, si affrettò a tornare a Ibiracù dove venne eletto membro del Consiglio provinciale e membro del Consiglio generale per l'economia.

Dopo un anno di quella vita che lasciava un certo margine al ministero sacerdotale, venne trasferito a São Paulo con l'incarico di economo provinciale. Vi rimase per 7 mesi. Poi, altro colpo in testa: fu richiamato in Italia per ricoprire la carica di economo provinciale. Vi resterà per 10 anni, fino al 1982.

I confratelli del Brasile, al sentire che p. Corona doveva partire per l'Italia, insorsero. Il Consiglio provinciale scrisse una lettera alla Direzione generale con copia al provinciale d'Italia, nella quale si sottolineava la necessità che p. Corona restasse in Brasile. E portavano una serie di motivazioni molto valide. Evidentemente non furono valide abbastanza se p. Corona dovette fare le valigie e partire. Anche questa volta lo spirito di obbedienza ebbe il sopravvento.

Era il tempo delle gatte da pelare

La provincia italiana stava attraversando un periodo tutto particolare per cui occorreva un economo provinciale che avesse una memoria di ferro per tenere a mente la valanga di leggi e leggine che lo Stato emanava a getto continuo, e avesse la competenza di applicarle. Ecco alcuni scogli che bisognava superare: c'era l'obbligo dell'imposta IVA, dei nuovi formulari dei conti correnti postali, delle nuove esigenze delle poste per la spedizione della stampa. Inoltre i Comboniani stavano per sostituire il sistema di contabilità tradizionale con quello computerizzato e poi c'era l'altro grosso problema della chiusura della Tipografia Nigrizia per trasformarla in una cooperativa sotto la piena responsabilità dei dipendenti.

Quest'ultima faccenda aveva dei risvolti umani perché si correva il rischio di mettere sulla strada 150 dipendenti. P. Corona prese in mano la situazione con calma, con competenza, con equilibrio. Non tutti avevano fiducia nella nuova cooperativa; bisognava convincerli, aiutarli, spronarli; cose che p. Filippo riuscì a fare in modo egregio.

Qualche impiegato fece causa ai Comboniani, ritenendosi leso nei suoi diritti. I Comboniani persero regolarmente le cause perché, a detta del giudice, si era in tempi in cui il dipendente aveva sempre e comunque ragione nei confronti del datore di lavoro. Corona non si perse d'animo, tutt'al più ricordò a qualcuno che stava letteralmente rubando quei soldi alle missioni.

Scrive fr. Benetti, allora direttore dell'Ufficio Nigrizia: "Rimasi stupito di lui per tre cose: una scorza rude, un cuore tenero e una competenza non comune nei problemi economici. Siccome Corona aveva la responsabilità economica anche del settore animazione missionaria, mi trovai a mio agio nel trattare con lui soprattutto per la sua rettitudine. Non era un poeta, né un fantasioso o amante dei rischi. Uomo di una fredda concretezza, a volte cocciuto, giudicava le cose senza tener conto di troppe attenuanti. Però io l'ho visto profondamente umano e comprensivo. Cito il caso di alcuni nipoti che avevano costruito la casa sul terreno che lo zio aveva lasciato ai Comboniani. Un legalista avrebbe applicato la legge e basta. Invece Corona disse: 'Dobbiamo tener presente che quei nipoti hanno assistito con amore lo zio ammalato fino alla morte. E' giusto che lasciamo a loro il terreno dicendo che, se vogliono, diano quello che credono alle missioni per onorarne la memoria'. Non cedeva ed era duro, invece, quando si trattava di capricci o di cose poco chiare. Da inesorabile e freddo calcolatore, esigeva le cose giuste e limpide dall'inizio alla fine".

Obbedienza e sofferenza

Molto spesso si trovò in disaccordo con i superiori quanto alla gestione del denaro. Faceva sentire le sue ragioni con forza, ma quando essi avevano deciso, egli non ribatteva più e non tornava sull'argomento. "Io sono solo amministratore - diceva - le decisioni finali spettano a loro e io le rispetto anche se sono convinto che sono sbagliate".

Pur maneggiando tanti soldi, era di una povertà estrema. Si muoveva per la città sempre in bicicletta e, per gli spostamenti più lunghi, usava i mezzi pubblici. Per anni prestò la sua opera dalle ore 20 alle 22 e 30 come portinaio e telefonista di Casa Madre. "E' un aiuto che posso dare e lo dò volentieri", diceva. Nella saletta della portineria, alla sera, si radunavano alcuni confratelli che, pur vedendo la televisione, potevano anche chiacchierare. In altri luoghi, invece, la televisione era più che il Santissimo esposto quanto a silenzio e raccoglimento dei "fedeli".

"Questo è tempo di ricreazione - diceva Corona, responsabile della portineria in quelle ore - se non si può neanche dire una parola con i confratelli, che ricreazione è?". E lì si radunavano coloro che la pensavano come lui.

Nonostante il lavoro poco spirituale che faceva, era un uomo di alta spiritualità. Si alzava presto al mattino per pregare, e anche durante il giorno faceva qualche visita in chiesa, extra quelle di regola. Inoltre sapeva dare buoni consigli ai confratelli e li dava in modo che fossero bene accolti. Dirò di più, qualcuno si sedeva vicino a lui per avere un inesorabile correttore che lo aiutasse a camminare nella via della virtù.

Un giorno, un confratello ricevette una grossa offerta con l'obbligo di mandarla a un missionario in missione. Questi andò da Corona e gli disse:

"La manderei al tale che mi ha fatto sputar sangue quando era qui a Verona, così vedrà che sono più nobile di lui".

"No, caro mio, non ci siamo - rispose Corona - se vuoi essere cristiano, solo cristiano, gliela mandi senza dire che sei tu a spedirla".

Così fu fatto. Solo che il Procuratore, contrariamente all'accordo, notificò al missionario il nome di chi gli aveva consegnato l'offerta. Il missionario si affrettò a scrivergli una lettera di ringraziamento e di scuse, ristabilendo in questo modo la pace.

Nel tempo in cui fu a Verona, p. Filippo fu provato anche dalla sofferenza. Primo, una dermatite contratta in Brasile che gli procurava un prurito tremendo dalle caviglie alle ginocchia; secondo, un calo di voce per cui divenne quasi incapace di farsi intendere, lui che aveva un vocione così poderoso. Quest'ultimo disturbo, resistente a cure di ogni genere e dalla natura indecifrabile, lo preoccupò molto, anche se egli faceva finta di non badarci. Finalmente, dopo tanto tempo, fu scoperto il polipo che gli legava le corde vocali. E andò da solo, in bicicletta, a farsi operare ambulatorialmente a Borgo Roma con discreto risultato.

Fu anche operato alle vene varicose nelle gambe, anche se continuarono a disturbarlo fino alla morte. Intanto un osso del piede cominciò a crescere deformandogli l'estremità per cui doveva calzare esclusivamente sandali o scarpe ortopediche. Ma siccome queste costavano troppo, approfittava di quelle ordinarie e le faceva allargare, se era possibile.

A Verona lottò sempre anche per la linea di Nigrizia. Temeva - e lo scrisse ai superiori - che certe affermazioni danneggiassero i confratelli che lavoravano in missione. La sua lotta, tuttavia, fu sempre condotta con senso di simpatia e di benevolenza per i confratelli a ciò incaricati. Scrive p. Boscaini, per anni direttore di Nigrizia: "Spero che dal cielo mi mandi qualche benedizione. Non gli ho mai voluto male, anche perché ne sono incapace. E rimango convinto che gli piacesse, comunque, scambiar parola anche col sottoscritto benché corrotto da Nigrizia. Sai che p. Volpi ci presentava Filippo come esempio da imitare quando eravamo giovani liceali a Carraia?".

Per il Piemme Corona redasse per molto tempo la rubrica sportiva "per ragazzi". Se ne intendeva e metteva giù delle cose molto interessanti che, insieme allo sport, davano validi suggerimenti di vita, ricavati appunto dal comportamento degli sportivi.

Fuga in Messico

Dopo 10 anni come economo provinciale, Corona non ne poteva più. Oltre a non condividere certe scelte, tuttavia sempre eseguite in spirito di obbedienza, sentiva impellente il richiamo della missione. I superiori lo avrebbero rimandato in Brasile, dove era richiesto, ma quella dermatite che si risvegliava particolarmente quando il clima era umido, lo fece optare per il Messico. "Imparare una nuova lingua non fa problema", scrisse al generale.

Ed ecco che il primo settembre 1983, dopo aver dato l'addio a papà Bruno che faceva il portinaio presso l'Istituto Don Orione di Roma, partì per il Messico. Per l'occasione gli fu regalata una macchina fotografica. "E' una spesa inutile, per me che di foto non me ne intendo, ma non si può rifiutare un dono". Si trattava di una macchinetta di poco prezzo, completamente automatica per cui bastava schiacciare il bottone per aver foto discrete.

Dopo quattro mesi, si vide p. Corona riapparire in Italia. Cosa era successo?

Come Comboni

Il cardinal prefetto di Propaganda Fide chiese al p. generale dei Comboniani p. Filippo Corona come capo ufficio dell'Amministrazione dei beni di Propaganda e responsabile del personale dell'ufficio stesso.

Per Corona questa richiesta fu una martellata in testa. Insomma, era proprio destinato a invecchiare tra le carte e i conti? E per un attimo gli sembrò che tutta la sua vita missionaria si fosse risolta in un fallimento. P. Calvia, al quale sinceramente dispiaceva perdere un uomo valido sul campo, gli ricordò l'esempio di mons. Comboni "che si teneva sempre molto propenso ad obbedire agli ordini di Propaganda Fide. Qui si tratta - prosegue Calvia - di una domanda che mi viene dai più alti livelli. Io stesso sono stato interpellato dal Cardinale e da mons. Lourdusamy, quindi non ho nessun dubbio che la richiesta venga dagli organi più alti cui la nostra Congregazione deve speciale obbedienza. Questo spirito di obbedienza mi obbliga, o almeno mi spinge, a domandare a te il sacrificio di una scelta che era da parte tua del tutto legittima, quella di lavorare direttamente nell'attività missionaria".

L'ambiente di Propaganda, dove bisognava curare una certa etichetta e praticare la diplomazia, non si addiceva a un tipo come Corona che era stato giudicato da tutti "trasandato" e semplice. Le carte, i conti, i rapporti con persone particolari, il vivere in un ambiente dove anche l'apparenza ha la sua importanza fecero sentire ancora di più il richiamo della missione con la sua semplicità di vita, la spontaneità della gente e la mancanza di certi formalismi che mettono le manette ai polsi agli individui che amano essere se stessi. Per cui, dopo due anni di quella vita, approfittando del nuovo orario che gli avrebbe imposto un viaggio al mattino e uno al pomeriggio per portarsi sul luogo di lavoro, p. Corona chiese le dimissioni, adducendo ragioni di salute. "Vedi - disse ad un amico - per vivere in certi ambienti bisogna esserci tagliati. Io non lo sono di sicuro e, se continuo così, finirò per ammalarmi... Ce ne sono tanti che sanno fare questo mestiere meglio di me e che magari sono anche contenti. Propaganda Fide può pescare in tutte le Congregazioni missionarie di questo mondo".

Il card. Tomko in persona, prefetto di Propaganda Fide, invitò il p. generale a convincere p. Corona a ritirare le dimissioni. E aggiunge: "Desidero subito rendere noto alla Paternità Vostra che p. Corona gode la mia piena stima e fiducia, perché nel suo pur breve tempo del duro servizio, ha dato prova convincente di lealtà, dedizione, competenza ed anche di modestia".

Di fronte a tanta insistenza, p. Corona dovette piegare la schiena e fare di necessità virtù, ottenendo tuttavia di fare orario continuato dal mattino fino alle 14.

La miniera d'oro

Gli anni di Roma, portati avanti nel segno della più genuina e costosa obbedienza, non mancarono di portare a p. Corona frutti meravigliosi di spiritualità. Egli, che per un periodo ebbe anche l'incarico di economo della casa, viveva piuttosto solo avendo gli orari sbilanciati a causa del suo lavoro. Praticamente si trovava con i confratelli solo durante la cena. Dopo, infatti, tutti, o quasi, si sedevano davanti al televisore per sentire le notizie del giorno. Anche Corona non mancava a questo appuntamento. Ma appena il notiziario finiva, egli si alzava di scatto, faceva una breve passeggiata su e giù per il corridoio, quindi si ritirava in stanza. Un confratello che notò questo suo cambiamento (anni addietro Corona amava seguire i programmi televisivi fin verso le 22 e 30) gliene chiese la spiegazione.

"La televisione è un perditempo bello e buono. Io ho scoperto qualche cosa di meglio".

"Cioè?".

"La lettura dei libri di ascetica e le vite dei santi, ma quelle ben fatte. Ormai non posso più staccarmi da queste letture che mi arricchiscono spiritualmente. Sono una vera miniera d'oro".

"Mi pare che stai diventando troppo santo! Attento, perché quando si è frutti maturi, il Signore ci coglie".

"Se è per questo ho visto morire giovani anche fior di farabutti", tagliò corto con la sua solita decisione.

Dopo la sua morte sono stati trovati nella sua stanza 11 quaderni di grosso spessore con riportati brani della vita e della spiritualità dei santi che leggeva. Non solo, dunque, si limitava a una lettura superficiale, ma copiava con la su grafia limpida e chiara i pezzi migliori di quei libri. Ne è uscita un'antologia che non sarebbe male fosse pubblicata, trattandosi di roba di primissima qualità.

Inconsapevolmente, attraverso questa via del silenzio, della meditazione, della preghiera insieme agli amici di Dio, si preparava all'incontro col Signore che stava arrivando quasi improvvisamente.

Verso un durissimo calvario

Ed ecco che, sottilmente, cominciò a provare un dolorino alla pancia che, col passare dei giorni, anziché diminuire, si accentuava. In un primo tempo non ci fece caso, pensando che si trattasse di un colpo di fresco o cose del genere, ma poi si rese conto che le forze venivano meno e dimagriva. "Facendomi la barba mi sono accorto che ho il volto particolarmente spigoloso", disse una mattina.

Fr. Cristele ebbe a dire: "Da oltre un anno osservo che p. Corona si è dato a una preghiera più intensa". Era certamente il Signore che lo stava preparando ad affrontare un durissimo calvario.

Scrive p. Ravasio: "L'ho conosciuto in scolasticato: lo ricordavo solo perché intelligente, franco e sportivo. Qui a Roma sono vissuto vicino a lui. E' stata una rivelazione: non attraverso parole, perché ne diceva poche, ma per le sue scelte e per quello che era. Quanta strada aveva fatto quell'uomo! Di nessuno, più che di lui, si può affermare che il detto 'l'apparenza inganna' era vero per difetto. Normalmente le persone mostrano di più di quel che sono: in lui una certa maschera gli faceva da scudo, quasi una conchiglia per la perla che teneva nascosta.

Tornava alle 14 e passava tutto il pomeriggio alternando la preghiera in cappella (che percorreva in silenziose maratone) e la musica classica che sentiva in camera, usando dischi che prendeva da un deposito della comunità. Alle quattro del mattino era già in chiesa per la meditazione e la santa messa, prima di recarsi al lavoro.

Oltre alla preghiera continua, mi ha colpito la sua povertà. A lui condannato a trattare coi soldi, sembrava non interessasse avere nulla di ciò che comunemente è usato anche da noi per vivere con un po' di comodità e disponibilità di cose. Non credo sapesse guidare la macchina, usava invece una bicicletta e la sua stanza era letteralmente una cella nella quale c'erano pochissime cose essenziali.

In gennaio, quando cominciò a sentire forti dolori addominali, ci trovavamo nei corridoi di via Lilio prestissimo. Lui per il male, ed io perché non dormivo molto. Così si apriva, parlava e descriveva l'inferno dei dolori notturni. Era molto lucido e diceva: 'Sarà quel che Dio vorrà'".

Visitato più volte e sottopostosi ad analisi, non risultò mai niente di negativo. Ad un certo punto, però dovette farsi ricoverare in una clinica romana. Fatto un intervento esplorativo, scoprirono che l'addome era tutto un tumore diffuso.

Scrive fr. Benetti: "Il 14 marzo lo visitai all'ospedale dell'EUR e mi disse:

'Soffro moltissimo. Spero domani nell'operazione'. Gli chiesi:

'Hai bisogno di qualcosa?'.

'No', rispose.

'Allora pregherò san Giuseppe per te'.

'Anche mons. Comboni - rispose - domani è la sua festa'. Conclusi che se p. Corona diceva di soffrire, doveva trattarsi di un dolore tremendo.

La notte tra il 15 e il 16 marzo lo assistei fino al mattino. Il vecchietto di 79 anni che gli stava accanto mi disse:

'Quello non è solo un sacerdote, ma è un sacerdote santo. Non si lamenta mai'. Infatti p. Corona mi aveva detto:

'Non ti preoccupare se qualche volta mi senti fare ahi, ahi, perché in certi momenti il dolore è così acuto che non posso trattenermi'. E il vecchietto a commentare:

'Pensi, con tutto ciò che soffre dice sempre le preghiere e recita il breviario'.

Prima che io lasciassi l'ospedale, dopo l'intervento, mi chiese se avesse recato disturbo. La sua preoccupazione, infatti, era quella di non disturbare nessuno". Sul suo comodino tenne sempre il rosario, il breviario e un libro del cardinal Martini".

Dopo la visita dell'oncologo confidò a chi lo assisteva:

"Dalla cura che debbo fare, mi par di capire che ho un tumore", e scoppiò a piangere. E poi:

"Scusami se mi vedi piangere, ma il dolore è tanto che non riesco a sopportarlo più. Non ho paura di morire; vuol dire che è arrivata la mia ora. Solo questo dolore così acuto e continuo desidero che mi venga tolto perché non resisto più. Va' a pranzo con gli altri; non voglio rovinarti la Pasqua", disse a chi gli era vicino. Egli si disponeva a trascorrere la sua ancora sulla croce.

A motivo della crescente insopportabilità del male, venne trasferito da Roma alla clinica oncologica di Negrar per l'opportuna terapia antidolorifica, eseguita sotto costante controllo medico, necessaria per il tumore al pancreas con metastasi intestinale e vescicale. Trovava conforto nella continua assistenza da parte sia dei confratelli che del personale addetto.

Tutti coloro che lo andarono a visitare, restavano edificati dal suo modo di soffrire. Il 9 aprile arrivò a Negrar anche l'amico col quale p. Corona andava a Bologna e al quale aveva raccontato tanti episodi della sua infanzia.

"Prega - gli disse l'ammalato - prega perché non perda la testa e faccia qualche sproposito. Mi pare proprio di essere sull'orlo della pazzia da quanto male sento". Allora quel confratello si ricordò che fu proprio Corona, un giorno di tanti anni prima, a ricordargli l'episodio di santa Teresina che aveva detto alle sue suore di non mettere mai veleni accanto a chi soffre.

"E' morta la mia mamma proprio un mese oggi - gli rispose il visitatore. - Ora la penso in paradiso con la tua. Preghiamole perché ti diano una mano".

"Si, preghiamo. E' l'unica cosa che possiamo fare. E scusa, sai, se non ti ho mandato le condoglianze, ma vedi come sono". Pregarono per un po', mentre p. Bracelli, che era l'assistente di turno, passeggiava in corridoio. Alla fine p. Filippo volle la benedizione poi aggiunse:

"Abiti troppo lontano, non disturbarti a venire al mio funerale. Prega solo per me". L'altro, per non farsi vedere a piangere, uscì di corsa dalla stanza.

Nella notte del 22 aprile, alle ore 22,50, assistito anche dal fratello sacerdote tempestivamente avvisato, trovava finalmente pace nella casa del Signore.

Voglio terminare il necrologio di questo confratello la cui vita fu all'insegna della sofferenza dai primi anni della sua infanzia fino alla morte, trascrivendo un brano che l'aveva colpito e che egli aveva copiato nelle ultime pagine dell'ultimo dei suoi quaderni, quando sicuramente sentiva già la morte che si avvicinava.

"Vorrei che in quell'ora suprema i miei sentimenti fossero quelli di adesso: pensare che tra pochi istanti mi si svelerà la Tenerezza. Mi presenterò a Lui e gli dirò: non ho altro titolo che d'aver creduto nella tua bontà. I maestri di vita spirituale parlino pure di giustizia, di esigenza, di timore. Il mio giudice, quello che deve giudicare me, è quello che saliva ogni giorno in cima alla torre e scrutava l'orizzonte se mai tornava a lui il figliol prodigo. Non ho paura di Dio: non tanto perché lo amo, quanto perché so che Lui ama me. Quanto a sapere perché mio Padre mi ami, e che cosa ami in me, non lo so davvero. Mio Padre mi ama perché Lui è l'Amore: basta che io accetti di essere amato e io lo sarò veramente" (A. Valensin).

Il funerale è stato tenuto in Casa Madre con tumulazione nel cimitero di Verona.

P. Corona ci insegna che non è importante aver dei difetti, dei limiti, delle idee proprie, quando si è disposti ad obbedire sempre e con spirito di fede, fino ad accettare un modo di vivere totalmente contrario a quello progettato e per il quale sono stati affrontati sacrifici, rinunce e umiliazioni senza numero. Ci dice anche che la forza capace di farci superare ogni difficoltà è l'attaccamento incondizionato alla propria vocazione.                 P.L.G.

Da Mccj Bulletin n. 172, ottobre 1991, pp. 47-61