"Mai sono stato simile ai miei fratelli mozambicani come in quest'ultimo anno: debole, bisognoso di tutto, con sogni e speranze umanamente impossibili. Dicevo, con sincerità, ma a parole, che volevo condividere la loro vita. Adesso lo faccio realmente".
Sono queste le parole che p. Cornelio Prandina scrisse alla sorella Lucia qualche mese prima della morte. Una evidente constatazione che indica il grado di "incarnazione" di un missionario con il suo popolo martoriato da una guerra trentennale.
A 49 anni di età, dopo un'esistenza intensa, p. Cornelio vedeva la vita sfuggirgli giorno per giorno, irrimediabilmente minata da una cirrosi epatica causata da un'epatite virale contratta in Africa, non riconosciuta e quindi non curata. Ma quanti suoi amici, più giovani di lui, aveva visto morire in quella guerra interminabile e assurda! Quanti vecchi e bambini aveva scoperto cadaveri nel bosco, con la bocca piena di erba nell'estremo tentativo di attutire i crampi della fame! Ad ognuna di queste scoperte, Cornelio si domandava: "Perché? Perché tutto questo?" Ma la risposta non c'era, forse perché erano troppe le risposte che avrebbe dovuto dare, per cui non valeva la pena mettersi ad esaminarle.
Condividere è amare
"Ogni sera, all'imbrunire, la gente carica sulla testa le poche cose che possiede, le donne tengono i figli piccoli incollati alla schiena, una stuoia sotto il braccio, e si inoltrano nella foresta. Non si può costruire neppure un minimo riparo perché potrebbe essere avvistato o dai guerriglieri o dai soldati regolari. Dormono distesi in mezzo all'erba alta o sotto un albero. La notte mozambicana è fredda e, nelle prime ore del mattino, la rugiada gocciola dagli alberi come fosse pioggia. Malattie delle vie respiratorie, tosse e molta tubercolosi sono alcuni dei tanti malèfici frutti di questa vita fuggitiva. Unito a tutto questo, un perenne clima di tensione, di paura, di insicurezza, di pericolo per la propria vita e per quella dei familiari... I guerriglieri hanno sempre dimostrato di non rispettare né malati, né gravide. Al rientro al villaggio, si vedono gli effetti del saccheggio. E noi missionari siamo con loro. Potremmo tornare in Italia, ma questo è il nostro posto. Ci sono uomini che percorrono i boschi del Mozambico per uccidere e distruggere. Noi viviamo negli stessi boschi per stare vicini alla povera gente che le piglia da tutte le parti. Con essa possiamo condividere solo i disagi e la fame. Ma questi sono motivi sufficienti per restare, per dire che vogliamo loro bene".
In questa luce la malattia e la morte del giovane missionario acquistano un significato tutto particolare. E continua nelle sue lettere: "Sono certo che la mia malattia è l'occasione per intraprendere un cammino di vera fiducia nel Signore, per arrivare poco a poco a volere e ad amare la sua volontà... Sono ancora lontano da tutto questo, ma vedo che il Signore mi chiede di abbandonarmi a Lui". E' l'ora del Getsemani, dell'agonia, del rifiuto interiore di quel calice amaro che si chiama morte a 49 anni di età. Ma subito, immediatamente, segue il "non la mia, ma la tua volontà sia fatta". Ed ecco che p. Cornelio aggiunge subito: "Capisco che questa è la via per realizzare in pienezza la mia vocazione".
Indubbiamente, la rassegnazione del popolo mozambicano, "il suo popolo", coniugata con la fede cristallina che sosteneva il giovane missionario nel momento della prova, fu motivo di forza, di rassegnazione, anzi, di accettazione.
In cerca di spazio
Cornelio era nato a Torrebelvicino il 6 settembre 1943, settimo di dieci fratelli, altri due dei quali abbracciarono il sacerdozio: uno, p. Piergiorgio, tra i Comboniani, e un altro, don Martino, tra i diocesani. I dieci figli, di cui tre sacerdoti, ci danno la temperatura spirituale della famiglia Prandina.
Papà Bortolo faceva il sarto. Aveva tre fratelli e quattro sorelle, due delle quali si fecero suore. Dei fratelli, uno si fece gesuita. Quindi la famiglia era "tenuta d'occhio" da Dio "fin dal seno materno".
Il nonno, sarto-barbiere e contadino, viveva a Villa Molvena vicino a Marostica, un paesino di 125 abitanti. Un giorno radunò i figli e disse:
"Per le ragazze non c'è problema, perché due se le è già prese il Signore, e speriamo che si facciano sante suore; l'altra ha già il marito in vista, e che Dio gliela mandi buona. Quanto a voi giovanotti, uno è un angioletto in cielo, l'altro è entrato tra i gesuiti (e che si faccia santo pure lui), tu hai imparato a fare il calzolaio, e andrai certamente bene finché la gente camminerà coi piedi; voi due siete sarti come me. Ma siccome il paese è piccolo e non vogliamo creare odiose concorrenze tra noi, qualcuno deve emigrare".
Sulla famiglia radunata per quello straordinario consiglio di comunità scese un pesante silenzio. Finalmente Bortolo, il futuro genitore di Cornelio, disse:
"Hai ragione, papà; io non voglio litigare né con te, né con mio fratello, perciò me ne vado".
"E che il Signore ti benedica", fu la risposta immediata del padre.
Fu così che Bortolo, nel 1929, andò a Milano a diplomarsi in "maestro di taglio".
"Quanto freddo in questo terribile inverno - scriveva a casa. - E quanti sacrifici!", ma teneva duro perché sapeva già dove voleva arrivare.
Infatti, col suo bel diploma in tasca, nel 1931 tornò dalle sue parti. Ma si fermò a Torrebelvicino. Quel pezzo di carta gli permise di mettere in piedi una bottega e di aprire una scuola di taglio che gli consentiva di arrotondare il salario. Intanto mise gli occhi su una brava ventenne di Torrebelvicino, Lena Grandesso, che da cinque anni lavorava alla Lanerossi. Era seria, religiosa e carina, e nel 1933 la sposò.
Le cose andavano bene tanto che, con l'arrivo del terzo figlio, mamma Lena lasciò definitivamente il lavoro per diventare casalinga ed educatrice dei figli che Dio le mandava a getto continuo, e che lei accoglieva con gioia sempre più grande. "Il cuore - soleva dire - è fatto di gomma: più ci metti amore, più diventa grande".
La guerra
"Questa proprio non ci voleva - disse papà Bortolo allo scoppio della guerra. - La guerra arricchisce i soliti furbi, ma porta lutti e miseria tra il popolo. E noi, col nostro mestiere, viviamo servendo il popolo".
"Deus in audiutorium me intende, chi non ghi n'ha, non ghin spende", fece eco Vittorio, il più vecchio dei maschi.
Alla fine della guerra l'Italia era così devastata che sembrava impossibile una sua ripresa per cui, nel 1948, papà Bortolo tentò l'avventura all'estero. Insieme ad un altro sarto di Torrebelvicino andò a Caracas, nel Venezuela, col sogno in testa di una grande e moderna sartoria in quel Paese. In seguito avrebbe chiamato a sé tutta la famiglia ma, si sa, le società funzionano bene solo se i membri sono in numero dispari e non più di due, per cui, nel 1952, Bortolo dovette ritornare con l'amarezza del fiasco e un sacco di debiti.
I suoi dieci figli (c'erano già tutti) lo accolsero con gioia e gli dissero di non temere perché c'erano anche loro ed erano nati tutti con le mani, grazie a Dio.
"Non avvilirti, Bortolo - gli disse la moglie Lena - vedrai che la nostra America sarà qui".
L'Italia, intanto, quasi miracolosamente sorgeva dalle sue rovine diventando ogni giorno più bella e più ricca.
"E' lecito ancora sognare qualcosa che mi porto in testa dalla giovinezza?", disse papà Bortolo il giorno in cui, negli anni Sessanta, aprì una sartoria con una ventina di operai, che poco dopo divenne un laboratorio con una cinquantina. E per i debiti? Tutti, in paese, conoscendo chi era il signor Bortolo, si offrirono spontaneamente a imprestargli denaro "a un interesse da cristiani".
Papà Bortolo morirà nel 1977 (Cornelio era in Mozambico) dopo aver visto la sua opera notevolmente ingrandita (oggi ha 500 dipendenti) e portata avanti con grinta dai figli.
Dice una testimonianza scritta: "Il signor Bortolo Prandina, pur essendo occupatissimo nella conduzione dell'azienda, andava alla messa delle 5,30 tutte le mattine, dopo aver passato buona parte della notte al tavolo da lavoro. Con lui, mezzi addormentati, c'erano i figli che formavano una fila indiana. Conosceva tutte le parti della messa a memoria, anche quelle recitate dal sacerdote. Quando, dopo il Concilio Vaticano II, si è cominciato a celebrare in Italiano, esclamò: 'Era ora che si accorgessero che non capivamo niente! Adesso sì che è bello andare a pregare in chiesa!'.
Era presidente dell'Azione Cattolica, insegnante di catechismo, ha introdotto in parrocchia la San Vincenzo per soccorrere i poveri, ed è stato un ferventissimo attivista della Democrazia Cristiana di De Gasperi. E tutto questo nei limiti imposti dalla famiglia numerosa, dalle preoccupazioni del lavoro e dalla sua cultura (aveva soltanto il diploma elementare), ma leggeva molto e sapeva parlare bene. E poi ebbe la fortuna di avere una moglie che gli fu sempre, oltre che fedelissima compagna, indispensabile e silenzioso sostegno".
Tra i rami del vecchio fico
L'avventura di p. Cornelio inizia nel 1954 con l'arrivo a Torrebelvicino di p. Giovanni Vedovato il quale raccoglie un bel gruppo di ragazzi e li trascina in Collareda per un ritiro spirituale. Sembra un incontro casuale, invece tutto è stato organizzato da una zelatrice missionaria, la signorina Angelina Cappellotto, una di quelle sante sconosciute di paese che ha dedicato tutta la sua vita alla promozione vocazionale. Di Angelina, p. Cornelio serberà un vivo e riconoscente ricordo per tutta la vita.
Cornelio aveva sempre detto che avrebbe voluto farsi prete, tanto che il parroco, don Giovanni Grendene, lo teneva particolarmente d'occhio.
Dopo aver entusiasmato i ragazzi raccontando la vita di mons. Comboni, p. Vedovato consegna un biglietto sul quale c'è una domanda ben precisa: "Ti piacerebbe diventare missionario?". Cornelio risponde immediatamente: "Sì". E tre mesi dopo è già nel seminario missionario di Padova.
P. Bogotto racconta che, dopo aver scritto il fatidico sì sul foglietto, Cornelio esclamò in modo trionfalistico: "E adesso non i me ciàpa più" (adesso non mi prendono più), indicando il suo desiderio di partire per l'Africa e facendo versare calde lacrime di soddisfazione alla buona Angelina.
Secondo la testimonianza di Anna Bortoli, nei giorni seguenti la decisione, Cornelio si sarebbe arrampicato più volte sopra una vecchia pianta di fico che si trovava in prossimità della casa dei Prandina e, tra un fico e l'altro, che mandava giù in un solo boccone senza neanche masticare, avrebbe esclamato con le mani alzate come Comboni: "Africa, Africa!". La scena si sarebbe ripetuta più volte da quell'insolito pulpito. Non si è mai saputo se ciò avvenisse per amore dell'Africa o dei fichi.
Lacrime e lacrime
L'annuncio in famiglia della decisione di Cornelio non sorprese nessuno e non trovò ostacoli di sorta. Lo zio Alfeo, gesuita, missionario in Cile, si faceva vivo con lettere traboccanti entusiasmo missionario che venivano commentate in famiglia con le lacrime agli occhi. Il signor Bortolo non si vergognava di dire che, in gioventù, aveva avuto anche lui qualche velleità missionaria. Immaginarsi, dunque, quanto fu contento per la decisione del figlio.
Mamma Lena trovava serenità nella fede. E' un fatto che di quel ragazzo ha sempre sentito una grande mancanza per cui, pur essendo fiera del figlio missionario, ha pianto tanto. Una volta, accompagnando a Schio i due figli che partivano per Padova (Cornelio e Piergiorgio) si mostrò tutta sorrisi e raccomandazioni. Poi, dal finestrino, quando lei credeva di non essere più veduta dai suoi futuri missionari, scoppiò in un pianto dirotto. Essi la videro ma, con immenso rammarico, non poterono dirle neppure una parola perché il treno era partito.
Prima di partire per il seminario e quando ritornavano per le vacanze il primo discorso che facevano loro i genitori era questo: "Se non ve la sentite, qui la porta è sempre aperta", un discorso da gente cristiana e responsabile.
Quegli occhietti...
Abbiamo la foto che ritrae Cornelio nel giorno della prima Comunione (1951). Si nota il ragazzino che si sforza di mantenersi composto e raccolto (chissà cosa gli avrà detto il fotografo!), ma gli occhietti vispi e birichini la dicono lunga sul carattere del giovinetto. I testimoni assicurano che era un piccolo vulcano dalle trovate inesauribili e originali...
Un giorno la maestra Canova manda lo scolaretto a prenderle delle patate bollite per il suo spuntino di mezza mattina. Cornelio tarda più del solito. Finalmente arriva... a mani vuote.
"E le patate?".
"Qui!", e punta il ditino sullo stomaco.
Un'altra volta i ragazzi della parrocchia vengono coalizzati a raccoglie aiuti per l'Università cattolica che, a detta del parroco, avrebbe preparato uomini onesti e politici limpidi in grado di guidare l'Italia con le mani pulite.
Cornelio si lancia per i prati e lungo le siepi a raccogliere violette che confeziona in mazzetti che poi vende alle signore. La mattinata ha reso bene. Perché non continuare l'industria dei fiori? Ed eccolo che si mette in testa di comperare un bell'anello per la sua mamma. Veramente questa era un'idea dei fratelli che concorrevano nei limiti delle loro possibilità. Nel pomeriggio di quella domenica Cornelio continuò ancora con i mazzolini di violette finché alla sera poté presentare il suo bravo gruzzolo.
"Questi sono i soldi per l'Università!", lo riprende la mamma.
"Fino a mezzogiorno erano per l'Università. Questi sono per il tuo anello". Mamma Lena non poté fare a meno di stringerselo al cuore e di dargli un bel bacione. Subito dopo, tuttavia, aggiunge: "Questi soldi, però, li mandiamo all'Università, ma è come se fossero per il mio anello".
Un bel tipaccio
Vivacissimo e sensibile, soffriva di fronte ai torti, ma non riusciva a tenere il broncio.
Fu anche operato di appendicite. Con sgomento dei genitori, due giorni dopo l'uscita dall'ospedale, lo scoprirono in cima ad un albero dove si era arrampicato.
Siccome in paese molti portavano le "sgàlmare", specie di scarponcini con la suola di legno e fornita di borchie di ferro per farle durare più a lungo, ne volle un paio.
"Con uno zio calzolaio vuoi andare in giro con le sgàlmare?", protestano i genitori. Egli tanto insiste e tanto protesta, finché riesce ad avere le sue sgalmarette nuove fiammanti. I compagni, però, cominciarono a prenderlo in giro essendo quel tipo di calzature il segno della povertà. Cornelio risponde prendendoli a calci nel fondo schiena e commenta: "Così sapete a cose mi servono le sgàlmare".
E' stato fiamma bianca, verde e rossa (i primi scalini dell'Azione Cattolica), chierichetto memorabile, tanto da aiutare il cappellano anche nel canto dell'ufficio funebre. Egli pronunciava solo la prima e l'ultima parola del versetto; il resto era un solo urlo, tanto ... Dio sapeva già tutto a memoria. Con gli amici andava a bagnarsi nel Lèogra, raccoglieva castagne e materiale adatto per confezionare archi, frecce e giavellotti; con loro scorazzava per i prati e per i boschi, andava in cerca dei nidi e tirava sassi con la fionda.
P. Alberto Buffoni, sostituitosi a p. Vedovato, presenta il giovinetto nel seminario missionario di Padova con queste parole: "E' un bel tipaccio: esuberante, di un entusiasmo esplodente e deciso. La lingua è lunga, ma anche il cuore è generoso. Schietto e furbo, non te le manda a dire. Ha fatto le scuole elementari a Torrebelvicino in qualche modo (turni pomeridiani, continuo cambiamento di insegnanti...) per cui scolasticamente faticherà un poco, ma è di intelligenza discreta. Non ha fatto gli esami di ammissione alle medie perché era avviato alle scuole parrocchiali. Penso che potrà cominciare dalla prima media".
Dopo il "mese di prova" il superiore scrisse: "Vivace e impulsivo, però docile e sincero. Lento, distratto, poco preparato, ma può andare in prima".
Gli educatori ebbero da faticare non poco per tenerlo a bada. La sua allegria era contagiosa, e ciò era positivo per uno destinato alla vita di comunità, ma anche le marachelle lo erano altrettanto e ciò era meno encomiabile.
Ti resta un lungo cammino
Con i suoi pregi e con i suoi difetti, Cornelio andava avanti anno dopo anno. Medie e liceo a Padova (1954-1960) con esami al Barbarigo, liceo classico a Carraia, Lucca (1960-1963), noviziato a Gozzano, Novara (1963-1965), studi teologici a Venegono Superiore, Varese (1965-1969). Ambiente, questo, particolarmente caro a Cornelio, tanto che lo sceglierà per passarvi i suoi ultimi mesi di vita.
La scalata al "monte di Dio" non fu priva di difficoltà per il nostro giovanotto. Teniamo presente che visse in pieno gli anni della contestazione, il famoso "68" che tanto fece parlare di sé. Dobbiamo dire che Cornelio, pur così vivace e intraprendente, non si fece influenzare dalla nuova aria che spirava grazie, soprattutto, alla solida formazione ricevuta in famiglia.
Tuttavia, nonostante i due anni di serio noviziato, alla fine il p. maestro registrò: "Rozzo, disordinato, impulsivo, ambizioso, un po' vanitoso, di parola troppo facile, precipitoso, incostante". Questo era il rovescio della medaglia. Il dritto eccolo qua: "Leale, generoso, seriamente impegnato nei suoi doveri, operoso e di molto sacrificio, animato da serio desiderio di progredire nella virtù. La sua cordialità e facilità di approccio gli consentiranno di fare molto bene con la gente, ma bisogna ancora guidarlo perché impari a riflettere di più prima di parlare, a obbedire senza trovare scuse, a saper adattarsi agli altri e alle situazioni che potrà incontrare. Probabilità di riuscita: 95%".
Prima della professione, stese il testamento nel quale lasciava la sua parte di eredità, in parti uguali, ai suoi fratelli con l'obbligo di fare un'offerta libera al Collegio delle Missioni Africane. I primi Voti, che emise a Gozzano il 9 settembre 1965, vennero ricevuti da mons. Sisto Mazzoldi, un grande vescovo comboniano che dedicò tutta la sua vita per il bene degli africani e che, certamente, seppe caricare di entusiasmo i giovani che professarono in quel giorno.
Salutandolo, il p. maestro gli disse: "Coraggio, Cornelio, e non stancarti, perché ti resta ancora un lungo cammino per diventare come il Signore ti vuole". Confortato e stimolato da queste parole, il neo professo intraprese gli studi teologici che, per chi li affronta con amore, diventano una continua preghiera, anzi, una contemplazione di Dio e dei misteri della fede.
Verso il sacerdozio
Il lavoro spirituale per mettersi in linea con lo spirito di Cristo sulla scia del Comboni era appena agli inizi, per cui Cornelio lavorò sodo durante i quattro anni di studi teologici.
Alla domenica si recava in un paesetto vicino a Venegono per esercitare l'ufficio di catechista. Dimostrò subito una grande capacità di stare con i ragazzi, di istruirli e di intrattenerli con giochi e gare sportive. Il ragazzino vivace e fantasioso che era nascosto dentro di sé, di tanto in tanto saltava fuori a tutto vantaggio dei suoi alunni. "Avrete un ottimo catechista domani in missione - scrisse il parroco al superiore. - Con i ragazzi ci sa proprio fare".
Al termine del quarto anno di teologia, il superiore scrisse di lui: "Fa bene in tutto, pratica l'obbedienza in modo direi perfetto; è buono, anzi, molto buono, senza esigenze per sé, allegro e caritatevole con gli altri. Retto, sincero, generoso, sempre disponibile. Ama la vocazione e le missioni. E' molto portato al ministero e la sua facilità di parola si è trasformata in un dono per la proclamazione della Parola di Dio nella predicazione. Nei momenti di tempo libero, lo vedo spesso in chiesa raccolto in profonda preghiera. La salute è discreta. Forse risente un po' dello sforzo per gli studi e per l'impegno allo scopo di essere uno zelantissimo missionario e un sacerdote secondo il cuore di Dio".
Queste parole, scritte da p. Efrem Angelini, superiore degli studenti di teologia, costituiscono una pietra miliare molto importante del cammino spirituale di Cornelio.
Tappa al fonte battesimale
L'ordinazione sacerdotale ebbe luogo a Torrebelvicino alla sera del 29 marzo 1969. Consacrante fu mons. Diego Parodi, già vescovo comboniano in Brasile ed ora vescovo di Gubbio. Alla celebrazione Cornelio volle premettere un gesto significativo. Il corteo partì dalla canonica e, giunto in chiesa, Cornelio si diresse deciso verso il fonte battesimale - allora era in fondo alla chiesa - e rinnovò le sue promesse battesimali. Ringraziò il Signore per la fede ricevuta, e proclamò il suo impegno di offrire la propria vita perché la stessa fede avesse a raggiungere tutti gli uomini.
Il gesto, altamente significativo, è stato molto apprezzato dai presenti che, con lui, hanno rinnovato nel loro cuore le promesse battesimali quasi a sottolineare che quel missionario era un frutto della fede della loro comunità e, a nome loro, andava a portare la fede a coloro che non conoscevano Cristo.
Questa solidarietà di fede è stata confermata, poi, dalla lettera mensile - GAM 12: Gruppo Appoggio Missionario - che i fratelli Prandina hanno diffuso tra parenti ed amici dove davano notizie del loro lavoro, coinvolgendo così una gran parte del popolo turritano.
In queste lettere c'è l'anima di p. Cornelio, il suo ardore missionario, soprattutto il suo amore a Cristo e agli africani. Queste lettere sono state raccolte in tre volumi e indicano mese per mese il cammino, spesso irto di difficoltà, del missionario Cornelio.
Abbiamo già detto che si era in tempo di contestazione, anche sul modo di fare missione. Ebbene, un giovane che avvicinò il novello sacerdote dopo la messa augurandogli di impostare il suo lavoro missionario in un determinato modo, si sentì rispondere: "Io vado ad annunciare Cristo; sarà lui a dirmi che cosa e come devo fare". Dobbiamo riconoscere che questa frase si trova oggi sull'enciclica Redemptoris Missio.
Destinazione Mozambico
Destinato subito all'Africa, p. Cornelio trascorse un anno a Roma (1969-1970) presso il Pontificio Ateneo Salesiano per specializzarsi in catechetica. Poi passò un altro anno a Lisbona, in Portogallo, presso la casa provincializia per lo studio della lingua, quindi s'imbarcò per il Mozambico che, dopo cinquecento anni di dominio coloniale portoghese, era diventato "provincia portoghese d'oltremare" (1951), ma in realtà il clima colonialistico, basato sullo sfruttamento della popolazione, perdurava come ai tempi della colonia.
Cornelio trascorrerà in questa terra quindici anni della sua vita. "I quindici anni più belli, anche (anzi appunto) perché segnati da tanta sofferenza e da gioie intime".
Fu parroco a San Pedro (1971-1978), a Namapa (1978-1979) e a Nampula (1979-1984).
Dinanzi alla grande miseria della gente e alle sopraffazioni dei potenti, il giovane e ardente missionario si sentiva ribollire il sangue nelle vene.
"Era il tempo della pace portoghese” - scrisse lo storico Maines. Tanto la parola colonia come quella di provincia, coniata nel 1951, indicavano un'unica realtà: supremazia del bianco che aveva in mano le grandi possibilità della tecnica e del denaro per la costituzione di grosse compagnie di tè, cotone, cocco, sisal; sfruttamento della mano d'opera con paghe irrisorie; disprezzo per la gente, per la sua lingua e i suoi costumi ritenuti primitivi".
Per i figli degli africani la scuola (almeno quella di un certo grado) era una cosa proibita. I Comboniani, che avevano puntato tutto sulla scuola, erano mal visti dal governo. Purtroppo anche qualche vescovo portoghese, residente in Mozambico, si prestava al gioco dei governativi. P. Ferrero, provinciale dei Comboniani del Mozambico, aveva denunciato senza mezze parole la situazione nella sua relazione al Capitolo del 1959.
Questo clima di ingiustizie e di sfruttamento alimentò la guerriglia che si andava organizzando nelle foreste e nelle periferie delle grandi città, costituendo un tutt'uno con il Movimento indipendentista "Frelimo", foraggiato dalla Russia.
Espulso
Inutile dire che p. Cornelio simpatizzava per questo Movimento, anche se era di ispirazione marxista-leninista. Nella sua buona fede sperava di coniugare l'ideologia comunista con il cristianesimo. Perdoniamo volentieri questa "giovanile esuberanza", frutto di inesperienza, di entusiasmo e di sete di giustizia per gli africani che amava sinceramente e visceralmente, proprio come Comboni. E come Comboni non ebbe paura di collezionare nemici a non finire. Nemici che, molto spesso, trovava anche tra le pareti domestiche e perfino tra i confratelli che, tutto sommato, consideravano il regime portoghese pur sempre un regime cristiano.
Imperterrito, Cornelio proclamava dal pulpito i principi evangelici di giustizia, di condivisione, di carità e di perdono anche se sapeva che tra gli ascoltatori c'era chi registrava i suoi discorsi per poterlo poi accusare.
A questo punto bisognerebbe leggere le pagine di Nigrizia del 1974 per avere una documentazione completa degli avvenimenti. Ci limitiamo ad accennare soltanto all'"Imperativo di coscienza", un documento scritto quasi totalmente da Cornelio e firmato anche da altri insigni confratelli. Il documento, che faceva una pacata e circostanziata analisi critica sulla situazione politica e sul tipo di impegno missionario nella scuola, fu approvato anche dal vescovo di Nampula... ma procurò a Cornelio e ai firmatari l'immediata espulsione. Si era nel 1974.
Cornelio, dopo solo tre anni di missione, si trovò catapultato in Italia, stordito ma non scoraggiato. Scrive il suo parroco: "Assistevo ai suoi discorsi infuocati, alle sue conferenze bollenti nelle quali l'amore per gli africani oscurava la rabbia per le ingiustizie portoghesi. Cornelio era come una quercia che, più è scossa dal vento, più affonda le sue radici".
Le sue conferenze erano così "rivoluzionarie" che qualche vescovo italiano si rifiutò di accoglierlo nella sua diocesi.
Breve gloria e lunga delusione
Proprio in quel 1974 cadde la dittatura di destra in Portogallo. Fu la premessa per l'indipendenza del Mozambico che ebbe luogo il 25 giugno 1975.
Gli espulsi tornarono come dei trionfatori. Ma la cuccagna durò poco. Il regime marxista mostrava il suo vero volto... E cominciarono le nazionalizzazioni, le vessazioni, le persecuzioni. I missionari e le missionarie si interrogavano sul nuovo modo di essere presenti e operanti in un contesto così diverso, su come continuare ad impegnarsi per aiutare e favorire lo sviluppo del popolo e la crescita della vita cristiana in un regime rivoluzionario marxista.
Quale non fu la delusione e l'amarezza di Cornelio quando si accorse che i "liberatori" erano peggiori dei primi. Questi, infatti, strumentalizzati dai marxisti della peggior specie, tentarono di riprodurre in Mozambico ciò che Mao e Stalin avevano fatto rispettivamente in Cina e in Russia. Cominciarono le deportazioni, le pubbliche esecuzioni di chi si opponeva alla loro politica disumana, la formazione di villaggi artificiali nei quali la gente era obbligata a stabilirsi per lavorare per il governo... Per la Chiesa fu persecuzione vera e propria.
Non ci dilunghiamo su questo argomento già più volte toccato parlando dei confratelli che hanno operato in Mozambico; diciamo solo che p. Cornelio fu "un cavaliere senza macchia e senza paura". Pur sapendo che in chiesa c'erano le nuove spie che registravano le sue omelie, egli proclamava apertis verbis i principi evangelici, proprio come aveva fatto al tempo dei portoghesi.
Tuttavia, dagli scritti di p. Cornelio constatiamo che l'utopia di mettere d'accordo il marxismo col cristianesimo era un sogno che tardava a dileguarsi, anzi costituiva un traguardo per raggiungere il quale occorrevano degli inevitabili sacrifici. Ciò gli ha permesso di continuare a lavorare e a insegnare nelle scuole governative con gli altri confratelli.
"Non ci permettono di fare i missionari - scriveva p. Zani - tuttavia hanno bisogno di noi come professori. Cosa importa! Purché ci lascino parlare!".
Nel 1976 Cornelio fu colpito dall'epatite virale che, nel caos in cui si trovava il Mozambico, nessuno riuscì a diagnosticare e quindi a curare. Lui soffriva e basta. Tuttavia tirava avanti con i denti anche se ogni giorno mieteva delusioni che aggravavano la sua situazione.
"Avrà anche sbagliato, avrà interpretato male gli avvenimenti - dice di lui p. Antonini - tuttavia una cosa è certa: non ci fu mai decisione che non avesse preso senza considerare il bene della povera gente e il suo amore viscerale per essa. E' per questo che, alla fine, è letteralmente 'crepato', sacrificando affetti, salute e vita. Non è inesatto dire che il più grande contributo che p. Cornelio ha dato per la rigenerazione dell'Africa è stato l'accettazione della sua malattia e l'offerta della sua vita".
A nulla valevano le ammonizioni dei confratelli che lo invitavano alla calma, alla pazienza, a un pizzico di diplomazia per il bene dei mozambicani.
"Se finisci in carcere, non potrai più parlare".
"Parlerà il mio essere in carcere".
"Ti cacceranno via come hanno fatto con altri".
"Non sarebbe la prima volta. Tuttavia scrivo ciò che dico in modo da poter dimostrare che non dico né più né meno di ciò che un cristiano deve dire. Noi siamo qui per predicare il Vangelo, no?".
Le tribolazioni, gli interrogatori, le minacce, anziché scoraggiarlo, lo abbarbicavano sempre di più a quella terra e alla gente. Giustamente il numero speciale sulla morte di p. Cornelio di "Folha Informativa" (la voce della provincia mozambicana) inizia col titolo significativo "Cornelio: o drama de ser misionario".
Egli che sembrava l'uomo più allegro del mondo (così almeno lo ritengono i confratelli) scrisse sul suo diario: "Mi ha invaso una tristezza che non vuole più lasciarmi" (1976).
Come un pianto
Nella cartella personale di p. Cornelio ci sono alcune lettere scritte al p. generale. Sono come un pianto accorato, un'invocazione per avere personale nuovo e giovane.
"Sono profondamente deluso perché non ci hai mandato personale nuovo. Il nostro gruppo è vecchio e soprattutto stanco. Anche i meno giovani sono così impegnati a 'tener duro' che fra qualche anno saranno irrecuperabili. Alcune comunità cristiane hanno l'Eucaristia una o due volte all'anno. Siamo così pressati che fra poco qualcuno farà l'infarto... Abbiamo il campo dei Fratelli che qui avrebbero un'occasione d'oro per vivere la loro identità, ma... non ci sono. Salvare l'Africa con l'Africa nella nostra situazione diventa un sogno. Saremo una provincia che 'tien duro' fino all'estinzione? O siamo abbandonati per favorire altre terre dove le vocazioni sono abbondanti?" (1982).
Il p. generale si difese dicendo: "Il tuo lamento è quello di tutte le province in terra di missione. Cosa posso fare?".
Intanto qualcuno gli sparò addosso crivellandogli l'auto. Fortunatamente rimase illeso semplicemente perché non era ancora giunta la sua ora. In famiglia conservano una pallottola che ricorda quell'avvenimento.
"Che il Signore ci dia allegria e pazienza: è il dono più bello che possiamo ricevere e dare", aveva scritto nel 1980.
Il declino
La salute, intanto, perde colpi. L'epatite virale si trasforma lentamente in cirrosi. Quasi conscio che il suo tempo sta per finire, Cornelio intensifica il lavoro: predica incessantemente il Vangelo; fonda nuove comunità cristiane che periodicamente visita per animarle; collabora alla stampa della Bibbia, di catechismi e di sussidi di preghiera in lingua locale; sollecita borse di studio per studenti mozambicani bisognosi; soccorre i suoi poveri in mille modi, soprattutto coinvolgendo la famiglia, il paese e gli amici in una prova di solidarietà straordinaria. Inventa "l'operazione sementi" per far arrivare ai mozambicani la materia prima per avere buoni raccolti. Ispira nuovi documenti, e molto spesso li scrive di suo pugno, per passarli ai vescovi onde possano far sentire la loro voce presso il governo... Nonostante le difficoltà, mai smette di lavorare e di sperare. "Sono attaccato alla pelle più di quanto un vero cristiano dovrebbe tenerci".
"Spero che la ripresa della tua salute sia sempre più rapida e perfetta" gli scrive il p. generale nel 1983. E, per aiutarlo a riprendere quella salute tanto preziosa, lo assegna alla provincia italiana dal 1ø novembre dello stesso anno.
Formatore dei Fratelli a Pordenone
"Nel 1984 i superiori lo inviarono a Pordenone come formatore dei Fratelli, lui che dei Fratelli aveva un'immensa stima e sapeva quanto potevano fare in missione.
Nel 1987, il richiamo del Mozambico è decisamente più forte della paura per la sua salute che è sempre traballante. Scrive, parla, protesta con la sua solita schiettezza finché il p. generale si decide di ascoltarlo.
"Sono pienamente d'accordo con te che il fine della nostra vita non è quello di conservarla, ma di donarla agli altri - ribatte il p. generale nel novembre del 1987 riprendendo una frase di Cornelio - ma bisogna avere anche una certa quale prudenza perché la salute è un valore. Spero che tu abbia parlato ai medici della situazione tua e del Mozambico perché, come p. generale, devo anche rendere conto a Dio della tua salute". Parole sagge.
"La mia salute è migliorata - risponde p. Cornelio nel luglio dell'87. - Mi sono fatto operare di tre ernie addominali nella speranza di tornare in missione. La biopsia ripetuta con fegato a vista ha smentito la cirrosi... Per me questi cinque anni sono stati d'inferno. Perché i superiori non m'incoraggiano nella mia ansia di tornare in missione? Forse che la salute è il massimo valore della nostra esistenza? La speranza di tornare in missione mi ha sostenuto in questi cinque anni. Ho fatto quasi ogni settimana una giornata missionaria per dire a tutti ciò che succede laggiù. Ormai mi vergogno a parlare di missione senza andarci...".
Saper coinvolgere
Nel suo cuore c'erano anche i giovani che studiavano nelle università italiane. Cornelio batteva a mille porte per chiedere aiuti, suggeriva di mettere da parte, ogni mese, qualche cosa per le missioni e così aiutava molti a superare la tentazione del consumismo in vista di una cristiana condivisione.
Una volta raccontò di ragazzi africani che andavano a scuola ma non avevano quaderni e matite... Subito, davanti al battistero, si accumularono quaderni, biro e altri oggetti che egli fece giungere a destinazione. Un'altra volta, altre necessità, altre raccolte. E la famiglia Prandina a confezionare pacchi e a spedirli. Quel gracile missionario malato aveva trasformato il suo paese in un centro missionario.
Scrive il parroco: "L'amore a Cristo, al Vangelo, p. Cornelio lo diffondeva ovunque andasse, soprattutto mediante la predicazione. Talvolta mi trovavo in confessionale quando p. Cornelio iniziava l'omelia. Allora dicevo al penitente:
'Per favore, aspetti un momento, ascoltiamo il celebrante'.
La predicazione era sapiente. Aveva facilità di esposizione e sapeva trasfondere il suo entusiasmo per Gesù. A me faceva del bene".
Davvero, la sua più grande sofferenza era quella di non poter partire al più presto. Doveva curarsi, doveva accettare periodi di riposo, ma il suo cuore era là dove voleva fosse anche il suo corpo, e al più presto possibile.
E il p. generale, tirato per i capelli, lo assegnò al Mozambico, parroco ad Alua, dal 1ø luglio 1988 giustificando il suo permesso tirando in campo Comboni il quale... "desidera che il bene della gente sia previo ad ogni altro nostro desiderio, e la salvezza degli africani sia previa alla propria salute". Poi lo ringrazia per l'esempio di amore e attaccamento alla missione che dà "nonostante una certa dose di rischi cui vai incontro". Infine un pensiero a mamma Lena, che p. Pierli paragona alla mamma dei Maccabei che, proprio in quei giorni, vede partire i suoi due figli per la missione, uno dei quali con la salute che lascia molto a desiderare.
L'amore è verità
P. Cornelio amava profondamente la Chiesa e il Papa. Ha inviato il ricavato della sua ultima giornata missionaria in Italia - fatta con la sofferenza nel corpo - per il viaggio del Papa in Mozambico. Eppure riteneva qualche vescovo mozambicano "schizofrenico, tutto parole e niente fatti". "Mi ha scandalizzato e irritato moltissimo il comportamento di qualche vescovo mozambicano. Non è così che si serve la Chiesa" (Diario). Per un periodo ha ricoperto la carica di viceprovinciale, distinguendosi nell'amore ai confratelli che sosteneva specie nei momenti di maggior difficoltà.
Amava l'Istituto, ma sosteneva che "è dannoso un eccessivo ringiovanimento dei vertici, con gente senza memoria storica, che lascia languire le missioni dove hanno lavorato con profitto tanti illustri comboniani". Ciò che è bello è che p. Cornelio non aveva paura a dire e a scrivere queste cose perché era un uomo interiormente libero, di quella libertà propria dei figli di Dio, che sanno di non aver niente da perdere e che, a tiro lungo, attirano la stima anche di coloro che hanno trattato un po' duramente.
Consummatum est
"Venegono Superiore, 2 luglio 1992
Carissimo p. generale, quindici giorni fa ho scritto al mio p. provinciale del Mozambico sull'opportunità di togliermi come membro della provincia, visto che la mia malattia non corrisponde più allo 'status di assente per cure'. La mia possibilità di ritorno in missione è umanamente impossibile, non tanto per prolungare la mia vita, ma perché richiederebbe cure, controlli medici e condizioni speciali che il Mozambico per ora non ha e che per risultato avrebbe solo quello di aumentare le difficoltà e i problemi dei confratelli...".
Insomma, l'intrepido lottatore sentiva chiaramente che la sua giornata era al tramonto. A chi gli prospettò il trapianto del fegato, rispose: "Non voglio nemmeno sentir parlare di queste cose, giacché non mi interessa di vegetare... Ormai mi interessa di conformarmi sempre più alla volontà del Signore, se sarò sufficientemente umile e disponibile interiormente...".
Ormai ogni minimo cambiamento di orario lo scombussolava, ogni anche piccola applicazione intellettuale era sufficiente per disorientarlo... Fisicamente era finito.
"A Venegono i confratelli sono anche troppo premurosi nei miei confronti, e la presenza dei novizi mi aiuta a vivere l'entusiasmo della missione e mi stimola... La mia presenza crea problemi in comunità, fortunatamente qui c'è la vera carità e il costante sorriso".
Il p. generale lo ringraziò di quelle parole, gli assicurò la sua vicinanza con la preghiera "in modo che tu possa fare un'esperienza nuova e profonda del Signore attraverso questa croce assai pesante. E ti invito, con rispetto e ammirazione, a contribuire alla vita apostolica dell'Istituto attraverso questa tua sofferenza, ispirandoti a Daniele Comboni che ha conosciuto molto da vicino la malattia e la debolezza fisica". Mancavano poco più di due mesi all'olocausto finale.
Nelle tue mani, Signore
In data 16 giugno 1992, scrivendo da Venegono al fratello sacerdote don Martino, p. Cornelio, dopo averlo ringraziato per "l'attenzione e delicatezza con cui mi accompagni in questo difficile momento della mia vita", prosegue: "Pur non mancando lacrime e qualche ribellione interiore per essere così lontano dall'abbandonarmi con fiducia piena all'amore del Signore, tutto sommato devo dirti che in genere sto vivendo in pace questo cambiamento di situazione. So accettarmi di più e capisco sempre meglio che le vie del Signore, così diverse e infinitamente al di là dei nostri piccoli progetti, sono il meglio per me, pensato e ricostruito dall'amore di Dio. Adesso mi sembra di essere più conforme al Signore, visto che non mi metto più davanti a lui, ma sto cercando di stargli dietro, di seguirlo come deve essere per un vero discepolo... Il Signore mi fa percorrere la strada del giorno per giorno, la precarietà e la fragilità della debolezza per farmi sempre più entrare in un atteggiamento di fiducia nel lasciarmi portare da lui e farmi toccare con mano che il suo amore è gratuità pura.
Non ricuso ciò che la scienza medica può mettere a disposizione, ma fino ad un certo limite al di là del quale per me è solo accanimento terapeutico che ti permette di vegetare. Ciò non ha senso per chi crede che il valore più grande della nostra esistenza è l'amore di Dio e la vita eterna.
Seguo le vicende missionarie come posso e mi sforzo di essere presente in Mozambico con l'offerta della mia debolezza e nel suscitare aiuti economici per chi ne ha tanto bisogno. Per il resto lascio scegliere a Dio, giacché le sue scelte sono infinitamente migliori delle nostre".
P. Cornelio, come si vede, ha voluto essere missionario fino all'ultimo. E lo è stato.
Mentre si trovava per alcuni giorni in famiglia, fu colto da emorragia interna. Portato d'urgenza all'ospedale di Schio, spirò serenamente nel giro di pochi minuti con la mamma accanto, proprio come il Signore. Era il 12 settembre 1992. Due settimane prima, proprio in Mozambico, era stato ucciso il medico comboniano fr. Alfredo Fiorini.
Don Igino Santacatterina, ex parroco di Torrebelvicino, che tenne l'omelia funebre, non esitò a definire p. Cornelio martire, perché autentico testimone del Vangelo, sia quando si trovava in Mozambico, sia quando era in patria. E per il Vangelo ha buttato la sua vita.
P. Giacomo Palagi, superiore provinciale del Mozambico, che aveva appena riportato in Italia il corpo martoriato dalle pallottole di Alfredo, paragonò queste due "passioni" a quella di Cristo, immolate per il bene e la pace del Mozambico.
A distanza di neanche un mese, il 4 ottobre, a Roma, verrà firmata la pace tra guerriglieri e governativi del martoriato Mozambico. Tutti lessero nell'avvenimento la risposta al sacrificio di Cornelio, di Alfredo e di tanti altri missionari e fedeli che avevano vissuto un interminabile Venerdì santo in attesa della Pasqua di resurrezione.
Che p. Cornelio, innamorato della sua vocazione e bruciato dalla passione per l'Africa e per gli africani, susciti dal cielo tante e sante vocazioni al nostro Istituto, alla Chiesa mozambicana e faccia sì che la pace firmata sulla carta diventi realtà sul territorio. P. Lorenzo Gaiga
Da Mccj Bulletin n. 178, aprile 1993, pp.70-77