Terzo di sei fratelli, cinque maschi e una femmina, Alberto è nato in una famiglia profondamente cristiana e benestante. Papà Ugo, laureato in economia e commercio, era commercialista e insegnante di ragioneria e tecnica.
La mamma, Eleonora Cipriano, dedicò tutta la sua vita all'educazione dei figli due dei quali conseguirono la laurea e gli altri tre si crearono un buon posto di lavoro.
Riportiamo ciò che scrisse il parroco della parrocchia di S. Maria del Torresino, Padova, a proposito della famiglia di Vittadello: "La famiglia è 'impastata di Gesù Eucaristia'. Papà, mamma, sorella maggiore e due fratelli fanno la comunione quotidianamente; gli altri ogni settimana".
La vocazione
Alberto, come i suoi fratelli, frequentò la scuola materna e le elementari presso l'istituto privato "Madame Clair" tenuto dalle suore. Per le medie, il ginnasio e il liceo andò al Collegio Vescovile Barbarigo, sempre di Padova.
Qui, un giorno, incontrò un missionario comboniano che, di tanto in tanto si recava nel celebre collegio per parlare di missioni. Alberto restò colpito dai discorsi del missionario e, un po' alla volta, cominciò a chiedersi se la vita dell'evangelizzatore non fosse adatta anche per lui.
Ma era questa la strada che il Signore aveva tracciato per lui? Questa domanda sarà motivo di tanta sofferenza al nostro giovane.
Alberto, intanto, era entrato in contatto con p. Buffoni, animatore vocazionale a Padova e, preso dall'entusiasmo per la vita missionaria, in data 3 luglio 1951 - aveva terminato la quinta ginnasio - inoltrò a Verona la domanda di ammissione al noviziato.
Spedita la lettera, Alberto partì per un campeggio di 15 giorni (dal 6 al 20 luglio) in montagna con gli Esploratori.
Le prime incertezze
P. Leonzio Bano, incaricato delle vocazioni a livello di Congregazione, pregò p. Buffoni di interessarsi del caso e rispose ad Alberto dicendogli di riflettere bene, di pregare e di consigliarsi prima di una decisione così importante e presa di sua iniziativa.
Non sappiamo che cosa sia successo durante il campeggio, fatto sta che, 15 giorni dopo il ritorno, esattamente in data 4 agosto 1951, Vittadello rispose a p. Bano: "Ho ricevuto con molto piacere la sua risposta alla mia domanda di ammissione nel suo Istituto come aspirante missionario. A dire il vero le sue parole mi hanno fatto seriamente riflettere su una decisione così importante. Infatti ho tardato a scriverle perché in questi giorni ho voluto pensare, pregare e consigliarmi sulla mia vocazione. E mi sembra ora di non sbagliare se ho deciso di attendere e rimandare l'entrata in noviziato ad un tempo più maturo. Continuerò quindi i miei studi nel Collegio Vescovile dove la vocazione, se c'è, troverà un clima opportuno per maturare definitivamente".
Un anno difficile
L'anno scolastico 1951-1952, durante il quale Alberto frequentò la prima liceo, fu un anno difficile per lui. Troppi problemi lo angustiavano, ed egli era un tipo che "somatizzava" le preoccupazioni al punto da star male e anche da ammalarsi.
Prima conseguenza della lotta interiore per la sua vocazione, fu lo scarso rendimento scolastico.
Scrivendo a p. Bano confessava: "Pur avendo fatto il possibile, non riesco a sollevarmi e i professori mi dicono che sono fuori strada. Mi applicherò ancora di più anche se non capisco cosa mi stia succedendo".
Nella stessa lettera continuava: "Quanto alla mia vita spirituale, cerco di avvicinarmi sempre più a Gesù e di pregarlo di farmi diventare missionario. Chiedo anche a Gesù di farmi martire per espiare le mie colpe".
Da altre espressioni si capisce che il nostro giovane, probabilmente, stava attraversando un periodo di scrupoli. E ciò non gli creava un clima adatto al profitto scolastico. Infatti, alla fine dell'anno scolastico, fu rimandato in tre materie.
Noviziato in vista
Il 3 agosto 1952 - Alberto si trovava a Rocca Pietore per una villeggiatura di 20 giorni - il nostro giovane fece nuovamente domanda di ammissione al noviziato, segno che aveva risolto tutti i suoi dubbi. "Le chiedo di entrare nel noviziato delle Missioni Africane appena avrò dato gli esami di riparazione nel mese di settembre. Da tempo coltivo questo pensiero che, nel corso dello scorso anno si è fatto sempre più chiaro. Ho l'approvazione e l'incoraggiamento del mio p. spirituale e ho appena terminata una novena allo Spirito Santo per avere luce e forza".
La risposta di p. Bano fu affermativa e, il 6 ottobre 1952, Alberto Vittadello entrò nel noviziato di Firenze.
Si riteneva l'ultimo
Maestro dei novizi a Firenze era p. Giovanni Audisio. Dopo tre mesi scrisse: "Alberto è un buon figliolo, un po' timido e propenso allo scoraggiamento. Ha bisogno di aiuto e di essere incoraggiato. Non manca di buona volontà e di desiderio di fare bene. Non ha pretese, anzi il credersi molto inferiore agli altri, lo fa sentire in pena. Ha timore di non poter fare ciò che dovrebbe in noviziato e nella vita religiosa. Si accoda con semplicità agli altri con i quali va d'accordo".
Un anno dopo, p. Audisio registrava: "Forse perché proviene dalla scuola pubblica, continua a sentire la sua inferiorità quanto a formazione spirituale rispetto ai suoi compagni provenienti dal seminario. Questo pensiero lo abbatte e lo fa talvolta dubitare della sua riuscita. Ha bisogno di essere incoraggiato e stimolato". Nel mese di giugno del 1953 p. Audisio lasciò il posto di p. maestro a p. Giovanni Giordani, proveniente da Gozzano (Novara) dove era stato padre maestro dal 1948.
Come p. Audisio, anche p. Giordani era un profondo conoscitore dell'anima umana e della psicologia dei giovani. Egli notò subito che l'orizzonte vocazionale di Alberto Vittadello non era del tutto sereno. Quella specie di insicurezza che lo accompagnava da anni, unita al complesso di inferiorità che lo perseguitava, lo portò a dubitare di essere veramente chiamato da Dio per la via della missione.
"Ha avuto delle incertezze quanto alla vocazione - scrisse p. Giordani - ma ritengo siano stati dei vani timori, frutto della sua timidezza, del basso concetto che ha di sé stesso rispetto alla grandezza della vocazione missionaria".
Assistente a Rebbio
Emessa la professione, andò a Verona per concludere il liceo (1954-1956). "E' un ottimo soggetto - scrisse p. Albrigo, superiore degli studenti a Verona. - Dovrà essere incoraggiato. Ha molto buon senso e molto spirito di carità. Avrebbe tante buone qualità se non fosse timoroso. Ad ogni modo l'ho mandato al catechismo e l'ho fatto parlare in pubblica chiesa e vi è riuscito bene anche se sudava freddo".
Nel 1956 Alberto andò a Venegono Superiore (Varese) per lo studio della teologia (1956-1957) ma, dopo un anno, fu inviato a Rebbio di Como come assistente dei seminaristi di quel seminario minore comboniano.
Con i ragazzi rivelò le sue doti di educatore: comprensivo, ma anche equilibratamente esigente. Sempre col sorriso sulle labbra e senza mai perdere il controllo di sé, aiutava i ragazzi a dare il meglio di se stessi.
Il punto forza per aiutarli a vincere i loro difetti e ad acquistare la virtù era, secondo la pedagogia di Alberto, la grandezza e la bellezza della vocazione missionaria vista come collaborazione con Gesù Cristo per salvare le anime per le quali egli era morto in croce.
Sembrava un discorso duro, eppure era quello giusto e andava a segno. Ma questo impegno, e la responsabilità che esso comportava, spaventò Alberto per cui chiese di essere esonerato dall'incarico pena il rischio di un solenne esaurimento. Per un uomo impastato di timidezza come lui, c'era da aspettarselo.
Dopo un anno di quella vita (1957-1958) tornò a Venegono per completare gli studi teologici e prepararsi al sacerdozio.
Venne ordinato sacerdote nel Duomo di Milano dal card. Montini il 2 aprile 1960.
Formatore a Padova (1960-63)
L'esperienza di Rebbio fu positiva nonostante le proteste dell'interessato per cui, appena sacerdote, i superiori mandarono p. Alberto a Padova come "aiutante vicerettore, insegnante di francese, storia e geografia e assistente dei ragazzi".
"Ora che è sacerdote gli passerà la paura e farà molto bene", disse p. Bano. Infatti p. Alberto se la cavò bene soprattutto per quella delicatezza che si accompagnava al suo modo di trattare con gli alunni. Era, inoltre, animato da un grande rispetto verso quei ragazzi nei quali vedeva dei futuri evangelizzatori e forse qualche martire. In lui era ancora viva l'esperienza dei suoi anni giovanili con tutte le sofferenze che li avevano accompagnati. E la sofferenza, vissuta responsabilmente, diventa una buona scuola.
Alla domenica si prestava per il ministero nelle parrocchie o per la predicazione di Giornate Missionarie. Anche il dover chiedere aiuti economici gli pesava come quando a Firenze allungava la lattina dell'olio al contadino senza quasi riuscire a spiccicare parola. Insomma, in questo non era un emulo di Comboni che aveva penna per scrivere, lingua per parlare e faccia tosta per subire delle ripulse.
In una relazione scritta in questo tempo, rispondendo alla domanda: "quali attitudini credi di avere?", rispose: "Intelligenza mediocre, volontà debole, carattere chiuso". E' chiaro che, per uno che si riteneva tale, l'insegnamento e l'assistenza dei ragazzi come vicerettore, appariva una croce non indifferente.
Nonostante le proteste di incapacità, i superiori erano contenti del suo modo di fare. "E' serio, responsabile, equilibrato, sempre sereno. Con i ragazzi ci sa fare e li dirige bene. Dà buon esempio sia in comunità sia con gli esterni. Anche per le lezioni si prepara bene, magari stando su di notte. Nonostante il suo volto tanto giovanile (alcuni ragazzi sembrano più vecchi di lui) si fa rispettare e, di fatto, tutti lo rispettano e gli vogliono bene", scrisse il superiore.
Alla fine dell'anno scolastico 1962, occorreva un Padre per il piccolo seminario comboniano di Sulmona, l'Aquila. I superiori puntarono su p. Alberto: "E la missione? Quando la missione, Padre!". "Porta pazienza, verrà anche quella e forse più presto di quanto pensi".
P. Alberto disse che andava bene e si portò a Sulmona dove, a quel tempo, c'erano 102 seminaristi. Vi rimase per l'anno scolastico 1962-1963 in attesa di essere sostituito da un altro che era in arrivo.
Missionario in Ecuador
Ed ecco finalmente la lieta notizia: il Padre aveva via libera per la missione. Non si trattava dell'Africa, come aveva sempre desiderato, ma l'America Latina, in particolare l'Ecuador.
"Purché sia missione - commentò l'interessato - per me va sempre bene". Così, alla fine del 1963 p. Alberto Vittadello partì per l'Ecuador.
P. Vittadello fu inviato a Santa Maria de los Cayapas, aperta il 6 novembre 1961 e dedicata alla Madonna Assunta, quindi ancora agli inizi, dove c'era quasi tutto da fare.
Questa missione, sperduta lungo il fiume, con gente ancora primitiva, segnò tutta la vita di p. Vittadello, anche se vi rimase solo quattro anni. Qui egli diede il meglio di sé. Qui sentì le sfide dell'inculturazione e si dedicò con amore e tenacia allo studio della lingua che imparò molto bene.
Nel 1967 fu a Rio Verde per 8 mesi e, dal 1967 al 1969, ad Atacames missioni tutte della zona cayapa dove egli praticamente iniziò partendo da zero.
Se la gente gli voleva bene e lo considerava il "suo padre", Vittadello esperimentò la solitudine da parte dei confratelli e la povertà più estrema. La zona poteva essere raggiunta solo risalendo il fiume in barca quando la corrente non era troppo forte.
Vita quasi da eremita
In questa missioncina sperduta lungo il fiume p. Alberto viveva una vita dura, anzi durissima, nella povertà e nella solitudine.
Il 13 ottobre 1967 scrisse al Superiore Generale: "Non sapendo a chi ricorrere penso a lei che riveste l'autorità massima nella Congregazione. Mi trovo in vera necessità perché da alcuni mesi non ricevo aiuti finanziari. Se oltre al disagio dei viaggi e del clima non posso neanche nutrirmi, credo che arriverò molto presto al termine della mia carriera di missionario".
"Ben volentieri ti faccio spedire 100.000 lire perché almeno tu possa mangiare, e farò presente la tua situazione al Vescovo e al Provinciale, p. Pasina", gli rispose il p. Generale.
Le centomila lire si fermarono per strada e la situazione ad Atacames non migliorò molto se, in data 24 luglio 1968, quindi 7 mesi dopo la lettera del Generale, p. Alberto scrisse nuovamente: "Le scrivo in risposta alla sua cortese lettera di parecchi mesi or sono. In essa mi prometteva un aiuto finanziario. Ho aspettato di proposito tanto tempo per vedere se arrivava, ma non è arrivato.
Ora mi sarebbe tanto utile perché mi trovo ad affrontare diverse spese. Dopo otto mesi da solo, finalmente (forse) mi si dà un compagno. Sarei felice di poter almeno cominciare a fare una casetta perché quella dove vivo è presa in affitto e, oltre che scomoda, ha l'inconveniente di altri inquilini al di là della stessa parete di canne di bambù". Il Superiore Generale rimase allibito.
"Mi meraviglio che tu sia stato tanti mesi da solo e ti abbiano mandato a vivere in una casa con altri inquilini. Mi dispiace e mi auguro che ti possano sistemare convenientemente...
Prendo senz'altro nota col desiderio di venirti incontro. Vediamo se potrò trovare qualcosa durante la mia visita alle case dell'alta Italia".
Tra disagi e tribolazioni, p. Alberto evangelizzava e la gente lo seguiva perché vedeva in lui un autentico testimone di quel Vangelo che predicava.
Con i Postulanti in Messico
Nel 1973 il Padre venne inviato in Messico come formatore dei postulanti.
"In Messico i nostri confratelli hanno bisogno di un buon Padre per assistere i nostri giovani messicani nel postulato - gli scrisse il p. Generale (Agostoni) il 21 luglio 1973. Poi aggiunse - Ho pensato a te. So che ti chiedo un grosso sacrificio, ma la formazione ha una certa priorità che dobbiamo rispettare...".
P. Vittadello, uomo obbediente, si dichiarò disponibile, anche se quel compito gli pareva tanto diverso da quello svolto finora tra i villaggi dei cayapas.
Se il Padre Generale e il suo Consiglio hanno pensato a Vittadello per un compito così delicato e in un'altra nazione (anche se la lingua era la stessa), vuol dire che avevano una grande stima di lui, anche se egli, sempre perseguitato dal suo complesso di inferiorità frutto, però, di umiltà, rispose: "Vedremo se riesco".
Non era facile fare il formatore dei giovani in Messico. Anche lì era arrivato il 1968 con la sua contestazione giovanile. Per calmare gli studenti l'esercito era intervenuto con i mezzi blindati e aveva lasciato sul terreno 200 morti...
P. Vittadello ce la mise tutta per essere un valido educatore di futuri missionari. Per questo, oltre che alle più moderne teorie e direttive sfornate dal Concilio Vaticano II e alle direttive dei superiori, (non sempre concordanti tra loro), si appellava alla sua esperienza di missione che gli sembrava qualcosa di fresco, attuale e convincente.
Ma i tempi erano cambiati e anche i giovani non erano più quelli di qualche decennio prima. Il Padre, tuttavia, dava la colpa a se stesso, alla sua incapacità di essere all'altezza dei tempi e dei giovani se non riusciva ad essere convincente...
In una lettera del 19 giugno 1974 si confessò candidamente al p. Generale:
"Sono in difficoltà, anzi, in crisi. E' da parecchio tempo che aspetto per scriverle, ma ora mi decido a farlo. Sono un tipo involuto e assai poco perspicace e perciò sono incapace di un minimo di creatività, cosa che è indispensabile con questi nuovi metodi educativi.
E non creda che sia questa una umiltà finta o che abbia per fine quello di rigettare il lavoro. Assolutamente non è questo. Le sono franco: anche se tutte le volte sono riuscito a superare le varie crisi portando pazienza, io qui non mi trovo. Sono abituato ad avere un sistema ben strutturato, con un orario da seguire... ma qui bisogna creare volta per volta, giorno per giorno, momento per momento quelle iniziative che stimolino i giovani alla risposta di fede e alla scelta missionaria. E io qui non ci arrivo".
"Credi che se tu hai delle difficoltà qualche altro non le avrebbe? Coraggio, pazienza e avanti", gli rispose il p. Generale.
Il p. Generale sapeva bene che le difficoltà, più che nella mancanza di capacità di p. Vittadello, stavano nella situazione di confusione che c'era in giro.
Dalla padella nella brace
Dopo due anni come superiore e formatore dei postulanti a Città del Messico, p. Vittadello si vide dirottato a Xochimilco per coprire il ruolo di padre maestro dei novizi. Se il ruolo di formatore dei postulanti gli incuteva paura, quello di plasmatore di novizi addirittura lo terrorizzava.
Si trovò a condividere l'incarico con un confratello che aveva fatto studi psicologici, ma non aveva assolutamente esperienza di missione. "Io, invece, non sono mai andato a scuola di psicologia, e in una simile situazione anche il dialogo diventa difficile. Quanto alla preparazione dei novizi, mi rendo sempre più conto che è rischioso lasciare tutto all'iniziativa di gruppo. Se si lascia all'iniziativa di gruppo è impossibile intervenire per correggere o dare qualche indicazione. E stando zitti e lasciando andare c'è pericolo di tirar su dei molluschi, non dei missionari".
Queste poche battute scritte al p. Generale ci fanno capire che p. Alberto, diventando maestro dei novizi, era caduto dalla padella nella brace.
Timoroso di far più male che bene ai giovani che doveva dirigere, il 6 giugno 1975, diede le dimissioni dal suo incarico. Ringraziava i superiori della fiducia che avevano riposto in lui, ma proprio gli pareva che fosse giunto il momento di ritirarsi in buon ordine e di tornare, magari, alle sue foreste dei cayapas dove la vita, anche se più dura, era meno complicata. I superiori, a malincuore, furono costretti ad accettarle.
Però non tornò in missione. Fu inviato a Sahuayo, sempre in Messico, come responsabile del seminario minore comboniano. E dobbiamo dire che con i ragazzi, più semplici e più spontanei, il Padre si trovò bene.
Di nuovo in Ecuador
Dopo un lungo periodo di vacanze in Italia, ricevette il via per l'Ecuador. "Sono stato assente dall'Italia per tanti mesi - gli scrisse il p. Generale - e poi c'è stata la programmazione del personale. Spero che tu mi perdoni il ritardo con cui ti scrivo. Ti ringrazio innanzi tutto a nome di Dio e della Congregazione del lavoro che hai fatto in Messico. Hai lavorato bene, anche se a te non sembra".
Bastano queste parole per qualificare il lavoro in Messico del Padre. Poi il p. Generale aggiunse: "Dal primo marzo 1977 appartieni nuovamente all'Ecuador".
Andò a Quinindé dove, oltre alle opere parrocchiali ben avviate, c'erano un'officina e una scuola tecnica. Egli ebbe l'incarico di vice-parroco. Vi rimase dal 1977 al 1980. Dal 1980 al 1987 fu a Borbon dedicato completamente al ministero tra la gente che amava e dalla quale era riamato.
El Carmen vice parroco
Dal 1987 al 1995 fu nella parrocchia di El Carmen. Ma in questo periodo è stato anche per un certo tempo nel postulato comboniano di Quito e poi, per quasi un anno, formatore nel pre-postulato di Bogotà, in Colombia.
Nonostante la leucemia di cui soffriva da 12 anni e che riusciva ad arginare grazie ai controlli medici e alle cure alle quali si sottoponeva, si dedicò con grande spirito di disponibilità a tutti, specialmente agli ammalati per i quali aveva una predilezione tutta particolare.
Scrive p. Claudio Zendron: "Ho vissuto con p. Vittadello dal 1983 al 1995. L'ho conosciuto, l'ho visto lavorare. La sua vita è stata un dono per la Chiesa dell'Ecuador, per i poveri indios Cayapas e per i neri.
Vorrei sottolineare tre aspetti della sua vita. E' stato sempre contento della sua vocazione missionaria. In secondo luogo p. Alberto ha sempre avuto la passione del vangelo da diffondere.
Ma è soprattutto con l'impegno per l'inculturazione del vangelo in mezzo agli indios Cayapas che p. Alberto ha dimostrato di essere un grande missionario.
Ha imparato alla perfezione la loro lingua. In chachi (lingua dei Cayapas) ha tradotto il vangelo, il catechismo e altri libri liturgici. Ha poi preparato una monumentale grammatica della stessa lingua, in due volumi, pubblicata dall'Università cattolica di Esmeraldas con i fondi della Banca centrale dell'Ecuador.
P. Alberto è stato un servo e un sacerdote fedele che il Signore ha dato alla Chiesa. Sarà un intercessore in cielo".
L'Opera "Madre dell'Unità"
Ad un certo punto successe un fatto che cambiò la vita a p. Vittadello. Agli inizi degli anni '90, sulle montagne del Cajas (Cuenca) si verificarono delle "cosiddette" apparizioni della Vergine Santissima ad una ragazza di 17 anni di nome Patricia Talbot. La Madre di Dio si presentò come "Guardiana della Fede".
Il famoso teologo francese, p. René Laurentin, dopo aver studiato queste manifestazioni, diede parere positivo. Intanto la Chiesa cercò di incanalare il fervore popolare verso una risposta autentica, perché gli entusiasmi delle folle che accorrevano non degenerasse in fanatismo.
Frutto di questi fatti fu un rinvigorimento della fede cattolica in tutto il Paese, che da anni era bersaglio delle sette e del materialismo. Giusto in questi anni, anche nella capitale Quito, si formarono numerosi gruppi di preghiera che riunivano gente delle diverse classi sociali. Rifiorì la pratica del rosario e molti tornarono ai sacramenti.
Ognuno può immaginare le perplessità che tutte queste cose suscitarono, anche se il card. Echeverria era, ed è, convinto che quest'Opera sia il nuovo piano del Signore e della Madonna per salvare l'umanità dal proliferare delle sette in America Latina e dall'opera devastante della massoneria.
Il Cardinale chiese l'opera di p. Vittadello in questo Movimento, come un servizio alla Chiesa dell'Ecuador. Il Padre, dopo lunga riflessione e - diciamolo pure - dopo tante più o meno benevoli e velate derisioni da parte dei confratelli, accettò perché era sicuro che per quella strada Dio lo stesse chiamando. Si è sbagliato? Ha indovinato?
Inutile dire che, sia il p. Generale dei Comboniani come il p. Provinciale dell'Ecuador, e la gran parte dei confratelli, erano contrari alla partecipazione di p. Vittadello all'Opera "Madre dell'Unità".
Una lettera determinante
In data 29 settembre 1995 p. Alberto Vittadello scriveva dalla parrocchia di El Carmen al p. Provinciale dei Comboniani dell'Ecuador, e al suo Consiglio, in questi termini: "Reverendi Padri, vi scrivo la presente al fine di comunicarvi che, avendo sentito nella mia coscienza la chiamata di Dio a servire la Chiesa nell'Opera "Maria, Madre dell'Unità", e avendo riconosciuto nell'invito formale di Sua Eminenza il Card. Bernardino Echeverria, una chiara conferma della volontà di Dio non posso sottrarmi a questo compito. Giacché - secondo voi - la detta Opera è fuori dal carisma comboniano ed è totalmente inconciliabile con esso, mi sento obbligato a domandare un anno di assenza dalla Congregazione".
Il Padre Provinciale, Angel Lafita, a nome del suo Consiglio, dopo aver riconosciuto che su tale argomento si era fatto un serio e prolungato discernimento, gli concesse un anno di assenza dalla comunità, a partire dal 20 ottobre 1995.
Scusandosi del tono obbligatoriamente giuridico della lettera, aggiungeva: "Sappi, caro Alberto, che ci incontreremo sempre con molta gioia ed ogni volta che tu desideri venire, la porta è sempre aperta, e anche il cuore".
Prima di tutto, la volontà di Dio
La decisione di p. Vittadello di lasciare la comunità comboniana per dedicarsi all'Opera, gli fu causa di grosse sofferenze, sia per una decisione così grave come è quella di iniziare un altro genere di vita, sia perché sapeva di essere seriamente malato e in pericolo di vita. Già da 10 anni gli era stata diagnosticata la leucemia che poteva ucciderlo da un momento all'altro.
E' chiaro che, per fare una scelta simile e in quelle circostanze, doveva essere convinto che il suo passo corrispondesse ad una precisa volontà del Signore.
Sapeva che, dicendo di no al Cardinale, avrebbe evitato tante grane e si sarebbe assicurata un'esistenza più tranquilla. Ma Vittadello era un tipo che, una volta accertata la volontà di Dio - almeno secondo la sua coscienza - neanche la morte lo avrebbe fatto ripiegare. Se Dio chiama, non si può far finta di non sentire!
Scrive p. Bruno Bordonali, suo compagno di missione e amico carissimo: "La sua preoccupazione di compiere sempre e in tutto la volontà di Dio lo ha portato a fare delle scelte che gli hanno causato molta sofferenza. Egli, tuttavia, non si è tirato indietro e non ha perso la sua serenità".
In seno all'Opera p. Vittadello lavorò bene, con impegno, con dedizione. Alle quattro del mattino era già inginocchiato davanti al tabernacolo in chiesa per pregare. Solo alle otto cominciava la sua giornata fatta di preghiera, di visite ai poveri e di animazione ai vari gruppi del Movimento.
Alla preghiera univa la penitenza: la sua povertà, già eccessiva, lo aveva messo al livello dei più poveri, dei miserabili. Bastava vedere come andava vestito. Il suo cibo era scarso e di cattiva qualità. Il suo motto era "essere un gradino al di sotto dei più poveri". A questo aggiungeva penitenze volontarie e, alla sera, prima di coricarsi su di un pagliericcio, trascorreva lunghe ore in preghiera... Con la leucemia addosso e con la nostalgia di una "patria perduta" (la comunità comboniana) il suo cuore era in continuo Getsemani.
Gli ultimi giorni
Circa un mese prima di morire, il Padre si mise a letto con un po' di influenza per cui non poté recarsi al postulandato per il colloquio settimanale che soleva avere con p. Bordonali. Allora questi pensò di andare da lui e lo trovò piuttosto giù di salute anche se diceva che si trattava solo di una cosa da niente.
Nei giorni successivi, sembrandogli che peggiorasse, il Padre lo visitava con una certa frequenza, finché si decise di portarlo all'ospedale di Quito.
Fu messo quasi subito nel reparto "cure intensive" e sottoposto a sedativi così massicci che lo resero incapace di reggere a un discorso e perfino di scambiare qualche parola con gli altri. Respirava a fatica con l'aiuto di una macchina. I sanitari dicevano che la leucemia si era improvvisamente risvegliata e stava facendo il suo corso inesorabile, per cui non c'era più niente da fare.
Due settimane dopo il ricovero, spirò, senza mai perdere la serenità del suo volto. Era il 4 febbraio, e il Padre aveva 62 anni.
Rimase esposto nella cappella dell'Opera da lunedì sera fino a giovedì, giorno dei funerali. Ogni giorno venivano celebrate almeno due sante messe con la partecipazione di moltissima gente. Anche il Card. Echevarria volle celebrare circondato da un folto gruppo di comboniani.
I funerali si sono svolti giovedì 6 febbraio alle ore 17.00 nella chiesa di Santa Teresina di Quito dove, poi, è stato sepolto (nella cripta) per espresso desiderio dei membri del Movimento al quale aveva dedicato l'ultimo periodo della sua vita.
Presiedeva la messa funebre mons. Gonzales, arcivescovo di Quito, dodici comboniani concelebrarono e il p. Provinciale tenne il discorso funebre.
Un improvviso sciopero dei mezzi pubblici ha impedito la presenza di torpedoni già prenotati da Esmeraldas e da El Carmen. Tuttavia l'affluenza di fedeli fu massiccia.
Per i funerali sono andati dall'Italia anche la sorella Maria e due fratelli con le mogli. Essi sono rimasti sorpresi nel constatare come il loro fratello fosse amato e stimato dalla gente.
Per i Comboniani questa morte è stato un colpo duro "perché - ha detto il p. Provinciale - oltre all'amicizia che ci univa da anni, p. Alberto era un modello di sacerdote missionario. La sua fede fu sempre semplice e robusta. Ha amato la Madonna con tenerezza filiale e sempre si è avvalso del suo appoggio materno.
Ha portato per una dozzina di anni la croce della malattia senza farla pesare a nessuno e con amore la offriva per la conversione dei peccatori.
Sapeva vivere con intensità di fede le piccole cose della vita. Tutti noi ringraziamo il Signore di averlo incontrato sul cammino della nostra vita.
P. Alberto amava davvero Dio e riusciva a trasmettere questo amore a quanti incontrava nella sua strada di sacerdote sempre disponibile per tutti e in qualsiasi momento".
Il suo corpo, nuovo granello di frumento messo sotto terra a marcire perché porti molto frutto, è rimasto in Ecuador per essere fermento di evangelizzazione e di conversione per tanti cristiani che hanno smarrito la fede.
P. Lorenzo Gaiga, mccj
Da Mccj Bulletin n. 197, ottobre 1997, pp. 62-71
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The third of six children, five boys and a girl, Alberto was born into a well-off, but very devout, family. His father Ugo had a degree in Economics and Commerce, and was an Accountant as well as teaching accountancy and allied subjects. Eleonora (née Cipriano), his wife, spent her whole life bringing up the children well. Two of them obtained degrees, and three others made careers for themselves.
The Parish Priest of S. Maria del Torresino, Padova, noted that the family was centred on the Eucharist: the parents, the eldest girl and two of the boys were daily communicants, and the others weekly.
Vocation
Alberto and his brothers attended Infant and Primary school in a private institute called "Madame Clair", run by Sisters; then completed their secondary education in the Collegio Vescovile Barbarigo - all in Padova.
Here he met a Comboni Missionary who came to celebrate Mass in the college from time to time, and talk about the Missions. Alberto was struck, and started thinking that maybe that was the life for him. However, the question of whether the Lord wanted him to follow that road or not was to be the cause of considerable heartache.
He was contacted by Fr. Buffoni, the "recruiter" in Padova, and became so enthusiastic that on 3 July 1951, having completed 5th Form, he wrote to Verona asking to enter the Novitiate. Then he went off for a fortnight's camping with the Scouts.
First doubts
Fr. Leonzio Bano, who oversaw all vocation matters, asked Fr. Buffoni to make enquiries, and answered Alberto urging him to think it over well, to pray and to ask advice before making such an important decision, rather than writing impulsively.
Indeed, two weeks after coming back from camp, Vittadello replied on 4 August:
"... To tell you the truth, your words have made me think seriously about such an important decision. I did not answer at once because I wanted to pray and take advice about my vocation. And now I think I am not making a mistake in putting off my entrance to the novitiate to a later date ..."
A hard year
The first result of the interior struggle was poor work at school. He was in Lower Sixth, and his preoccupations made him feel unwell, and unable to concentrate. He wrote to Fr. Bano that he could not "pull himself together", and the teachers were becoming irritated. He was making great efforts in his spiritual life (and maybe going thorough a period of scruples). It was too much for him, and he had to repeat the tests in three subjects in the Autumn.
Into the Novitiate
In 3 August 1952 Alberto, his doubts resolved, asked once more to be admitted to the Novitiate as soon as he had re-sat his three subjects in September. Things had become clearer, and the original idea was the one he wanted to follow: "I have the approval and encouragement of my spiritual director, and I have just finished a novena to the Holy Spirit".
Fr Bano replied in the affirmative, and Alberto Vittadello entered the Novitiate in Florence on 6 October 1952.
The Novice Master was Fr. Giovanni Audisio. After the first three months, he wrote: "Alberto is a good lad, a bit timid and needs to be encouraged. He has plenty of good will and wants to do well. He has no pretences; indeed, he feels so much inferior to the others that it causes him to suffer".
A year later, Fr. Audisio remarked: "Maybe, coming from a public school, he feels his spiritual formation falls short of that of the ones who have come from the seminary. He needs to be encouraged and stimulated."
In June 1953 Fr. Audisio handed over to Fr. Giovanni Giordani, who had been Novice Master in Gozzano since 1948. But he too was well versed in the ways of human souls and the psychology of young men. He noted at once that Alberto was troubled: an in-built insecurity and his feeling of inferiority were making him doubt the reality of his vocation. But Fr. Giordani was able to note: "I believe they were empty fears, due to his timidity and the low opinion he had of himself, in the face of the greatness of the missionary vocation."
Prefect at Rebbio
After his Profession he went to Verona to finish Humanities (1954-1956). Fr. Albrigo was superior of the students. "A top-class person. He needs encouragement. Great common sense and spirit of charity. He would have many good qualities, if he were not so timid. Anyway, I sent him to teach catechism and made him speak in church, and he managed well, even though he was in a cold sweat!"
In 1956 Alberto went on to Theology at Venegono Superiore. After a year he was sent as "Brother Assistant" to the boys in our junior seminary at Rebbio. Here all his qualities as an educator came out: understanding but firm, smiling, never losing his self-control, he helped to bring out the best from the boys. In his opinion, the real motivation to get them to overcome their faults and grow in virtue was the thought of the greatness and beauty of the missionary vocation, seen as collaboration with Jesus in the salvation of the souls for which He had died on the Cross. It might have seemed over their heads, but it had an effect.
However, the responsibility of his task frightened him, and he asked to be released, because he felt a nervous breakdown approaching. So, after a year, he was back in Venegono, to complete his Theology and prepare for the priesthood. He was ordained in the Duomo in Milan by Cardinal Montini on 2 April 1960.
Formator at Padova (1960-63)
His work at Rebbio was considered positive despite his misgivings. So, straight after his ordination he was assigned to Padova as second Vice-Rector, teacher of French, History and Geography, and "Father Assistant" to the boys.
"Now he's a priest, a lot of his fears will disappear, and he'll do well," opined Fr. Bano. Indeed, he did very well, especially through his discreet manner with the boys. He felt a great respect for them, seeing in them future evangelizers, and maybe a martyr or two. He remembered his own past anxieties, and that gave him a good touch.
On Sundays he would help in parishes or make a Mission Appeal.
Around this time he wrote the following in a questionnaire, in answer to the question: : "Mediocre intelligence, weak will, shut-in character". Obviously, it must have been a real cross to be Vice-Rector with that opinion of himself! Yet the superior was pleased: "He is serious, balanced, always serene, with a sense of responsibility. He is good with the boys and guides them well. He gives good example both in community and outside. He prepares his lessons well, sometimes staying up late. Despite his youthful face (some of the boys look older!), he has authority, and in fact they all like and respect him".
At the end of the 1962 school year, a father was needed for the Comboni seminary at Sulmona; the superiors thought of Fr. Alberto:
"And what about the Mission, Father?"
"Be patient. It will come, maybe sooner than you think."
With this, he went off to Sulmona, where there were 102 boys. He stayed there for one school year, hoping to see his replacement.
Missionary in Ecuador
And the good news finally came: appointment to the Mission. Not in Africa, but in Latin America: Ecuador.
"As long as it is mission, it is fine for me," was his comment. And at the end of 1963 he set sail.
His first appointment was to S. Maria de los Cayapas, opened on 6 November 1961 and dedicated to the Assumption: still early days, with plenty to do. The mission lies along the river, with a primitive population: it marked the whole life of Fr. Vittadello, though he stayed only four years. He threw himself into the work. Here he felt all the challenge of inculturation, and made a great effort to learn the difficult language, becoming fluent.
He spent 8 months of 1967 at Rio Verde, and two years (1967-9) at Atacames, also among the Cayapas, and all only recently founded. The people loved him and called him their "father", but he felt cut off from confreres, and endured great poverty. The only transport was by dug-out on the river, when it was not in flood.
Almost a hermit
On 13 October 1967, he wrote to the Superior General: "Since I do not know to whom to turn, I am writing to you, as the highest authority in the Congregation. I am in real need, as I have received no help for months. If, on top of the travelling and the climate I have nothing to eat, I think my missionary career will come to an early end".
The Superior General sent him 100,000 lire, but they got held up somewhere. On 24 July 1968, Fr. Alberto tried again, explaining all his problems. The Superior General sent... the best answer he could: "I will certainly take note of everything, and hope to help in some way. Let us see what I can find during my official visit to the houses in Northern Italy".
So, among tribulations and discomfort, Fr. Alberto evangelized. The people followed him, because they had before them an authentic example of the Gospel he was preaching.
With the Postulants in Mexico
His past caught up with him. Fr. General (Agostoni) wrote to him in July 1973: "Our confreres in Mexico need a good father to assist our young postulants. I though of you. I know I am asking you to make a big sacrifice, but formation has a certain priority, which we must respect..."
Obediently, Fr. Vittadello expressed his willingness, though the new job was a far cry from what he had been doing among the hamlets of the Cayapas. But the fact that the superiors thought of him for such a delicate task, in a new country, shows how much they esteemed him. He himself, with his deep sense of inferiority - and humility - only said: "Let's hope I manage!"
It was not an easy time to take charge of young men. The "1968 syndrome" had reached Mexico too, and demonstrations had been put down by the army, with 200 deaths. Fr. Vittadello, as usual, did his utmost, using all the modern theories and the directives of Vatican II and the superiors, as well as his mission experience, which he saw as something fresh, real and convincing.
But times had changed, and even the young men were not the same as those of 10 years previously. Naturally, Fr. Alberto blamed himself for not being able to keep up with the times... He wrote to the Superior General on 19 June 1974:
"I am in trouble - well, in a crisis. I have waited a long time to write, but now I have decided to go ahead. I am too introspective and lacking in perception, so I have no creativity, and that is indispensable with these new formation methods. Do not think this is false humility, or that I am trying to get out of the work. Absolutely not. I will be frank: I have always managed to get over a crisis by being patient, but here I cannot fit in. I am used to having a well-structured system and a time-table to follow... but here, every time, every day, every moment, one has to create initiatives to stimulate the young men in their faith-response and their missionary option. And I cannot manage."
The General urged him to stick to it: "Do you think you have problems that nobody else would have? Courage, patience, and keep on!" Father General knew that the difficulties arose from the situation, rather than the lack of ability of Fr. Vittadello.
From the frying pan...
After two years in the Postulancy in Mexico City, Fr. Alberto was sent to be Novice Master at Xochimilco, on the outskirts. If his earlier role had given him fears, the new prospect terrorized him!
He shared the task with a confrere who had studied Psychology, but had no mission experience. "On the other hand, I have never been to a psychology school, and dialogue becomes difficult in a similar situation. As regards the formation of the novices, I am increasingly aware that there is a great risk to leave everything to group initiatives. If we do that, then it is impossible to intervene to correct someone or give direction. And if we keep quiet and let things take their course, then the danger is we get softies, not missionaries!"
These few lines to the Superior General indicated that, in becoming Novice Master, Fr. Alberto had fallen from the frying pan into the fire!
Afraid of doing more harm than good, he resigned on 6 June 1975, thanking the superiors for the trust placed in him; but it seemed the time had come to withdraw gracefully and return - possibly - to his forest among the Cayapas, where life might be harder, but is certainly less complicated. The superiors accepted, with regret. However, was kept in Mexico, and sent to be Rector of the junior seminary at Sahuayo. With younger boys, more open and straightforward, he was able to work well.
Back to Ecuador
Two years later, after a good holiday in Italy, he received his re-assignment to Ecuador. The Superior General wrote: "Thank you first of all in God's name and that of the Congregation for your work in Mexico. You have done well, even if you do not think so." This sums up what he achieved during his time in Mexico.
Then Fr. General added: "As of 1 March 1977, you belong to Ecuador once again."
He went to Quinindé - a flourishing and active parish, with workshops and a technical school - as curate, and worked there from 1977 to 1980- Then he was pastor at Borbon for the next seven years.
From 1987 to 1995 he was curate in the parish of El Carmen, although he spent periods away: some time in the Postulancy in Quito, and almost a year looking after the pre-postulants in Bogotá, Colombia.
He had been suffering from leukemia for 12 years, keeping it under control with regular check-ups and medication. He did not let this alter his style: a great openness to everyone, especially the sick, for whom he had a special feeling.
Fr. Claudio Zendron writes: "I was with Fr. Vittadello from 1983 to 1995. I got to know him, and have seen him at work. His life was a gift to the Church in Ecuador, to the Cayapas indios and to the Afros.
I would like to stress three aspects: he was always very happy in his missionary vocation; he always felt a passion for the spreading of the Gospel. But above all, I think he showed his greatness as a missionary in his effort to inculturate the Gospel among the Cayapas.
He learned their language (Chachi) perfectly. He translated the Gospel, the Catechism and other liturgical books. He also put together a monumental grammar of Chachi, in two volumes. It was published by the Catholic University of Esmeraldas, with funds from the Central Bank of Ecuador.
Fr. Alberto was a faithful servant and priest given to the Church by the Lord. He will be an intercessor in Heaven."
The `Opera' of the "Mother of Unity"
An event turned Fr. Vittadello's life in a completely different direction. Early in the nineties there took place the alleged apparitions of Our Lady to a girl of 17 called Patricia Talbot, in the mountainous region of Cajas (Cuenca); Mary presented herself as the "Guardian of the Faith". The well-known French theologian René Laurentin studied the phenomena, and gave a positive opinion. Meanwhile the Church was trying to guide the fervour and enthusiasm of the people towards an authentic response, to stop it degenerating into fanaticism.
There was a definite surge in the Catholic faith in the whole country, which has been heavily invaded by sects and materialism. Right at this time, prayer groups formed in Quito, and brought together people of all social levels. The devotion of the Rosary flourished, and many people returned to the Sacraments.
Naturally, there was a great deal of wonder and of puzzlement. But Cardinal Echeverria, Primate of Ecuador, was, and still is, convinced that the Opera that sprang up is a new plan of the Lord and Our Lady to save humanity from the proliferation of sects in Latin America, and from the destructive activities of Freemasonry.
The Cardinal asked Fr. Vittadello to work in the Opera, as service to the Church in Ecuador; and after long reflection, he accepted, although both the Superior General and the Provincial were against the idea, as well as a good number of the confreres in the Province.
Crossing the Rubicon
On 29 September 1995 Fr Alberto Vittadello wrote to the Provincial of Ecuador and his Council:
"Reverend Fathers, I am writing to inform you that, having felt in conscience the call of God to serve the Church in the Opera of "Mary, Mother of Unity", and having recognised in the formal request of His Eminence Cardinal Bernardino Echevarria a clear confirmation of God's Will, I cannot draw back from this task. Since - in your opinion - this Opera does not fall within the Comboni charisma, and is indeed totally out of line with it, I feel I must ask for a year of absence from the Congregation".
Fr. Angel Lafita and his Council, recognising that it was a decision taken after much soul-searching, granted a year of absence from 20 October 1995. Underneath the formal wording of the letter, Fr. Lafita added: "Alberto, you know that we will always be happy to see you, and any time you wish to call in, the door is open, and also our hearts."
God's will, first and foremost
The decision to leave his Comboni community to dedicate himself to the Opera caused great pain: it was a decision to start a new kind of life, and he was aware that he had been suffering from leukemia for 10 years. Obviously, to make such a choice in such circumstances, one has to be convinced that the step is in answer to a specific call from the Lord.
Fr. Bruno Bordonali, a good friend and companion in the mission, writes: "His concern to do God's will always and in everything caused him to make choices that brought great suffering. But he never wavered, and never lost his serenity."
As always, Fr. Alberto gave his all in the Opera: commitment and dedication, He would be in church at 4 a.m. His working day began at 08:00: a long day of prayer, visits to the sick, animation of groups belonging to the Movement.
To prayer he added penance: his poverty had always been extreme: it was enough to look at the clothes he wore. He lived like the poorest, ate poor-quality food very frugally. His motto was: "Be one step below the poor". He did additional penances, and before going to sleep would spend a long time in prayer. Add to this his illness and his feeling of "home-sickness" for the Comboni community, and we have a life of great physical and moral suffering.
Final days
About a month before his death, he went to bed with influenza, and could not go to the Postulancy for his weekly encounter with Fr. Bordonali. The latter decided to go and see how he was, even though he said it was nothing serious. But in fact, he looked very bad, and Bordonali went to see him more often, until finally he decided to take him to hospital in Quito.
He was immediately put into intensive care, and given high doses of sedatives, which made him incoherent. He breathed with the help of a respirator. The medical staff said that his leukemia had gone critical, and that there was nothing much they could do. Two weeks later he died, his face still serene. It was 4 February, and he was 62 years old.
The body lay in the chapel of the Opera until Thursday the 6th., the day of the funeral. At least two Masses were celebrated each day, always with a crowd of people. Cardinal Echevarria himself came to celebrate the Eucharist, with a large group of Comboni Missionaries.
At 17:00 on Thursday the Requiem took place in Santa Teresina church in Quito, and was buried in the crypt, at the express wish of the members of the Movement to which he had dedicated the last part of his life.
Archbishop Gonzalez of Quito presided, 12 Comboni priests concelebrated, and the Provincial gave the funeral oration. A sudden transport strike prevented the mourners from Esmeraldas and El Carmen from taking part, but there was an enormous crowd just the same. His sister Maria and two brothers with their wives arrived from Italy for the funeral, and were amazed to see how much their brother had been esteemed and loved.
The Provincial summed up the reasons for this. His death had come as a blow to the Comboni community because, apart from the years of friendship, Fr. Albert had been a model of a missionary priest. His faith had always been simple and strong. He had loved Our Lady tenderly as a son, always calling on her maternal support.
For 12 years he carried the cross of sickness without being a burden himself, and offered his sufferings for the conversion of sinners.
He lived the small circumstances of life with intense faith. He truly loved God and was able to communicate this love to those he met - and he was open to anyone, at all times.
"We all have reason to thank the Lord for having walked part of life's way with him."