In Pace Christi

Aldegheri Gino

Aldegheri Gino
Data di nascita : 18/09/1917
Luogo di nascita : San Bartolomeo delle Montagne (VR)/I
Voti temporanei : 11/02/1953
Voti perpetui : 11/02/1959
Data decesso : 25/05/1998
Luogo decesso : Verona/I

Gino Aldegheri era il più giovane di 12 figli, undici maschi e una sola femmina. Due di essi morirono a distanza di 5 giorni nella guerra del 1915-1918 e, poco dopo, moriva di crepacuore anche l’unica sorella. Un altro fratello, “Gigi dei Aldegheri”, in epoca più recente divenne sindaco di Selva di Progno, il comune dal quale San Bartolomeo dipende.

Il sacerdote diocesano don Gioacchino Gaiga, compaesano di Fr. Gino e oggi missionario a Cuba (ottenne il permesso di recarsi nell’isola dopo la visita di Fidel Castro al Papa, nel 1996), in un suo libro di oltre 300 pagine racconta la breve biografia dei 49 sacerdoti e religiosi provenienti dal suo paese che conta appena 350 anime. Ebbene, in questo volume ci sono delle notizie interessanti sul nostro Fr. Gino.

Sappiamo, per esempio, che la contrada Aldegheri, dove Fr. Gino è nato, è una di quelle che ha dato il maggior numero di vocazioni alla Chiesa rispetto al resto del paese, che anche gli Aldegheri provengono da quelle “popolazioni germaniche che ricevettero in regolare investitura da Bartolomeo della Scala, vescovo di Verona, una grande e ben determinata estensione di terreno in Roveré di Velo e siti finitimi deserti e disabitati. San Bartolomeo era, appunto in questi ‘siti finitimi’, coperti da fitte boscaglie di faggi e di carpini”. L’Atto notarile al riguardo è del 5 febbraio 1287.

Si trattava di popolazioni fortemente cristianizzate (e questo spiega il fiorire di vocazioni anche nei secoli successivi) e molto industriose. Abbattendo le foreste, ricavavano carbone vegetale ottenendo, nello stesso tempo, vasti pascoli adatti all’allevamento e alla produzione di latte, burro e formaggio. Lavoravano il legno, il ferro, la pietra e, d’inverno, producevano il ghiaccio che conservavano nelle ghiacciaie per l’estate. Anche ai nostri giorni si trovano in zona i segni di queste “industrie di prodotti da esportazione” che assicuravano un certo benessere.

Emigrare

Nel 1929, “quello della grande gelata” che uccise piante e animali, essendo la famiglia Aldegheri numerosa e la terra da lavorare ormai poca, i membri si trasferirono a Marcellise di San Martino Buon Albergo, un paese a pochi chilometri da Verona, dove acquistarono una campagna fertile e una grande casa. Un fratello però rimase a San Bartolomeo a lavorare la terra degli avi e con lui rimase anche Gino. Deduciamo questo da una lettera del parroco di san Bartolomeo, don Antonio Colognato (parroco dal 1919 al 1952), scritta in data 25 giugno 1950, nella quale si dice: “Il sottoscritto parroco dichiara ed attesta che il giovane Aldegheri Gino Bruno, fino all’anno 1938 ha dimorato in questa parrocchia di San Bartolomeo d. M. e si è mantenuto sempre libero da ogni impedimento e vincolo religioso”.

Quindi, stando alle parole del parroco, solo nel 1938 Gino si unì al grosso della famiglia a Marcellise, anche se, probabilmente, andava e veniva a seconda delle stagioni e dell’urgenza dei lavori da fare.

Allo scoppio della seconda guerra mondiale Fr. Gino fu richiamato alle armi. Apparteneva al corpo degli Alpini. Trascorse due anni, dal 1939 al 1941, a Bassano del Grappa e poi fu mandato a combattere sul fronte greco-albanese. Ma dopo l’armistizio tra Italia e America e la conseguente invasione tedesca della nostra Penisola (8 settembre 1943), con tanti altri soldati italiani si diede alla macchia per non finire nella Repubblica Sociale di Salò (fondata da Mussolini il 23 settembre 1943) o nei campi di sterminio in Germania. Un nipote ricorda che più di una volta i fascisti andarono a casa a cercare lo zio. Allora egli si rifugiava nella doppia soffitta preparata apposta, insieme ad un suo cugino che era nella stessa condizione di fuggiasco, e così poté salvarsi.

La vocazione

Nel suo libro “Dal paesello incontro al mondo”, don Gioacchino Gaiga ci parla anche della vocazione missionaria di Fr. Aldegheri. Sentiamolo: “Il lavoro dei campi lo occupò fino all’età di 33 anni, quando prese la decisione, a lungo maturata, di abbracciare la vita religiosa e missionaria tra i fratelli comboniani. Era l’anno 1950: un anno dopo che la nipote e futura suor Alfonsina aveva deciso di entrare nell’Istituto delle Orsoline. Alla nipote aveva detto: ‘Se tu hai avuto il coraggio della tua scelta in così giovane età, devo decidermi anch’io per quello a cui mi sento chiamato da tanto tempo’. E senza altri indugi si mise sulla via delle Missioni”.

La domanda di entrata tra i Comboniani, scritta in bella calligrafia e in buon italiano, porta la data 24 giugno 1950. In essa, oltre al resto, si dice: “Il sottoscritto già da molto tempo sente in sé il desiderio di dedicare la propria vita ad opere di bene... Dichiara di essere pienamente libero nella scelta della propria strada ed è animato solo dalla gloria di Dio e dal bene delle anime...”.

Il parroco di Marcellise, don Leonello Masconale, aggiunse: “Gino tiene ottima condotta e da tutti è stimato e ammirato per la sua pietà e per lo zelo apostolico”. Questa ultima frase del parroco ci fa capire che il nostro futuro missionario collaborava in parrocchia come animatore.

In un altro scritto il parroco precisa che Gino: “È presidente di Azione Cattolica e frequenta compagni ottimi. Inoltre è già a conoscenza degli obblighi derivanti dai voti religiosi ed è disposto ad assumerli liberamente. Come salute è ottima, specialmente dopo l’operazione all’ulcera” (Marcellise 30 giugno 1950). Quindi abbiamo saputo che, prima di entrare tra i Comboniani, Gino si è sottoposto all’operazione di ulcera, un’operazione piuttosto seria a quel tempo.

I suoi nipoti affermano che lo zio era già missionario prima di entrare tra i Comboniani. Partecipava alla messa ogni giorno (allora era al mattino prestissimo), prima di recarsi nei campi a lavorare e faceva la comunione. Inoltre era di esempio per la sua bontà, carità e disponibilità ad aiutare tutti.

Gino, però, era anche un tipo molto allegro e vivace. Alla domenica, dopo le funzioni, andava con i compagni all’osteria a bere un bicchiere, a raccontare qualche barzelletta e a cantare. Sì, perché a quei tempi, i giovani solevano trovarsi insieme per cantare le canzoni popolari improvvisando dei magnifici cori. Non mancava neppure qualche partita a bocce o a carte. Insomma Gino era un uomo autentico anche se non si poteva dire “come tutti” perché aveva un qualche cosa in più, come impegno cristiano, rispetto ai suoi coetanei.

Novizio a Gozzano

Il 12 novembre 1950, dopo la festa di San Martino che aveva segnato una tappa nell’attività agricola e i grossi lavori della campagna lasciavano il posto alla quiete invernale, Gino batté alla porta del noviziato di Gozzano. Un enorme, severo e massiccio fabbricato, adagiato sulla sommità di un colle, accanto alla basilica e alla sede dei vescovi di Novara fino al 1940, lo accolse. Già seminario diocesano dal 1700, passato ai Gesuiti, come noviziato nel 1900, e quindi ai Comboniani dal 1947, il fabbricato aveva urgente bisogno di essere restaurato.

Anche Gino, con una folta schiera di aspiranti Fratelli missionari, dovette rimboccarsi le maniche per portare migliorie all’edificio che accusava il logorio dei secoli. Non solo, ma i missionari possedevano anche una stalla con mucche, galline, conigli e maiali. La piccola fattoria, che contribuiva al sostentamento di un centinaio di novizi tra futuri sacerdoti e Fratelli, era alimentata da appezzamenti di terreno che alcuni proprietari di Gozzano, affidavano gratuitamente ai Comboniani per il taglio del fieno. Nella stagione propizia, dunque, quei giovani si alzavano prestissimo al mattino per la raccolta del fieno. “Sono passato dalla campagna ai campi - scrisse Gino ai fratelli - ma dicono che questa è la strada che porta in Africa, quindi la percorro volentieri”. Fin dall’inizio della sua vita missionaria il nostro giovane mostrò una grande disponibilità all’obbedienza che esercitò con allegria e prontezza. Questa sarà una caratteristica di tutta la sua vita.

Le giornate trascorrevano serene tra lavoro manuale, preghiera e studio delle Regole dell’Istituto. Ma c’erano anche ampi momenti di ricreazione con passeggiate e tanta allegria. Intanto il giorno tanto atteso si avvicinava.

Missionario Comboniano

Dopo quattro mesi di preparazione, il 19 marzo 1951 Gino fece la vestizione e iniziò il noviziato vero e proprio. Il suo padre maestro, P. Giovanni Giordani, scrisse: “Ha iniziato bene il noviziato e va avanti con impegno. Sarà un ottimo fratello perché è umile e sottomesso. È uomo di buon senso, piuttosto calmo e ponderato, va d’accordo con tutti. È un animo sereno”.

L’11 febbraio 1953 emise i tre voti di povertà, castità e obbedienza con i quali diventava Fratello Missionario Comboniano a tutti gli effetti. Egli, dunque, sperava di poter partire immediatamente per la missione, invece i superiori gli fecero esercitare il voto di obbedienza, mandandolo, come ortolano, a Venegono Superiore dove, allora, c’era lo studio teologico dei Comboniani. Andare in missione o aiutare chi si preparava per la missione, assicurando verdura fresca e abbondante, era sempre un “essere missionario”.

In Sudan meridionale

Il primo luglio 1954 Fr. Gino poté salpare per il Sudan, la terra tanto cara ai Comboniani perché là aveva lavorato ed era morto il beato Daniele Comboni. Fu subito inviato a Kayango, nella parte meridionale del Paese. Kayango, fondata nel 1904, era uno dei primi frutti del lavoro missionario in Sudan, dopo la persecuzione del Mahdi.

Quando vi giunse Fr. Gino, la missione era molto sviluppata con una bella chiesa, le scuole e un gran numero di cristiani. Il primo lavoro del nuovo venuto fu quello di apprendere la lingua, almeno le espressioni fondamentali per farsi capire dalla gente. Fu un lavoro improbo perché, a 37 anni, il cervello aveva perso un po’ della sua naturale elasticità. Gli riuscì meglio il lavoro nell’orto e i mille lavori che una missione così vasta e così organizzata richiedeva.

Nei giorni di carestia, quando non c’era più niente da mangiare, imbracciava il fucile e usciva nella palude, spesso con l’acqua fino alla cintola, per procurare qualche faraona selvatica che finiva in pentola.

Il clima difficile, tra insetti e zanzare, incise subito sulla sua salute. E Fr. Gino cominciò a lottare contro i frequenti attacchi di malaria che lo prostravano fino a ridurlo uno straccio. “La malaria è una brutta bestia - scrisse ai suoi - perché sembra che ti porti sull’orlo della tomba, ma poi passa e hai la sensazione di ritornare a vivere. Ormai mi sono abituato a questi scherzi per cui, quando arriva, mi metto a letto e aspetto che passi. Anche gli altri missionari, ogni tanto, fanno quello che faccio io, cioè si ammalano, così ci facciamo coraggio”.

Due anni dopo, nel 1956, passò alla missione di Thiet, una missione fondata nel 1949, quindi ancora in via di sistemazione. Fr. Gino si prestò anche per lavori in muratura, ma sempre alle dipendenze di altri fratelli più esperti perché rifuggiva dal ruolo di responsabile. Vi rimase fino al 1961. Passò, quindi, alla missione di Mayen, anche questa di recente fondazione e situata fra la tribù denka come le altre due. Il compito di Gino era quello dei lavori di manutenzione ordinaria degli ambienti e la coltivazione dell’orto.

Nel 1964 fu espulso dal governo musulmano nel giro di 24 ore con tutti gli altri missionari e suore.

Praticamente la vita missionaria vera e propria di Fr. Gino Aldegheri è racchiusa nel decennio 1954-1964, un decennio molto intenso se pensiamo che in esso il Sudan raggiunse l’indipendenza dall’Inghilterra (1956), che iniziò la guerriglia tra Nord a maggioranza araba e Sud a maggioranza nera, che la Chiesa subì una terribile persecuzione con carcerazioni, torture e uccisioni di sacerdoti africani e di semplici cristiani.

Eppure quella Chiesa tribolata, che nel 1964, alla cacciata dei 300 missionari, contava appena un vescovo africano, mons. Ireneo Dud, e 20 sacerdoti locali, ha saputo camminare con le proprie gambe. E oggi, pur nella persecuzione che continua e nel clima di guerra interna con tutte le sofferenze che una simile situazione comporta, è molto fiorente.

Un vero testimone

Le testimonianze su Fr. Gino rilasciate dai superiori con i quali è vissuto, sono significative: “Uomo di gran buona volontà, di amore alla Congregazione e alla vita religiosa. È stimato anche dagli africani i quali, vedendo la sua difficoltà nell’esprimersi, ammirano la sua laboriosità e la sua continua disponibilità ad aiutare tutti, specie gli anziani e gli ammalati. Trova tempo anche per confezionare qualche gioco per i bambini e ciò lo ha reso popolare” (P. Giuseppre Cavallera, Thiet).

“Fr. Gino è di esempio in comunità per l’impegno che dimostra nella preghiera e per la carità con i confratelli e con la gente” (P. Gaetano Briani, Wau).

“Religioso esemplare, obbediente, attivo, di nessuna pretesa, di soda pietà. In tutte le sue azioni è animato dal vero desiderio della salvezza degli africani. Salvezza spirituale e anche salvezza materiale. Ha insegnato ad alcuni giovani a lavorare la terra per ricavarne buoni prodotti, ha anche istruito altri nei mestieri più elementari come un po’ di falegnameria e di muratura con buoni risultati perché è ben voluto, quindi seguito” (P. Raffele Tessitore, Kayango).

“Se devo dire qualcosa di Fr. Gino devo affermare che è stato un autentico missionario. Ha sofferto molto a causa della salute. Ma ha sofferto anche a causa di un certo isolamento dovuto alla sua difficoltà ad esprimersi nella lingua dei denka. Ciò non impedisce che sia un vero testimone con l’esemplarità della sua vita e la bontà del suo cuore” (P. Giulio Rizzi).

La lunga giornata italiana

Giunto in Italia, Fr. Gino andò nella casa dei Comboniani di Brescia (1964-1965) e si dedicò all’animazione missionaria e vocazionale in quel seminario. L’esperienza della sua vita missionaria era indubbiamente un grande stimolo per quei ragazzi che si preparavano alla vita missionaria. Poi passò a Gordola in Svizzera (1965-1966) dove si dedicò all’assistenza di alcuni confratelli anziani e bisognosi di cure. Pur non essendo infermiere diplomato, il nostro Fratello aveva un tatto tutto particolare con chi soffriva. Quindi passò a Gozzano (1966-1967), sede del noviziato. Il padre maestro, Antonio Zagotto, disse: “Abbiamo bisogno di uno che dia buon esempio ai giovani di oggi”.

Ma il tiro più lungo in Italia fu quello di Roma (1967-1981) nella sede della Curia generalizia. In questo periodo diede un determinante aiuto a P. Cirillo Tescaroli che lavorava nella stampa e nella spedizione dell’Agenzia missionaria AIMIS. Quindi passò a Trento (1981-1986) e a Padova (1986-1991) dove c’è il postulato Fratelli. Chi più di Fr. Gino poteva dare una spinta a quei giovanotti che stavano per imboccare la sua stessa strada? Per ultimo fu a Rebbio, Como (1991-1997) dove si dedicò all’accoglienza dei confratelli anziani. Da qui passò a Verona per consegnare la sua anima a Dio.

Il lavoro umile, nascosto e silenzioso di Fr. Gino passava sotto la voce “incaricato ad omnia” che voleva dire “incaricato a tutto”, a tutto quello che occorre in una casa per il buon andamento della medesima. Così si poteva vedere il buon Fratello con una chiave inglese in mano, rannicchiato sotto un lavandino per rimediare alle perdite d’acqua, o con una lastra di vetro in mano per sostituirne una rotta, o con una lampadina da cambiare, o con pennello e vernice per rinfrescare porte e finestre... senza dire della sua passione per l’orto di cui era un maestro. L’anima contadina, Fr. Gino, se l’è portata dentro fino alla morte. Quando i confratelli gli dicevano: “Ma che magnifici pomodori, che cavolfiori giganti, come hai fatto ad ottenerli?”. Egli sorrideva riconoscente per quelle parole di ammirazione, poi faceva vedere le mani e, col dito, puntava in alto come per dire: “Io ho lavorato, ma è stato Dio che ha fatto tutto”.

L’uomo dell’amicizia

In ogni casa dalla quale si è allontanato per eseguire un’ulteriore obbedienza, Fr. Gino ha lasciato tanto rimpianto nei confratelli e nella gente che lo aveva conosciuto. Era uno capace di creare amicizia, fatta di rispetto vicendevole, di stima, di aiuto fraterno.

Per tutte basta la testimonianza del Padre Generale, Salvatore Calvia, quando, nel mese di luglio del 1981, gli affidò un altro incarico nella Rettoria di Trento come sagrestano. Teniamo presente che il Fratello si era fermato a Roma, per il servizio alla sede della Curia generalizia, una dozzina d’anni.

“Carissimo Fr. Gino, scrivo questa lettera con un po’ di dispiacere e tanta nostalgia. Ero abituato alla tua compagnia allegra e anche alla tua disponibilità per tanti piccoli servizi, per cui mi dispiace che tu lasci la casa di Roma. Perdere un amico, o vivere lontano da un amico, è sempre una sofferenza, ma la nostra Rettoria di Trento richiede con urgenza un sagrestano e io sono sicuro che tu farai benissimo: sai parlare con la gente, sei uomo di preghiera e di discrezione, inoltre sarai di valido aiuto al Padre che serve quella chiesa perché, all’occorrenza, sei un bravo cuoco.

Proprio di tutto cuore ti ringrazio del bene che hai fatto nella comunità di Roma e anche del bene che ho ricevuto io personalmente dalla tua amicizia, dal tuo costante sorriso incoraggiante (anche il Superiore Generale ha le sue grane), dalla preghiera che elevavi al Signore per i superiori con i quali vivevi.

Ti auguro un buon lavoro e, soprattutto, tante soddisfazioni dalla tua vita religiosa. Ora che il tuo nuovo lavoro ti porta a vivere più vicino a Gesù Eucaristia, continua a pregare per noi, per le missioni e per le vocazioni. Te ne sono riconoscente...”.

L’ultima tappa dell’attività di Fr. Gino fu Rebbio di Como. Vi rimase 6 anni dando una mano anche ai confratelli anziani che dimorano in quella casa. Poi la salute cominciò a segnare rosso anche per lui: insufficienza renale e disturbi circolatori. Nell’ottobre del 1997 venne portato a Verona presso il Centro Ammalati. Negli ultimi mesi si sviluppò anche un tumore che era latente da qualche anno. “Anche nel coma - dice l’infermiere - continuava a pregare come aveva sempre fatto quando stava bene”.

Nell’omelia della messa funebre, P. Francesco De Bertolis, che è stato suo compagno in missione, ha voluto ricordare il sorriso di Fr. Gino: “Nessuno lo ha mai visto arrabbiato una volta, e quando gli rivolgevi la parola, la prima cosa che ti stendeva davanti era il suo sorriso, spontaneo, cordiale. E poi ricordo le sue mani sempre in movimento, sempre in azione. Davvero il nostro Fratello rifuggiva l’ozio. Sapeva che il tempo, specie per un missionario, è estremamente prezioso e andava utilizzato tutto fino all’ultimo minuto”.

Ricordando i terribili attacchi di malaria, la difficoltà nell’esprimersi e nel farsi capire in quella lingua, la povertà che regnava nelle missioni, il celebrante ha paragonato la vita di Gino a un Venerdì Santo che ora, finalmente, sfociava nella Domenica di Pasqua.

Una nipote, alla preghiera dei fedeli, ha voluto ringraziare il Signore del dono della vocazione in fratel Gino, dono che si è riversato in benedizione su tutta la famiglia. “Non solo ha portato la fede agli Africani, ma ha tenuto accesa la fiaccola della stessa fede e della vita cristiana tra noi suoi parenti e amici”.

Fr. Gino, avvezzo più al fare concreto che al parlare e, soprattutto, al parlare di sé, non ha mai voluto raccontare agli amici e ai parenti le sue “avventure” africane, che pure ha avute. Il suo nome non appare mai nelle missioni dove ha lavorato. Eppure non è mai stato fermo un momento; il suo lavoro è stato sempre all’insegna del nascondimento, dell’umiltà.

“In questo momento - ha detto il celebrante alla fine del rito funebre - le missioni di Kayango, Thiet e Mayen stanno passando l’inferno. Guerra, fame, malattie, (si parla di 2 milioni e mezzo di persone votate allo sterminio), persecuzione, ragazzi e ragazze portati via dai loro villaggi dai soldati e venduti come schiavi... In questo momento affidiamo a Fr. Gino queste sue missioni nelle quali ha lavorato, pregato, sofferto e gli diciamo di presentarle al Signore perché ottenga pace e giustizia”.

Dopo il funerale in Casa Madre Fr. Gino è stato sepolto nel cimitero di Marcellise, nella tomba di famiglia, accanto al papà, alla mamma, ai fratelli e ad uno zio. A noi lascia l’esempio di laboriosità e di gioia per la sua vita donata al Signore e alle anime.                        P. Lorenzo Gaiga, mccj

Da Mccj Bulletin n. 201, ottobre 1998, pp. 112-119