P. Raffaele di Bari è il 22° martire comboniano, deceduto un un’imboscata a circa quattro chilometri dalla missione di Pajule, mentre era diretto ad Aciolibur per celebrare la santa Messa. Improvvisamente - erano circa le ore 10.30 locali - si udì una scarica di fucileria e poi l’esplosione di una bomba. Era un colpo di bazooka sparato contro l’auto. La granata colpì la macchina dalla parte del guidatore, trapassò la portiera e il fianco del Padre, quindi s’infilò nel cruscotto e finì la sua corsa nel vano motore.
P. Raffaele fece appena in tempo a gridare per tre volte: “Ahi! Ahi! Ahi!” e non disse altro. Alcuni di quelli che erano con lui, scapparono. Una donna, che casualmente passava per quella strada, fu colpita alla schiena da una raffica di mitra e cadde a terra uccisa.
La suora e gli altri che viaggiavano col Padre si salvarono. La macchina, intanto, senza controllo, proseguì la sua corsa e finì nel bosco ai margini della strada. Eppure il Padre, prima di partire, si era informato presso il capitano della guarnigione governativa di stanza a Pajule, se la strada fosse libera ed aveva ottenuto ampie assicurazioni.
I ribelli, appartenenti all’Esercito della Salvezza del Signore, circondarono l’auto e fecero prigionieri quelli che non erano riusciti a fuggire. Poi rovistarono dappertutto cercando qualcosa da rubare. Per prima cosa presero l’orologio del Padre, poi infilarono le mani nelle sue tasche ma non trovarono neanche uno spicciolo. Ciò li irritò assai.
L’incendio dell’auto e il rapimento dei bambini
Terminata la perquisizione della macchina e delle tasche del Padre, quegli che sembrava il capo, comandò ad un soldato di lanciare una bomba a mano per incendiare l’auto.
Tirarono la bomba, ma l’auto non prese fuoco. Allora il capo mandò un paio dei suoi sgherri a sfilare della paglia che copriva una capanna vicina per appiccare fuoco alla macchina. Questa volta la fiamma divampò improvvisa coinvolgendo anche il corpo, ormai esanime, di p. Raffaele che era rimasto al suo posto di guida. A questo punto gli assassini si allontanarono in tutta fretta con i ragazzi che poi liberarono, eccetto il figlio del cuoco della missione che non tornò mai più a casa. Pare che sia stato sacrificato.
Avvolto nel camice
Mentre in missione, a Pajule, stavano terminando la Messa, arrivò la notizia che il Padre era stato vittima di un’imboscata. P. Antonio Simeoni, si recò sul posto dell’eccidio insieme a qualche altro. Il Pick-up di p. Raffaele era tutto un rogo e non poterono far niente. Allora ritornarono al centro di Pajule, presero acqua e qualche zappa e tornarono sul posto dell’agguato. Ma non riuscirono neppure ad aprire la portiera della macchina. Il corpo del Padre, intanto, bruciava come una torcia.
Alla fine, sempre aiutandosi con zappe e picconi, riuscirono ad aprire la porta della cabina ancora rovente. Quel poco che era rimasto del corpo del Padre cadde a terra in un mucchietto fumante.
Padre Simeoni stese il camice che aveva con sé nell’altarino portatile e, con affetto e venerazione, vi depose quei poveri resti carbonizzati e si diresse verso la missione. Era circa l’una del pomeriggio.
P. Raffaele era solito chiedere al Signore di non finire su una sedia a rotelle (lui che ne procurava tante per i poliomielitici), e di non morire vecchio. Il Signore lo ha ascoltato.
Il funerale ebbe luogo nel pomeriggio del giorno dopo, 2 ottobre. L’Eucaristia di suffragio è stata celebrata dal Vicario generale, p. Sebastiano, rappresentante del Vescovo che si trovava a Roma per un raduno. Erano presenti molti sacerdoti locali, alcuni confratelli (ma altri dovettero rinunciare per la pericolosità delle strade) e anche il Vescovo protestante la cui moglie era stata uccisa da una mina.
Martire, perché?
“Sono andato alla sepoltura di un martire, il ventiduesimo nell’elenco dei missionari comboniani che hanno sacrificato la vita per la giustizia, per la carità e per la fedeltà alla loro vocazione – scrive fr. Croce -. Sì, anche p. Raffaele, come gli altri che lo hanno preceduto nella morte violenta, poteva starsene al sicuro nella sua missione e nessuno lo avrebbe importunato. Oppure avrebbe potuto abbandonare il posto e la gente per ritornare in Italia, ma non l’ha fatto, anche se il Signore stesso ha detto: ‘Se vi perseguitano in un posto, andate in un altro’. P. Raffaele ha voluto condividere fino in fondo la vita e anche la morte del suo popolo, consapevole che la vocazione missionaria gli chiedeva questo”.
La tomba è stata scavata nell’angolo fra il boschetto e il campo delle suore, accanto alla chiesa. Il tutto è stato circondato da uno steccato che è diventato luogo di preghiera.
P. Antonio Simeoni aggiunse:
“Qualche giorno dopo, nel posto dell’imboscata abbiamo eretto una croce perché sia segno di pace e di perdono per tutti, e sia come una memoria per i morti, i feriti e i deportati di quest’assurda guerra”.
Nato per l’Africa
Quella dell’Africa era una passione che aveva preso il nostro Raffaele fin dagli anni della sua fanciullezza.
“Da piccolino - ha scritto – ho incontrato p. Carlo Toncini quando da Troia venne a Barletta per predicare le Quarantore. Mi chiese se volevo diventare missionario. Io dissi di sì. Eravamo in piena guerra. La mia mamma, Serafina Piccinni, era alquanto titubante e cercò di trattenermi, di farmi aspettare ancora qualche anno in modo che potessi riflettere meglio sul passo che stavo per fare. Anche papà Francesco, che esercitava il mestiere del muratore, all’inizio era un po’ perplesso perché ero rimasto il maggiore dei miei tre fratelli (il primo, infatti, era morto nel 1936 all’età di 10 anni), ma poi si mostrò felice.
Frequentai le medie nell’Istituto Missioni Africane di Troia, dove sono entrato il 4 ottobre 1940, a undici anni d’età. Per il ginnasio fui trasferito a Sulmona. Seguirono anni belli con tanti amici che avevano il mio stesso ideale: diventare missionari d’Africa”.
Dalle testimonianze dei compagni di medie e di ginnasio balza fuori un Raffaele molto ingenuo, tuttavia geniale e attore. Nei seminari missionari del tempo, gli alunni dovevano cimentarsi in recitazioni, farse e commedie che, indirettamente, li avrebbero abituati a parlare in pubblico senza paura. Raffaele era uno dei più accaniti in questo genere di cose, e ci sapeva fare. Non solo ma, alla capacità di recitare, univa anche quella del prestigiatore. Piccole semplici cose, ma fatte con gusto e intelligenza capaci di tenere allegra la brigata.
Per gli esami di stato di quinta ginnasio, il superiore di Sulmona, p. Egidio Ramponi, volle che gli alunni si presentassero elegantemente vestiti, stirati e pettinati. In vista dell’avvenimento aveva consentito che si facessero crescere i capelli (normalmente li tenevano rapati a zero). Quale fu il rammarico, con le conseguenti proteste, di Raffaele quando, al ritorno dagli esami, trovò il barbiere con la macchinetta in mano pronto a fare tabula rasa del ciuffetto che era venuto proprio bene. Raffaele era un tipo vivace, molto allegro e generosissimo con i compagni. Si prestava volentieri per i piccoli lavori della comunità ed era pronto ad aiutare chi era più debole o più piccolo. Anzi, ci trovava gusto ad essere protagonista: “Lascia, lascia che faccio io che me ne intendo”, soleva dire.
Verso il sacerdozio
Raffaele era entrato nel noviziato comboniano di Firenze il 14 settembre 1946. Il maestro era p. Stefano Patroni. Dopo tre mesi scrisse di questo suo discepolo: “Ho notato in lui un po’ d’incertezza. Nelle prime settimane era come disorientato, sembrava che sentisse poco la sua vocazione. Ora invece segue con più amore la vita di noviziato e sembra che sia contento. E’ un tipo ardente, impulsivo, poco riflessivo. Dubito della sua riuscita. Speriamo che maturi”.
L’anno dopo il Maestro scrisse: “Ha fatto un consolante progresso rispetto ai primi mesi. E’ un giovane che bisogna aiutare molto”.
Alla fine del 1947 p. Patroni lasciò il posto di maestro dei novizi a p. Giovanni Audisio. Questi, nel maggio del 1948, scrisse di Raffaele: “Esiste in lui il serio desiderio di progredire, come esiste un lodevole sforzo per correggere il proprio carattere impaziente ed impulsivo. E’ sincera in lui la buona volontà di perseverare nella vocazione, ma dovrà combattere per vincere la sua scabrosità rendendosi più accondiscendente. La sua forte personalità lo porta a dire la sua e magari a criticare se le cose non sono di suo genio. Tuttavia accetta le correzioni ed è generoso in tutto”.
Nella domanda d’ammissione ai Voti, così Raffaele si espresse: “Ho capito che la vocazione sacerdotale, religiosa e missionaria è la maggiore di tutte le grazie che il buon Dio potesse farmi. In questo periodo ho cercato di fare del mio meglio per migliorarmi anche se i difetti sono ancora tanti. Tuttavia, dopo aver considerato tutti gli impegni che dovrò assumere con i Voti, le difficoltà che dovrò incontrare, le lotte che dovrò sostenere, umilmente chiedo di essere ammesso alla professione religiosa per santificare me stesso e salvare tante anime a costo pure di dare, anche per una sola di loro, tutto il mio sangue”. Parole profetiche, queste ultime. Era il 9 settembre 1948.
Fu ordinato sacerdote a Milano il 26 maggio 1956 dal card. Montini, futuro Papa. Sperava di poter partire per la missione quanto prima. Invece i superiori lo trattennero per tre anni in Italia, prima a Crema con l’incarico di economo e insegnante degli alunni comboniani, e poi a Troia come vice rettore, p. spirituale ed economo della casa.
In Uganda
P. Raffaele fu destinato alla diocesi di Gulu. Proprio nel 1959, quando vi giunse p. Raffaele, la diocesi, retta dal vescovo comboniano mons. Giovan Battista Cesana, si scisse in due dando origine a quella di Arua, il cui vescovo sarebbe stato mons. Angelo Tarantino, consacrato a Portogruaro, sua città natale, il 1° maggio 1959.
Appena giunto in Uganda, p. Raffaele fu destinato a Morulem dove c’era la missione e il lebbrosario. Uno dei suoi primi compiti fu quello di studiare la lingua. Suo maestro fu p. Alfredo Malandra che aveva scritto una grammatica e un vocabolario acioli. Morulem fu una tappa importante e decisiva, per la vita di p. Raffaele, perché poté entrare a contatto con la realtà dei poveri, degli emarginati, rappresentata dai malati di lebbra, che diventarono come i suoi “maestri in umanità”.
Se per tutto il resto della vita p. Raffaele avrà una predilezione per coloro che soffrono, in gran parte lo si deve, oltre agli esempi di Comboni e ai suoi insegnamenti meditati e assorbiti durante gli anni di formazione, ai due anni trascorsi accanto ai lebbrosi che erano raccolti dai vari villaggi per essere curati presso il centro di cura.
Nel 1962 p. Raffaele passò a Kalongo dove, grazie all’apporto di p. Giuseppe Ambrosoli, medico, e oggi Servo di Dio, stava nascendo il grande ospedale. P. Raffaele collaborò facendo tanti viaggi per l’ospedale allo scopo di portare e riportare i dottori o ritirare medicine e macchinari.
Sapeva accativarsi le simpatie dei ragazzi con giochi di prestigio; i chierichetti lo ricordano ancora per il tempo che dedicava loro, per le passeggiate nei parchi nazionali. Insieme a p. Santi e al pugliese p. Volpetti organizzò il movimento dei “crusaders” (crociatini) con gare e concorsi diocesani.
Il pozzo di san Giuseppe
Dal 1964 al 1965 p. Raffaele andò in Inghilterra per lo studio della lingua inglese. Dato che era in Europa, dal 1965 al 1966 fece tappa a Roma per il corso di aggiornamento che doveva coronare il suo decimo anniversario d’ordinazione sacerdotale.
Rientrato in Uganda alla fine del 1966, tornò a Kalongo. Due anni dopo, lo troviamo nella missione di Opit. Scrivendo al superiore generale il 12 marzo 1968 disse: “Due mesi fa ho lasciato Kalongo ed ora sono qui in questa minuscola comunità insieme a p. Clerici e a fr. Brigadoi. Viviamo in estrema povertà ma abbiamo piena fiducia nella divina Provvidenza che certamente ci aiuterà a tirare avanti.
Non avevamo più neanche acqua da bere, allora abbiamo fatto una novena a San Giuseppe e ci siamo messi a scavare un pozzo. A soli otto metri abbiamo trovato acqua in abbondanza per noi e per la gente. Ora è arrivato fr. Battistata che lo sistemerà bene.
Vorrei fare quanto prima un catecumenato decente e ben custodito per tenere i catecumeni in missione. Vorrei inoltre dare qualcosa ogni mese ai 15 catechisti, così da invogliarli a fare sempre meglio il loro ministero”.
Per colpa di un cane
P. Raffaele era ad Opit. In missione c’era un cane lupo che, di notte, aveva tante visite da parte dei suoi consimili. Fr. Brigadoi si lamentava di non poter dormire per il continuo abbaiare di quelle bestie. P. Raffaele pensò di risolvere la cosa sparando con il fucile da caccia in mezzo ai cespugli nel tentativo di mettere in fuga gli sgraditi e rumorosi ospiti.
Morì il cane di un maestro. P. Raffaele, sinceramente dispiaciuto, si offrì a risarcire il danno, ma il maestro lo portò in tribunale con l’accusa di essere un razzista. L’accusa: l’uccisione del cane acioli era intenzionale, in quanto il Padre non voleva incroci con un cane europeo. Il verdetto del giudice non soddisfò il maestro che continuò a minacciare il Padre, anche tirando sassi sull’auto in viaggio. Tanto lo intimidì che, alla fine del 1968, p. Raffaele lasciò Opit e andò nella missione di Awac.
Dal 1968 al 1975 p. Raffaele fu superiore di missione e poi parroco ad Awac. Questo fu un periodo fortunato per lui. In collaborazione con p. Giovanni Scalabrini, si dedicò alla realizzazione di molteplici progetti in favore della gente. Introdussero nella zona i mulini in modo che le donne non si spezzassero la schiena a macinare il grano tra due pietre o pestandolo nei mortai, moltiplicarono le scuole e le cappelle incrementando i catechisti. Sollecitarono borse di studio per dare la possibilità ai ragazzi maggiormente dotati e di buona volontà di studiare andando anche all’estero. Oggi molti di questi sono “pezzi grossi” in diversi uffici governativi.
Quel periodo fu allietato dalla visita del Papa all’Uganda (13 luglio 1969), dove si era celebrato il Simposio di tutti i presidenti delle conferenze episcopali dell’Africa. Anche p. Raffaele andò a Kampala con un buon gruppo di cristiani per salutare il Vicario di Cristo che, per l’occasione, benediceva l’altare del grande santuario dei Martiri. La marea di gente che si raccolse per l’occasione, dimostrò che la presenza della Chiesa cattolica era veramente massiccia e ben radicata nella gente.
Salvatore di vite umane
Durante il periodo di Amin, P. Raffaele non abbandonò mai le sue posizioni destreggiandosi nel tentativo di risparmiare vite umane e le stesse missioni.
Faceva la spola tra le parrocchie di Lacior e Pabò portando in salvo chiunque fosse in pericolo. Quando arrivarono la fame e il colera si adoperò in ogni modo per arginare quei flagelli “importunando” tutti coloro che potevano aiutarlo.
Ma pagò caro il suo zelo. Infatti un’ulcera duodenale con conseguenti emorragie lo costrinse a rientrare in Italia per un possibile intervento.
Nel frattempo (1978) anche la sua mamma aveva lasciato questo mondo, e i fratelli reclamavano la presenza del loro missionario. P. Raffaele rientrò in patria addolorato nello spirito e nel fisico, ma più ancora tormentato da qualche insinuazione che gli aveva fatto capire che, forse, non sarebbe tornato in missione, almeno per qualche anno.
I medici della clinica Capitanio di Milano evitarono l’intervento e riuscirono ad arginare il male con le medicine. Il Padre approfittò della convalescenza per frequentare un altro corso d’aggiornamento a Roma e rinfrescò i contatti con gli amici e benefattori italiani. I suoi occhi e il suo cuore, però, erano continuamente protesi verso l’Uganda.
Un giusto scambio
Dall’Italia dove si trovava, p. Raffaele si rammaricava di non poter essere vicino alla sua gente in un momento così difficile. I superiori, però, gli fecero sapere che doveva fermarsi in Italia per permettere a qualche confratello di fare il suo turno di missione.
“E’ bene che ti fermi, oltre che per la salute – gli scrisse il superiore generale p. Tarcisio Agostoni il 31 agosto 1979 – anche per inserirti nel cammino della Chiesa italiana e nella vita della Provincia che ha bisogno di animazione da parte di missionari che ritornano dalla missione. Inoltre è giusto che tanti giovani, fermi in Italia da troppi anni, possano finalmente realizzare la loro vocazione. Pertanto tu resti assegnato alla Provincia italiana dal 1° dicembre 1979”. Parole chiare e giuste, che tuttavia suonavano male alle orecchie di p. Raffaele che reagì profondamente amareggiato:
“Ora il pensiero e il timore di non poter tornare in missione - scrisse nel novembre del 1979 - mi ha tolto la mia abituale serenità, e sta per scatenare in me una profonda crisi. Dalle lettere che ricevo dall’Uganda sento che molte missioni sono rimaste senza sacerdoti. E molti attendono di essere sostituiti. Eccomi qua pronto e guarito. Il pensiero di rimanere in Italia mi fa sentire un disertore. Quindi le chiedo, Reverendo Padre, quasi scongiurandola, e pregando Dio, di fare calcolo su di me, che sono pronto a firmare e ad accettare volentieri tutto, nonostante ci sia pericolo di vita in questo periodo. Anche l’olocausto di p. Serri, chiamato recentemente dal Padre in modo tragico, mi spinge a prendere il suo posto”. Commovente questa disponibilità.
Animatore a Bari
Nell’attesa dello svolgersi degli avvenimenti, p. Raffaele frequentò il corso di Esercizi Spirituali di un mese (mese ignaziano) nella casa Santo Spirito di Roma, sotto la guida del gesuita p. Angelo Tulumello. “E’ stata una grande grazia - scrisse il 27 marzo 1980 - che Dio misericordioso ha voluto concedermi per darmi serenità e pace interiore. Con la preghiera e nella preghiera si comprendono meglio certe dimensioni del nostro vivere e, verificando la presenza di Gesù nella nostra vita, si riceve la carica necessaria per accettare sacrifici e superare difficoltà”.
Nel giugno del 1980 si accese il semaforo verde, così p. Raffaele poté lasciare la comunità di Bari nella quale aveva sostato come animatore missionario, e partì alla volta dell’Uganda. Questa volta andò nella missione di Atanga, dove p. Tarcisio Pazzaglia stava costruendo la casa dei Padri in vista di una nuova parrocchia che sarebbe stata affidata ai sacerdoti diocesani. Vi rimase come parroco fino al 1989, completando la casa, impiantando un mulino, organizzando la parrocchia e consegnandola ai sacerdoti locali secondo la linea comboniana di salvare l’Africa con gli Africani.
Tra sacchi di riso e campi di girasole
“Carissimi cugini – scrisse p. Raffaele da Anaka nel dicembre del 1983 – mi faccio vivo ancora dall’Uganda da me amata anche se tormentata da continue tragiche situazioni… Dopo tre anni trascorsi nelle foreste di Atanga, sono passato alla savana di Anaka, sulla strada che conduce al Nilo che dista circa 70 chilometri dalla residenza centrale.
Vivono ancora in piena libertà elefanti, leoni, coccodrilli, leopardi, gazzelle, antilopi, giraffe, ippopotami, rinoceronti… e ogni giorno c’è qualche entusiasmante, ma sempre pacifico, incontro. Ciò che a me interessa non sono le povere bestie, ma la gente, semplice e simpatica con la quale condivido la situazione gioiosa, ma più spesso dolorosa”.
Di fronte alla situazione di carestia e di fame che le guerre scatenarono, p. Raffaele cercò di reagire a modo suo. Chiamò attorno a sé i giovani più volenterosi e disse che bisognava seminare il riso e coltivare il girasole. Avrebbero avuto cibo e condimento.
Intraprendente e pieno di iniziative come un imprenditore di qualità, non si dava pace finché non vedeva assicurato un decente tenore di vita alla sua gente. “La terra è generosa in Uganda - soleva dire - basta lavorarla come si deve e ci sarà cibo per tutti”. Il suo messaggio fu captato e molti lo seguirono.
“Quest’anno ho potuto distribuire centinaia di zappe e un po’ di aratri. Provvidenzialmente le piogge sono state abbondanti e quindi stanno venendo dei raccolti veramente eccezionali: granoturco, arachidi, sesamo, patate dolci, miglio, girasole, cassava oltre che banane e manghi. La fame è stata terribile, spaventosa. Speriamo che sia finalmente scomparsa”.
I missionari invitano a deporre le armi
A differenza degli altri che volevano stabilire la pace con la violenza, Museveni, giunto al potere nel 1986, tentò di realizzare la concordia usando l’amnistia verso coloro che deponevano le armi. Tutti i missionari collaborarono a quest’opera, convincendo gli ex soldati a lasciare il fucile e a riprendere la zappa per cominciare una vita nuova. P. Raffaele si distinse nel propagandare l’amnistia presentandola, non come un imbroglio dei politici, bensì come l’unica via alla pacificazione. Ciò nonostante molti si tennero care le armi, perché ormai in Uganda un fucile pareva essere l’unico mezzo indispensabile per riavere il potere.
Il 18 agosto 1986 gli acioli iniziarono la guerriglia contro Museveni.
Tra ribelli e formiche carnivore
Nel 1989, p. Raffaele andò a Pajule per sostituire p. Pinuccio che si preparava a tornare in Italia per una meritata vacanza. In questo periodo ci fu un attacco di fanatici che arrivarono in missione cantando e sparando.
I tre Padri scapparono di casa e ognuno andò a nascondersi: p. Pinuccio nel pollaio, p. Tarcisio dietro una tavola del garage, e p. Raffaele nel bananeto ricoprendosi con l’erba secca.
La casa fu saccheggiata e, quando la furiosa sparatoria finì, p. Raffaele fu il primo ad uscire e a chiamare i confratelli, per fortuna tutti illesi e… con un’esperienza drammatica da raccontare. Egli dovette correre nella doccia a togliersi le formiche carnivore che lo stavano divorando.
Purtroppo l’esercito governativo non aveva il sopravvento su questi numerosi gruppetti che si muovevano nella savana con rapidità. Per questo nella popolazione c’era, e c’è, sfiducia in Museveni che, invece di difendere il suolo ugandese, manda i suoi soldati a combattere nel Congo.
Verso la fine dell’anno p. Raffaele andò a riaprire Kalongo che era stata evacuata, ma ben custodita dai cristiani del luogo.
Per Natale del 1989 scrisse: “Migliorando, grazie a Dio, la situazione, è stato permesso a noi missionari di tornare nelle zone per lungo tempo travagliate e terribilmente devastate dalla guerriglia che ha provocato uccisioni, fame e malattie. Nonostante la mia età di ormai pensionato, riesco ad impegnarmi nelle più svariate mansioni.
Dietro richiesta dell’Ambasciata italiana, il governo ugandese mi ha concesso l’uso di una radio trasmittente per comunicare e ricevere messaggi e notizie dai vari centri di tutta l’Uganda, perciò non mi sento affatto isolato”.
Dal 1994 al 1996 fu a Namokora come parroco. Costruì strutture locali, belle capanne per vecchi e per il gruppo “meeting point” che segue gli ammalati di AIDS. Rafforzò il gruppo di catechisti passando loro molte responsabilità parrocchiali.
Una grande occasione di ecumenismo fu il funerale di Tito Okello, nativo di Namakora e qui ritornato dall’esilio. P. Raffaele aveva preparato il coro e portato tutto il necessario per le esequie, ma lasciò ai protestanti la conduzione del rito, essendo Okello di religione protestante.
Tranquillamente agitato
Nel 1996 altro cambiamento per p. Raffaele. Fu inviato ad Opit insieme a p. Ponziano Velluto. Il 20 febbraio 1997 scriveva: “Scrivo da quest’angolo del Nord Uganda, ai margini della foresta di Opit. Qui la popolazione vive da ben 11 anni in un clima di guerriglia e di terrore per la presenza di criminali e feroci banditi. E’ diventato normale, quindi, vivere in tensione e paura.
Per solidarietà con la gente, anch’io sono tranquillamente agitato, alle volte scosso, traumatizzato e arrabbiato per tutto quello che succede. Sembra strano, ma i ragazzi ignorano cosa vogliano dire pace e benessere, convinti che in tutto il mondo vi sia identica realtà e analoga situazione di guerra.
Sono tanti i bambini denutriti che ti vengono incontro con due occhioni lucidi e con semplicità ti sorridono tristi nella speranza di ricevere qualcosa. Un solo biscotto o una zolletta di zucchero, pur rendendoli momentaneamente felici, non risolvono il loro problema.
Attualmente, nella nostra residenza di Opit, abbiamo moltissimi rifugiati o sfollati che sono stati costretti ad abbandonare i loro villaggi. Ognuno ha da raccontare tragici episodi di parenti uccisi, bambini e giovani rapiti e portati in Sudan, capanne e case bruciate e tanti mutilati per lo scoppio delle mine.
Non credo di essere incosciente e spericolato vivendo in questa zona ad alto rischio, tra gente poverissima, in balia di tante calamità. Sempre con grande prudenza, bisogna scomodarsi e saper rischiare. E’ proprio nella solidarietà con questa gente che mi sento realizzato per manifestare con coerenza la mia fede”.
Due attentati
Ad Opit p. Raffaele dovette subire due attacchi alla casa dei missionari. Il 1° novembre 1997, alle ore 6 del mattino, un commando di guerriglieri assalì la missione di Opit. La raffica di mitra, esplosa accanto ad un quadro di p. Pio da Pietralcina, colpì l’immagine del Santo, ma lasciò illeso p. Raffaele e le suore. In quella circostanza il Padre sentì con certezza di essere stato salvato grazie ad un intervento del beato di Pietralcina, di cui era particolarmente devoto. L’ultima volta che è tornato in Italia, ha portato con sé quel quadro crivellato dalle raffiche di proiettili e lo ha donato ai Cappuccini di San Giovanni Rotondo, come gesto di ringraziamento per una sicura protezione.
Subì un altro attentato il 29 settembre 2000, questa volta a Pajule. Anche questa volta fu solo sfiorato dai proiettili.
Anni prima era stato messo al muro per essere fucilato. Allora si salvò per il rotto della cuffia, scambiando poche ma efficaci parole con uno dei guerriglieri, l’unico che conoscesse l’inglese in una banda in cui tutti parlavano una lingua locale.
Nonostante questi attentati che avrebbero consigliato chiunque a ritirarsi, almeno momentaneamente, dal luogo del pericolo, egli non si era dato per vinto e continuava nel suo lavoro in favore della gente. La missione, infatti, era ormai diventata la sua vita e non riusciva a staccarsene salvo che per brevi vacanze in Italia, ogni tre o quattro anni, per riposarsi e per raccontare la sua esperienza.
Ultima tappa della vita missionaria di p. Raffaele fu la parrocchia di Pajule. P. Raffaele vi arrivò nel luglio 1998. Era parroco p. Tarcisio Pazzaglia, che per motivi di salute rientrò in Italia. P. Raffaele accettò con fatica l’onere di fare il parroco, comunque sperava che fosse per breve durata.
Perché la morte di p. Raffaele? E perché quel tipo di morte? Ci ha dato lui stesso la risposta con una telefonata alla MISNA (l’Agenzia informativa missionaria) pochi giorni prima di essere ucciso:
“In tanti anni di Africa, la missione più grande che abbia ricevuto dal Signore è stata quella di dare voce a questa gente, denunciando al mondo le atrocità che i ribelli commettono quasi quotidianamente contro i vecchi e soprattutto le donne e i bambini che per colpa di questa guerra vengono rapiti, drogati, trasformati in soldati e assassini e anche usati per la pedofilia o per il commercio di organi”.
Parlando di questi bambini soldato, in una lettera al fratello Enzo, p. Raffaele li chiamava: “creature terrorizzate e traumatizzate, veri martiri di una situazione allucinante che continua a caratterizzare la vita del Nord Uganda, grazie alle azioni ignominiose dei guerriglieri appartenenti al movimento LRA”.
Quando Marcella de Palma, corrispondente di RAI 3, andò a Pajule, p. Raffaele si fece in quattro per farla incontrare con i genitori dei rapiti, per intervistare i fortunati che erano riusciti a scappare dal campo di Kony del Sudan.
“Non posso tacere di fronte a queste atrocità”, scrisse. Per questa sua azione di “corrispondente dalle prime linee” p. Raffaele era stata minacciato più volte. Ed ora non parla più, ma è il suo martirio che grida.
All’inizio del 1999 i ribelli tornarono in Sudan e per un po’ di mesi ci fu pace, tanto che p. Raffaele scriveva: “Al tramonto di questo secolo, e prima che inizi il nuovo millennio, pare che stia fiorendo la speranza. Almeno qui nella mia zona fra gli Acioli, si riesce finalmente a vivere in clima di relativa pace e distensione dopo 13 anni di guerra con tutte le sue disastrose conseguenze.
Ma a Natale del 1999 i lanzichenecchi di Kony attraversarono il confine e rientrarono in Uganda iniziando di nuovo la serie di saccheggi e sequestri.
Personalità forte e generosa
“P. Raffaele era amato da tutti per la sua grande umanità – scrive il suo ultimo superiore, p. Tarcisio Pazzaglia -. Tutti quelli che ricorrevano a lui, trovavano aiuto. Potevi arrivare alla sua missione a qualsiasi ora e con quante persone volevi, e lui ti faceva festa e si faceva in quattro per preparare da mangiare tirando fuori tutto quello che aveva di buono e preparava da dormire per tutti, senza problemi, proprio come fossero arrivati i suoi fratelli.
Ognuno si sentiva a suo agio con lui. Pochi giorni prima della sua uccisione si era recato a Kampala per fare provvista di coperte e di altre cose che servivano alla gente. Nessuno doveva allontanarsi dalla missione a mani vuote”.
Dice don Donini, sacerdote bresciano e medico missionario a Kalongo:
“P. Raffaele aveva come un’immediata, istintiva disponibilità a dare. Vorrei quasi affermare che la sua generosità pareva perfino esagerata. Dava via la sua roba, i suoi indumenti, pagava per altri, qualche volta anche lasciandosi imbrogliare. Ma non si rammaricava per questo. Diceva che è meglio farsi imbrogliare, donando, che negare qualcosa a chi è nel bisogno.
Quante volte i ladri gli rubarono roba o anche denaro. In un primo tempo si arrabbiava poi, per riparare il cattivo esempio dato con la sua arrabbiatura, chiamava il ladro e gli aggiungeva dell’altro. Sapeva che rubavano per bisogno.
Nella pastorale era zelantissimo. Kalongo ha 52 cappelle; p. Raffaele le percorreva tutte in continuazione perché non voleva che la gente rimanesse senza sacerdote per troppo tempo. Coltivava i catechisti, li seguiva, li preparava e li pagava perché potessero fare bene il loro ministero senza altre preoccupazioni di ordine materiale”.
Formare dirigenti cristiani
“Una delle prime cose che ho fatto in Africa - scrisse p. Raffaele - fu quella di reperire borse di studio per inviare in Italia dei giovani in vista di una qualifica professionale. (Pagava in tutto o in parte le tasse scolastiche a ventisei persone, più otto seminaristi di Pajule. Quattro suoi assistiti sono già sacerdoti N.d.R.).
Dopo mi sono interessato di agricoltura. Da un gruppo di cinesi venni a conoscenza della possibilità di coltivare il riso anche dove non c’è acqua. Dagli stessi mi feci mandare venti sacchi di semente che piantai nel terreno della nostra missione. Il ricavato fu oltre ogni aspettativa, tanto che ne distribuii anche ai prigionieri che ebbero la possibilità di seminarlo nel territorio delle carceri. Aiutato dalla Caritas, arrivarono le prime macchine pulisci-riso… Dopo 25 anni il Nord Uganda esporta riso nel Sud.
La stessa cosa ho fatto per il granoturco e per il girasole, naturalmente con l’aiuto di altri confratelli, in particolare Elio Croce. Qualcuno ha obiettato che queste cose non sono compito del missionario. Teniamo presente che il Concilio Vaticano II ha detto chiaramente che la missione, oltre che evangelizzazione, è anche promozione umana. Del resto questo è sempre stato l’esempio di tutti i missionari, di quelli della prima ora, e di Comboni stesso.
Non ho mai fatto il commerciante, ho solo fornito alla gente una serie di strumenti perché potesse elevare il suo tenore di vita che, molto spesso, era al di sotto della miseria. Al primo posto, tuttavia, ho sempre messo l’evangelizzazione, la catechesi, la formazione dei catechisti, i sacramenti”.
Barletta ricorda
Una nuda croce di legno, semplice e povera come la vita di p. Raffaele, ai piedi dell’altare nella cattedrale di Santa Maria Maggiore di Barletta ha ricordato il Martire durante la solenne messa funebre che è stata presieduta dal vescovo mons. Giovan Battista Pichierri, martedì 3 ottobre 2000 alle ore 17.00.
All’omelia, il Vescovo ha ricordato alle autorità e ai fedeli che gremivano la chiesa, come il corpo del missionario fosse rimasto in terra d’Uganda (questo era stato il suo desiderio più volte espresso ai confratelli e ai familiari), quale segno di condivisione con i più poveri, con gli oppressi.
Alla fine della messa ha lanciato una sfida ai numerosi giovani presenti in chiesa:
“Il suo corpo è rimasto in terra d’Uganda, così come egli ha voluto, tra gli innocenti tra i quali è vissuto. P. Raffaele era un barlettano ed un barlettano deve sostituirlo in Uganda per proseguire il lavoro da lui iniziato”.
Cose analoghe sono state dette dal superiore Provinciale dei Combonini d’Uganda, p. Guido Oliana, il quale, presentando due sacerdoti ugandesi, ha sottolineato come l’opera di p. Raffaele fosse materialmente visibile in quei due giovani sacerdoti.
Il Consiglio comunale di Barletta ha voluto ricordare p. Raffaele proponendo la dedicazione di una via a suo nome. Non solo, ma il 13 gennaio 2001, il Comune, nell’ambito di una solenne cerimonia, presenti le autorità civili e religiose, e molti cittadini, ha destinato la cifra di 80 milioni per l’acquisto di un’auto uguale a quella distrutta nell’agguato, per la missione di Pajule. Domenica 25 marzo 2001 è stata dedicata una via a p. Raffaele Di Bari. La cerimonia è stata ripresa dal primo canale della televisione italiana nell’ambito del programma “A sua immagine”. Nella circostanza sono stati anche mostrati dal Vescovo di Trani e Barletta il calice, la patena e la teca, con dentro un’ostia non consacrata, bruciati nell’incendio dell’auto. In seguito verrà intitolata al Martire anche un edificio scolastico.
I ragazzi delle scuole di tutti i gradi, animati dai loro insegnanti, hanno svolto temi e ricerche su p. Raffaele e sulla sua esperienza missionaria. Si può veramente affermare che la città di Barletta si è stretta attorno al suo missionario in maniera mirabile e compatta.
Il Segretario generale della Conferenza Episcopale Italiana, mons. Ennio Antonelli, scrivendo al superiore generale dei Comboniani, ha fatto giungere le condoglianze e il cordoglio della Conferenza Episcopale Italiana e di quanti, nelle diverse comunità ecclesiali del nostro Paese, si impegnano a sostegno della missione universale della Chiesa.
I sogni di p. Raffaele
Il ricordo che ci resta di p. Raffaele è quello di un missionario entusiasta della sua vocazione, di un uomo conosciuto da tutti per la sua estrosità simpatica, generosità e volontà d’animo. Un uomo mai stanco di aiutare e sempre aperto ad utili iniziative.
Il ritornello che p. Raffaele ripeteva spesso nelle conversazioni sotto la veranda di casa, quasi fosse un sogno, riguardava alcune poche cose, ma essenziali, per la sua gente. Le troviamo scritte su un pezzo di carta che è stato trovato nella sua stanza
Viaggiare senza paura di imboscate.
Passare una notte senza sentire spari.
Vedere la gente andare nei campi senza paura.
Vedere i bambini rapiti, restituiti ai genitori.
Vedere un maestro che insegna in un’aula e non sotto una pianta.
Vedere la gente del posto protagonista del proprio sviluppo.
Vedere gli ammalati con un’adeguata assistenza.
Vedere un’assemblea liturgica riunita senza paura di assalti e che loda Dio con canti di gioia.
“Stava dalla parte dei poveri perché vedeva in loro Cristo crocifisso - ha scritto un confratello -. Non ha mai detto di no a nessuno, neanche alla morte. E noi davanti a lui chiniamo la testa”.
Davvero p. Raffaele, autentico strumento di pace, ha realizzato nella sua vita la famosa preghiera attribuita a San Francesco: “Dov’è odio che io porti amore; dov’è divisione, che io porti unità; dov’è disperazione, che io porti speranza: perché su tutti gli uomini splenda la tua luce”. P. Lorenzo Gaiga
Da Mccj Bulletin n. 210, aprile 2001, pp. 54-67
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“È proprio nella solidarietà con questa gente che mi sento realizzato per manifestare con coerenza la mia fede”. Era solito chiedere al Signore di non finire su una sedia a rotelle (lui che ne procurava tante per i poliomielitici), e di non morire vecchio.
È morto in viaggio ferito a morte e bruciato.
P. Raffaele di Bari è il 22° martire comboniano, deceduto in un’imboscata a circa quattro chilometri dalla missione di Pajule, Nord Uganda, mentre era diretto ad Aciolibur per celebrare la santa Messa, il 1° ottobre 2000. Improvvisamente, alle 10.30 locali, si ode una scarica di fucile e poi l’esplosione di una bomba: è un colpo di bazooka sparato contro l’auto. La granata colpisce la macchina dalla parte del guidatore, trapassa la portiera e il fianco del Padre, quindi s’infila nel cruscotto e finisce nel vano motore. P. Raffaele fa appena in tempo a gridare: “Ahi! Ahi! Ahi!” e non dice altro. Alcuni di quelli che sono con lui, scappano. La suora e gli altri che viaggiano con il Padre si salvano.
Vittima del LRA: martire, perché?
I ribelli, appartenenti al LRA (Esercito della Salvezza del Signore), circondano l’auto, fanno prigionieri quelli che non erano riusciti a fuggire, rovistano dappertutto cercando qualcosa da rubare. Prendono l’orologio del Padre, infilano le mani nelle sue tasche, ma non trovano soldi. Lanciano una bomba a mano per incendiare l’auto, ma l’auto non prende fuoco. Prendono della paglia per appiccare fuoco alla macchina, che divampa coinvolgendo anche il corpo, ormai esanime, di P. Raffaele, rimasto al suo posto di guida. Quindi si allontanano in tutta fretta con i ragazzi che poi liberano, eccetto il figlio del cuoco della missione che non tornerà mai più a casa.
Appena giunge in missione, a Pajule, la notizia che il Padre è stato vittima di un’imboscata. P. Antonio Simeoni si reca sul posto dell’eccidio insieme a qualche altro. Il pick-up di P. Raffaele è tutto un rogo e non possono aprire la portiera della macchina. Il corpo del Padre, intanto, brucia come una torcia. Quando finalmente riescono a spegnere il fuoco e ad aprire l’auto, P. Simeoni stende il camice che aveva con sé nell’altarino portatile, vi depone i resti carbonizzati e si dirige verso la missione. È circa l’una del pomeriggio del 1° ottobre, grande Giubileo del 2000. A Roma, proprio in quelle ore, il Papa sta canonizzando oltre un centinaio di martiri della Cina e, e insieme ad essi, anche Giuseppina Bakhita, sudanese del Darfur.
Il funerale ha luogo nel pomeriggio del 2 ottobre. Scrive Fr. Elio Croce: “Sono andato alla sepoltura di un martire, il 22° nell’elenco dei missionari comboniani che hanno sacrificato la vita per la giustizia, la carità e la fedeltà alla loro vocazione. Anche P. Raffaele, come gli altri che lo hanno preceduto, poteva starsene al sicuro in casa; oppure abbandonare il posto e la gente e tornarsene in Italia… Ha voluto condividere fino in fondo la vita e la morte del suo popolo, consapevole che la vocazione missionaria gli chiedeva questo”. P. Antonio Simeoni aggiunge: Nel posto dell’imboscata è stata eretta una croce, in segno di pace e di perdono per tutti.
Verso il sacerdozio e la missione
Raffaele è un giovane pugliese, quando entra nel noviziato comboniano di Firenze nel 1946. Nella domanda d’ammissione ai Voti, Raffaele si dichiara disposto a “dare tutto il mio sangue, anche per una sola anima da salvare”. Parole profetiche. È ordinato sacerdote a Milano il 26 maggio 1956 dal Mons. Montini, il futuro Paolo VI. Presta servizio per tre anni in Italia, prima a Crema e poi a Troia (Foggia). Nel 1959 P. Raffaele è destinato all’Uganda, a Morulem, dove c’è la missione e il lebbrosario. Studia la lingua acioli ed entra a contatto con la realtà dei poveri, emarginati, malati di lebbra, che diventano i suoi “maestri in umanità”. Nel 1962 passa a Kalongo dove, grazie all’apporto di P. Giuseppe Ambrosoli, medico, e oggi Servo di Dio, sta nascendo il grande ospedale. P. Raffaele collabora facendo tanti viaggi per l’ospedale, per portare i dottori o ritirare medicine e macchinari.
Dopo un anno di studio in Europa, ritorna a Kalongo per altri due anni e poi passa a Opit, piccola comunità, dove vivono in estrema povertà: c’è da costruire la missione, organizzare l’apostolato… È pane per i suoi denti! Lo stesso succede nella seguente missione di Awac (1968-1975), ove crescono i progetti in favore della gente: scuole, cappelle, catechisti, mulini per macinare il grano, borse di studio per studenti.
Salvatore di vite umane…
Durante il periodo di Amìn, P. Raffaele non abbandona le sue posizioni, si destreggia nel tentativo di risparmiare vite umane e le stesse missioni. Fa la spola tra parrocchie vicine, portando in salvo chiunque fosse in pericolo. Quando arrivano la fame e il colera fa di tutto per arginare quei flagelli “importunando” chiunque possa aiutarlo. Ma paga caro il suo zelo. Infatti un’ulcera duodenale, con conseguenti emorragie, lo costringe a rientrare in Italia per un possibile intervento.
Di fronte alla carestia e la fame che le guerre scatenano, P. Raffaele insiste con i giovani più volenterosi che bisogna coltivare riso, girasole e altro, per avere cibo e condimento: “La terra è generosa in Uganda - soleva dire - basta lavorarla e ci sarà cibo per tutti”. Distribuisce centinaia di zappe e alcuni aratri. Provvidenzialmente arrivano piogge abbondanti e quindi vengono i raccolti: granoturco, arachidi, sesamo, patate dolci, miglio, girasole, cassava oltre a banane e manghi.
I missionari invitano a deporre le armi
Il governo di Museveni, giunto al potere nel 1986, tenta di realizzare la concordia usando l’amnistia per chi depone le armi. I missionari collaborano a quest’opera, convincendo gli ex soldati a lasciare il fucile e a riprendere la zappa. P. Raffaele si distingue nel propagandare l’amnistia come l’unica via alla pacificazione.
Nel 1989, torna a Pajule, va a riaprire Kalongo, che era stata evacuata ma ben custodita dai cristiani del luogo. Migliora un po’ la situazione generale, è permesso ai missionari di tornare nelle zone per lungo tempo devastate dalla guerriglia... Dietro richiesta dell’Ambasciata italiana, il governo ugandese concede a P. Raffaele l’uso di una radio trasmittente per comunicare e ricevere messaggi.
Permangono ancora tanti problemi per la gente: fame, rifugiati o sfollati, strutture distrutte, tragici episodi di parenti uccisi, bambini e giovani rapiti e portati in Sudan, capanne e case bruciate e tanti mutilati per lo scoppio delle mine. Scrive: “È proprio nella solidarietà con questa gente che mi sento realizzato per manifestare con coerenza la mia fede”.
Attentati in serie. Perché?
P. Raffaele deve subire due attacchi alla casa dei missionari. Il 1° novembre 1997, alle 6 del mattino, a Opit; un altro il 29 settembre 2000, questa volta a Pajule. Anche questa volta è solo sfiorato dai proiettili. Anni prima era stato messo al muro per essere fucilato. Nonostante questi attentati, non si dà per vinto e continua il lavoro.
Ultima tappa della vita missionaria di P. Raffaele è la parrocchia di Pajule. Vi arriva nel luglio 1998 e vi troverà una morte crudele. Perché la morte di P. Raffaele? E perché quel tipo di morte? Ce la dà lui stesso la risposta con una telefonata alla MISNA (l’Agenzia informativa missionaria) pochi giorni prima di essere ucciso: “In tanti anni di Africa, la missione più grande che abbia ricevuto dal Signore è stata quella di dare voce a questa gente, denunciando al mondo le atrocità che i ribelli commettono quasi quotidianamente contro i vecchi, donne e bambini, che per colpa di questa guerra vengono rapiti, drogati, trasformati in soldati e assassini, usati per la pedofilia o commercio di organi… Questi bambini soldato sono creature terrorizzate e traumatizzate, veri martiri di una situazione allucinante che continua a falciare la vita del Nord Uganda, per le azioni ignominiose dei guerriglieri appartenenti al movimento LRA… Non posso tacere di fronte a queste atrocità”.
Per questa sua azione di “corrispondente dalle prime linee”, P. Raffaele è stato minacciato più volte. Ora non parla più, ma grida con il suo martirio.
(Dalla serie “I Martiri” preparata a Verona da P. Romeo Ballan, 14.9.2010)