P. Antonio Mazzucco è stato ucciso dalla malattia con la quale ogni missionario d’Africa ha dovuto fare i conti: la malaria. Attacchi di malaria ne aveva avuti tanti e sempre li aveva sconfitti con le medicine adeguate. Questa volta, però, il male si è mostrato resistente al farmaco.
Oltre a questo, P. Mazzucco e è stato colpito da una setticemia generale che l’ha prostrato e, probabilmente, gli ha tolto tutte le difese. Visto che le cose si mettevano al peggio, i confratelli trasportarono il malato da Alua dove si trovava, a Nampula dove c’è un ospedale ben attrezzato, il più importante della regione. Non ci fu niente da fare: nonostante le cure dei sanitari, la presenza delle suore comboniane e dei confratelli, alle 4.00 del mattino, il caro padre, munito di tutti i conforti religiosi che aveva chiesto e ricevuto con tanta devozione, cessò di vivere.
Il 15 giugno sarebbe dovuto tornare in Italia per le vacanze, per mettere a punto la salute e per festeggiare la zia suora (sorella del papà), delle Figlie di San Giuseppe, che in luglio compiva 100 anni. Alla notizia della morte del nipote, la buona suora protestò col Signore: “Io ho cento anni e sono ancora qua a disturbare il prossimo, mentre lui, ancora un ragazzo (?) e per di più tuo missionario in Africa, lo hai già chiamato a te!”.
Infanzia dura ma serena
Papà Giuseppe era il sarto del paese, mentre mamma Emilia Cesarotto, faceva la casalinga. Ma per mandare avanti la numerosa famiglia composta di 8 figli, dei quali Antonio era il sesto, trovava ancora il tempo di dare una mano al marito passando tante notti in bianco per terminare i lavori per i clienti. E come se ciò non bastasse, andava anche a lavorare nei campi presi in affitto, insieme ai fratelli del marito che vivevano sotto lo stesso tetto.
Aumentando i membri delle varie famiglie, nel 1935 s’impose la necessità di emigrare. Papà Giuseppe partì per primo portandosi dietro la numerosa famiglia e piantò la tenda nella frazione San Cosma di Monselice dove c’era una maggior prospettiva di lavoro e della buona terra, sempre in affitto, che aveva bisogno di braccia robuste. In quel periodo, la famiglia fu anche bersagliata da malattie che misero a dura prova la fede di tutti.
Antonio frequentò le elementari presso la scuola San Cosma che distava da casa tre chilometri. Egli percorreva quel tratto in compagnia del fratello Romualdo e della sorella Agnese. Durante la strada i tre fratellini recitavano le preghiere del mattino e poi ripassavano la lezione che il maestro aveva spiegato il giorno prima. Fu certamente per questo amore allo studio che Antonio risultò sempre uno dei migliori della classe.
Alle 13.00 le lezioni terminavano e i tre si affrettavano a rincasare perché erano affamati come lupi. Molto spesso Antonio, invece di rientrare in casa, andava in qualche casa dei vicini per fare qualche lavoretto in cambio di un piatto di minestra e di una bella fetta di pane e formaggio. Ogni tanto arrivava anche qualche mancia in denaro. Così i due fratellini potevano dividersi anche la sua parte. Poi rincasava per i compiti e quindi via nel campo con la mamma e con gli altri. Un’infanzia dura, la sua, costellata da tanti piccoli gesti di generosità.
Tra le sue passioni c’era l’uccellagione. Al tempo dei nidi si arrampicava sugli alberi per portare a casa i piccoli (e la mamma lo rimproverava perché si strappava i calzoni e la camicia, con tutto quello che la povera donna aveva da fare). Era un esperto nella cattura degli uccelli in quanto riusciva a catturarli qualche giorno prima che spiccassero il volo. Nelle altre stagioni costruiva piccole trappole e archetti. Questa passione non era ispirata esclusivamente dallo sport, ma soprattutto dalla necessità di fare delle sostanziose colazioni a base di polenta abbrustolita e uccelletti in padella.
Dato che Monselice era distante da casa, frequentava la parrocchia e l’oratorio di Pozzonovo. Qui ricevette la prima comunione e la cresima e si distinse sempre per lo studio della dottrina cristiana.
La vocazione
Un giorno l’arciprete, Don Antonio Finco, chiamò mamma Emilia e le comunicò che suo figlio Antonio voleva farsi sacerdote.
“Vedo come serve la messa, come prega e come si interessa delle cose di Dio. Il suo ragazzo non può fare altro che il prete”.
“Il seminario, la retta da pagare – bisbigliò la mamma pur contenta di quella scelta del figlio – anche per il corredo, signor parroco, io posso dargli solo quello che indossa o poco più”.
“La mancanza di soldi non ha mai fermato una vera vocazione”, tagliò corto il parroco che aveva già parlato con i Comboniani di Padova. La guerra, intanto, aveva fatto sospendere ai ragazzi la frequenza alle lezioni per cui anche Antonio dovette perdere qualche anno.
Nel 1945, a 14 anni, Antonio entrò nella scuola apostolica di Padova che in quel periodo aveva la sua sede a Luvigliano, sui colli Euganei. In città, infatti, c’era pericolo dei bombardamenti americani, tanto più che la sede dei missionari era vicina alla stazione ferroviaria, presa continuamente di mira.
Antonio fece tutti i corsi regolari: medie a Padova, ginnasio a Brescia e noviziato a Firenze. Prima di lasciare il seminario per il noviziato, il superiore, P. Diego Parodi, scrisse di lui: “È un giovane tranquillo, calmo, piuttosto timido ma fedele ai suoi propositi di bene. È abbastanza diligente nello studio, di sincera pietà e buono con i compagni. Quando c’è qualche sacrificio da compiere è uno dei primi ad offrirsi. Fa sperare in una buona riuscita”.
Nella richiesta per essere ammesso al noviziato, in data 18 agosto 1950, scritta da Brescia, così si espresse: “Faccio umilmente domanda di essere ammesso al noviziato per diventare un santo sacerdote e missionario. Questo è il mio desiderio ardente e, per raggiungere la meta, sono disposto a qualsiasi sacrificio…”. Possiamo dire che P. Antonio è stato fedele al suo proposito.
Suo maestro in noviziato a Firenze fu P. Giovanni Audisio. Disse di Antonio: “Giovane docile ed inclinato alla pietà e alla bontà. Non ha incontrato notevoli difficoltà nel suo noviziato eccetto qualche esagerato timore per l’avvenire, causato più da un sentimento di umiltà che da reali manchevolezze. Modesto e riservato con i compagni, piuttosto timido e quasi timoroso. Il giudizio sull’ammissione ai santi Voti non lascia alcun dubbio. Buon criterio sorretto da una soda pietà. Salute ottima”. Il noviziato si concluse con la professione religiosa che ebbe luogo a Firenze il 9 settembre 1952.
Subito in Sudan
Frequentò il liceo a Verona e la teologia a Venegono Superiore progredendo sempre nella virtù. “Lodevole il suo sforzo per migliorarsi, buon elemento di unione, esemplare in tutto” furono i giudizi dei superiori (P. Albrigo a Verona e P. Baj a Venegono).
Ordinato sacerdote a Milano il 14 marzo 1959, a 28 anni, il 29 marzo P. Antonio celebrò la sua prima messa nella parrocchia di San Cosma e Damiano e il 5 aprile in quella di Possonovo. Fu una festa grande per la famiglia e per il paese. Tutti, quel giorno, avevano qualche esempio da raccontare sulla bontà di P. Antonio quando era ragazzo sempre pronto ad aiutare gli altri sacrificando se stesso.
Già nell’ottobre del 1959 P. Antonio Mazzucco si trovava ad El Fasher, allora dipendente da Khartoum (oggi da El Obeid), come vice parroco. La missione, fondata nel 1954 e costruita sul territorio di un’antica chiesa siriana, rappresentava l’unica presenza cristiana in tutto il Dar Fur, poco popolata e pochissimo sviluppata. P. Ampelio Spolaore prima, P. Elia Toniolo poi, quindi P. Antonio Agrati con Fr. Agostino Milan vi profusero fatiche e sudori, incoraggiati da Mons. Baroni e dal suo vicario, P. Paolo Adamini, che promisero solennemente a quei pochi cristiani che la Chiesa cattolica non li avrebbe abbandonati.
P. Antonio vi giunse come “mulo da tiro” sottoponendosi ad enormi fatiche e privazioni perché il territorio era vasto mezzo milione di chilometri quadrati (quasi due volte l’Italia), senza strade, senza acqua, in gran parte desertico, con una popolazione di poco più di un milione di abitanti (allora) dei quali solo 30 (trenta) erano cristiani; il resto era una massa islamica. Diciamo solo che i nostri confratelli in quella terra arida, ma accogliente perché la gente voleva bene ai missionari, anche i musulmani, scrissero autentiche pagine di eroismo.
Nel 1961, P. Antonio passò ad El Nahud, sempre in quella zona anche se più vicino ad El Obeid. Anche quella era una missione di recente fondazione (1954). Qui, nel 1967, morirà P. Filiberto Zago.
È commovente il bene che la gente nutriva per il proprio missionario in quella zona arsa dal sole e spesso avvolta nella sottile sabbia che il vento alzava dal deserto trasformando il panorama come fosse avvolto da nebbia. Durante un periodo di assenza del missionario, una famiglia di cristiani coltivò dei fiori per offrirglieli al suo ritorno. Tardando il missionario, i fiori seccarono. Allora ne coltivò degli altri e tutti i giorni andava ad attingere acqua per annaffiarli. Finalmente, quando il padre tornò, trovò la sua tavola ornata da un bel mazzo di fiori freschi. Quanti sacrifici erano costati quei fiori?
Nel 1962 P. Antonio lasciò El Nahud e andò ad Abiey, tra i denka, come vice parroco. Questa missione si trovava sul limite del confine tra il Sudan del Nord e quello del Sud. La missione era stata fondata nel 1955, ma nel 1962 venne staccata da Mading. Quindi, quando vi arrivò P. Antonio, era praticamente ai suoi inizi.
Il 17 marzo 1964 il comando di polizia di El Obeid informava per radiotelefono i missionari di Mading-Abyei che erano stati espulsi ed avevano 48 ore di tempo per lasciare tutto e andarsene. P. Ponzi, P. Antonio, P. Tanel e Fr. Cariani raggiunsero El Obeid con la loro auto scortata dalla polizia la sera del 20. Il 21 proseguirono per Khartoum in aereo. Il 23, insieme a Mons. Mason, proseguirono per Roma dove furono accolti all’aeroporto dal superiore generale, giunto pure da Khartoum il giorno prima. In questo modo ebbe fine l’avventura sudanese di P. Antonio Mazzucco.
Un nuovo campo: il Mozambico
Fatto l’anno di aggiornamento a Roma, nel 1965 P. Antonio partì per il Mozambico. Sua prima tappa fu la missione di Nacaroa dove doveva applicarsi soprattutto allo studio della lingua. Quella missione, come in genere tutte quelle del Mozambico, in quegli anni era in forte espansione. L’anno prima Fr. Vian aveva terminato la nuova grande chiesa, mentre P. Busi e P. Reggiori animavano 55 scuole distribuite nel territorio. P. Turrini, arrivato fresco dal Portogallo, aveva messo in pratica la sua professionalità come elettrotecnico. Non solo aveva fatto gli impianti in chiesa, ma era stato richiesto per lavori di elettricità nella locale caserma militare. In compenso il capitano diede alla missione cinque soldati in aiuto a Fr. Agostani impegnato nelle rifiniture della chiesa e nella costruzione delle casette per i maestri.
Nel 1966 P. Antonio fu inviato nella missione di Mueria come vice parroco. Con lui lavoravano P. Mario Martini e P. Cervelloni con Fr. Sardi e cinque suore. L’aumento della cristianità obbligava i missionari a spostamenti continui. Ma c’erano tante cappelle cadenti da restaurare e scuole da costruire. Le confessioni “sono come un torrente in piena”, annota il diario “e il nuovo arrivato deve farsi le ossa e… il resto”. Inoltre la Legione di Maria, molto sviluppata, occupava il nuovo venuto, ma si interessava anche della raccolta delle castagne di caju che costituivano una pietanza fondamentale nella dieta dei missionari e dei ragazzi del catecumenato.
Un momento forte fu il battesimo di 76 catecumeni, figli di musulmani. “Le loro famiglie parteciparono con mirabile entusiasmo alla gioia dei figli anche se da altre parti si assiste ad una sorda lotta proprio da parte dei musulmani che si oppongono al battesimo delle ragazze”, registra il diario.
Questa prima esperienza di missione in Mozambico contribuì a dare una forte carica a P. Antonio perché poté constatare che, pur con mezzi poverissimi, i cristiani crescevano al ritmo di 1.500 ogni anno e nelle scuole c’erano più di 3.000 scolari.
Analoghe soddisfazioni apostoliche gli vennero dalle altre missioni nelle quali esercitò il suo ministero. Dal 1971 al 1976 fu prima parroco e poi superiore locale a Mirrote, dal 1976 al 1979 vice parroco a Lurio, quindi ancora a Mirrote per passare a Namapa (1979-1984). Concluse questo primo periodo di missione con un servizio come parroco a Lurio dal 1984 al 1987. Questi spostamenti con frequenti ritorni nelle stesse missioni derivano dalla grande disponibilità del nostro confratello, sempre pronto ad accorrere dove c’era bisogno, per l’assenza dei missionari quando rientravano in Italia per le vacanze.
Tra le varie sofferenze che colpirono P. Antonio ci furono violenti attacchi di malaria ai quali era frequentemente soggetto. Inoltre era uno che non aveva troppi riguardi quando si trattava di risparmiare fatiche e strapazzi, specialmente per visitare i villaggi lontani dal centro, spesso nutrendosi poco e male.
Parentesi italiana
Dopo 28 anni di missione, interrotti solo dal corso di aggiornamento, P. Antonio aveva bisogno di una ripassatina alla salute. Venne mandato a Milano come addetto al ministero e in particolare all’animazione missionaria. Anche i suoi parenti erano emigrati nel Milanese per cui poteva trovarsi con loro ogni tanto.
Lavorò bene, con impegno, ma il richiamo della missione gli toglieva spesso il sonno per cui, dopo appena un anno, nel 1988, era nuovamente a Nacaroa come vice parroco. P. Antonio evitava, per quanto gli fosse possibile, gli incarichi di responsabilità preferendo essere un silenzioso lavoratore nel Regno di Dio, un uomo di fatica. Aveva una grande capacità di stare con la gente, specialmente la più semplice e la più umile. Aveva una predilezione per gli anziani e per i malati che andava a visitare nelle loro capanne portando quello che poteva.
Il Mozambico, infatti, stava passando un periodo molto difficile. Indipendente dal 1975 dopo 500 anni di dominio portoghese, aveva pagato la libertà con una sanguinosa guerra contro il Portogallo. I morti e i feriti, per la verità, furono da ambo le parti. La guerra portò emarginazione, carestia, incendi di villaggi. Non c’era famiglia in Portogallo che non avesse il suo morto in Mozambico o in Angola…
Il governo di stampo marxista-leninista (Frelimo) che andò al potere, nel 1986 elesse l’Assemblea governativa formata da 250 deputati tutti di quella pasta, e in Mozambico scoppiò un’altra guerra civile, furibonda, tra i governativi e gli oppositori appartenenti alla Renano. Per i missionari si prospettarono giorni difficili, le missioni furono guardate a vista e nessun missionario poteva uscire dal proprio cortile. Eppure nessun comboniano abbandonò il suo posto, dimostrandosi disposto a condividere disagi e morte con i poveri.
P. Antonio, che era al sicuro a Milano, volle tornare in quel Paese dove il pericolo di lasciarci la pelle era all’ordine del giorno. Era il 1988. I suoi gesti di eroismo per salvare quanta più gente gli fosse possibile, specialmente dalla morsa della fame, incisero profondamente sulla sua salute.
Disposto a morire
Nel 1991 P. Antonio si trovava a Nacaroa. Ad un certo punto, il provinciale (P. Palagi) gli disse che sarebbe potuto tornare in patria, però avrebbe dovuto chiudere la missione per mancanza di personale. P. Antonio scrisse al Superiore Generale:
“In luglio dovrei essere in Italia per il corso di aggiornamento, per qualche anno di rotazione e per la salute, ma quando ho saputo che se io fossi partito, il provinciale avrebbe chiuso la missione, gli ho detto che ricuso di andare in Italia, rifiuto la rotazione e il corso di aggiornamento di cui avrei certamente bisogno. Se non si trova un altro missionario che prende il mio posto, io non mi muovo. Non posso in coscienza abbandonare 17.000 cristiani senza contare i 60.000 tra pagani e musulmani. Rimarrò, senza corsi, senza rotazione e a costo di morire, come è morto P. Vittorio Ruggera, mio predecessore.
Tuttavia, qualunque sia la sua risposta, io la eseguirò perché è il superiore che rappresenta Dio e vede le cose meglio di me; inoltre io so che lei ama questo popolo mozambicano più di quanto lo ami io e quindi vuole il suo bene più di quanto lo voglio io”. Il Superiore Generale rispose: “Ho iniziato subito il dialogo con la provincia del Portogallo e quella d’Italia per cercare chi ti possa sostituire. Intanto aspettiamo questa benedetta pace. Ti sono grato per avermi scritto perché le lettere dei confratelli mi fanno sentire un po’ in dialogo con i confratelli”.
Ancora in patria
Nel 1992 i superiori lo misero in condizione di rimpatriare. Il nuovo Superiore Generale, P. Glenday, gli scrisse: “Hai dato in Mozambico una grande testimonianza di fede e ciò è dovuto solamente alla tua comunione con Gesù che ti ha dato la forza di rimanere al tuo posto durante questo tempo terribile. Per favore prega per me perché possa compiere il mio servizio in maniera degna dei confratelli”.
Si dedicò al ministero nella comunità di Verona (1992-1996) dove poté curare la salute, e approfittò per un secondo corso di aggiornamento a Roma.
Nel 1996 si sentiva ristabilito per cui ritornò ancora in Mozambico. Fu ad Alua, a Mueria e quindi nuovamente ad Alua, dedito esclusivamente al ministero in missione e tra la gente dei villaggi, per il quale si sentiva particolarmente portato. Alla domanda che diceva: “Come ti sei trovato in missione?” egli rispose per iscritto: “Bene come suddito, male come superiore perché mi sento portato all’apostolato diretto tra la gente”.
Riposa vicino ad una martire
“Ero stato ad Alua dieci giorni prima – scrive il Provinciale del Mozambico – abbiamo parlato e condiviso le comuni preoccupazioni pastorali in favore della gente di Alua. Ci siamo lasciati con tanti bei progetti da portare avanti, ma non avevamo fatto i conti con i progetti del Signore, che erano diversi dai nostri.
P. Antonio è morto all’ospedale di Nampula dove i confratelli lo avevano portato. Fu assistito da Fr. Silvano Bergamini che non lo ha mai abbandonato. La sera prima aveva ricevuto tutti i sacramenti con molta devozione. È spirato dopo aver recitato il Credo e il Padre Nostro. Ora è in Cielo a ricevere il giusto premio per la sua dedizione al Vangelo.
Nella chiesa di Santa Croce di Nampula abbiamo avuto una solenne celebrazione funebre con la presenza del nuovo vescovo, Dom Tomé Makwelia, di tanti sacerdoti, religiosi e cristiani. Il giorno dopo si è avuta una cerimonia simile a Carapira, che è la sede ufficiale tra le più antiche per noi Comboniani. Ha presieduto l’Eucaristia il vescovo di Nacala e hanno partecipato tutti i missionari e le missionarie delle due diocesi di Nacala e Nampula.
P. Antonio è stato sepolto vicino a Sr. Teresa Dalle Pezze, la missionaria comboniana uccisa nel 1985, a Fr. Mario Metelli e a Sr. Innocente Innocenti”.
Il ricordo che P. Antonio lascia ai cristiani e ai confratelli del Mozambico è quello di un grande lavoratore, umile e mite, che non ha mai disturbato nessuno. La sua eredità resta la totale dedizione alla causa missionaria e ai poveri, senza mai lamentarsi dei suoi acciacchi che, ultimamente, erano diventati numerosi e la fedeltà alla vocazione che ha vissuto in pienezza. Che dal cielo interceda per il Mozambico che ha sinceramente amato e per il quale si è immolato. (P. Lorenzo Gaiga, mccj)
Da Mccj Bulletin n. 212, ottobre 2001, pp. 94-101