In Pace Christi

Franco Mario

Franco Mario
Data di nascita : 03/03/1921
Luogo di nascita : Porto di Legnago VR/I
Voti temporanei : 07/10/1939
Voti perpetui : 07/10/1944
Data ordinazione : 29/06/1945
Data decesso : 18/09/2001
Luogo decesso : Verona/I

La vocazione alla vita missionaria in P. Mario Franco è legata alla sua maestra di scuola elementare che faceva parte di quel gruppo di “zelatrici delle missioni” che si resero tanto benemerite nella storia missionaria di Verona.

La signorina Rosa Bianchini, al tempo in cui Mario era un ragazzino, era già piuttosto in su con gli anni, tuttavia non le era venuto meno l’entusiasmo per la causa missionaria. Durante le sue lezioni inseriva i racconti dei missionari che mensilmente leggeva su Nigrizia e sul Piccolo Missionario. Terminava sempre con l’invocazione: “Oh, se qualcuno di voi si facesse missionario, vedete quanto c’è da fare in Africa per far conoscere il Vangelo di Gesù!”

Mario, ragazzino semplice, calmo, amico di tutti, si persuase che quella delle missioni fosse la sua strada. Intanto frequentava la chiesa come chierichetto e, nei momenti liberi, si dedicava alla lettura dei libri missionari che la maestra gli prestava.

“Eravamo cinque fratelli, quattro maschi e una femmina, l’ultima della covata. Mio papà si chiamava Vittorio e la mamma Rosa Galletto – scrisse. – Mi piaceva seguire il papà quando andava nelle corti dei contadini per trebbiare il frumento. Egli, infatti, possedeva la trebbiatrice azionata dal trattore. E queste cose mi affascinavano. Andavo ogni tanto anche dalla mia vecchia maestra che mi dava lezioni supplementari e mi aiutava a fare i compiti. Forse vedeva in me una certa inclinazione allo studio, perciò voleva curarmi bene. Con me c’erano anche altri miei compagni alcuni dei quali si sono fatti sacerdoti. Questa maestra ci parlava spesso delle missioni, dei martiri del Giappone, e ci raccontava tanti esempi che ricavava dalle riviste missionarie, specialmente da Nigrizia. Mi passava qualche libro missionario che io leggevo con molto gusto.

Un giorno mi fece la domanda cruciale: ‘Senti, Mario, non ti piacerebbe andare anche tu in Africa o in qualche altro posto del mondo a portare il vangelo?’.

‘Io sì, ma prima devo finire le elementari, e poi devo sentire se il mio papà è contento’.

‘Bene, allora parlane, e parla anche col parroco. Per le elementari potrai terminarle dai missionari’.

Ho sempre ricordato con affetto questa anziana maestra, perché è stata come la mamma della mia vocazione missionaria. Prego ogni giorno per lei... Ma torniamo a noi: parlai col papà che si è dimostrato subito contrario. Mamma, più remissiva, disse che se il Signore mi chiamava, era inutile fare tante storie: bisognava lasciarmi andare. Il parroco, interpellato da entrambi, disse che era contento della mia scelta perché era quella giusta. A questo punto anche il papà non parlò più.

D’accordo con la signorina Rosa Bianchini, la maestra, scelsi i missionari comboniani che avevano la loro Casa Madre a Verona”.

I primi passi a Padova

“Proprio nel 1931, l’anno in cui io entrai dai Comboniani, venne aperto il seminario missionario di Padova. Sembrava fatto apposta per me.

Fui accettato dopo la quarta elementare. Tentarono di farmi saltare la quinta e di mandarmi in prima media, ma dopo il primo trimestre pensarono bene di farmi fare marcia indietro in modo che potessi terminare la quinta come si deve. Il provvedimento non fu doloroso perché con me c’erano anche altri che subirono la stessa sorte”.

Qualche anno dopo anche il fratello Ferdinando, influenzato dalla vecchia maestra, chiese di seguire il fratello maggiore.

“E no, questa volta no! – protestò il padre – uno sì, ma due no”. Il parroco, consultato in proposito, convenne che “uno sì, due no” poteva andar bene. E Ferdinando rimase a casa.

Mario proseguì molto bene. Le note dei superiori lo descrivono come un ragazzino “che ha dato subito buone speranze di sé”, che “mostra spiccata inclinazione alla pietà”, “di indole aperta e sincera”, che “si applica allo studio con serietà” che “va veramente d’accordo con i compagni ed è sempre pronto all’obbedienza”.

Per il ginnasio passò a Brescia. La pagella di quinta contiene tutti “otto” e “nove”, più i soliti tre “dieci” in condotta, diligenza e religione. Il suo superiore, P. Cesare Gambaretto, dopo essersi rallegrato per il buon successo di Mario (“anche i padri della casa assicurano che riuscirà un bravo missionario”), si augurava “che cresca in statura, perché è proprio piccolo e magro”.

Verso il sacerdozio

Il 10 settembre 1937 Mario entrò nel noviziato di Venegono e si mise sotto la guida di P. Antonio Todesco. Cominciò a lavorare su se stesso con intenso desiderio di acquisire lo spirito missionario che gli era indicato dai superiori e dalle regole. “Mostra grande spirito di pietà – scrisse il padre maestro – timido, semplice, un po’ scrupoloso. Ha continuato bene il suo lavoro e ha ottenuto buon profitto. È ancora assai bambino e quindi non capisce in tutta la sua estensione lo spirito religioso, però si è sforzato assai e ha ottenuto un buon successo. È alquanto chiuso e qualche volta pauroso con i superiori, ma la sua sincerità lo aiuterà ad essere sempre meglio indirizzato. È diligente, studioso, di buon criterio”.

Emise la professione religiosa il 7 ottobre 1939 e poi passò a Verona per il liceo e la teologia. Quando la Casa Madre fu occupata dai tedeschi, emigrò con gli scolastici suoi compagni a Rebbio di Como. Qui ricevette il suddiaconato, il diaconato e l’ordinazione sacerdotale che avvenne il 29 giugno 1945 da Mons. Alessandro Macchi.

Tornò al suo paese per la prima messa che fu celebrata sulla pubblica piazza perché la chiesa era stata abbattuta dai bombardamenti. Oggi, al posto della vecchia parrocchiale sorge il grande santuario della Madonna della Salute, la cui devozione P. Mario porterà in missione e coltiverà per tutta la sua vita.

Non potendo partire per la missione a causa dei mari pericolosi per la presenza di mine, i superiori lo mandarono come aiutante del parroco a Cadidavid, un paesotto alla periferia sud di Verona. Lì il novello sacerdote manifestò il suo entusiasmo di essere prete, soprattutto dedicandosi ai tanti poveri, agli ammalati, agli anziani che la guerra aveva fortemente provati. Si fece subito amare, tanto che, quando l’obbedienza lo destinò ad altre mete, ci furono delle persone che piansero.

Insegnante ed educatore

P. Mario stesso, in una pagina dedicata ai suoi primi 25 anni di sacerdozio, traccia in breve l’itinerario delle sue destinazioni:

“Dopo un anno trascorso a Cadidavid come cappellano, fui inviato nella scuola apostolica di Carraia come insegnante e assistente dei ragazzi. Mi trovai bene con quei ragazzi toscani, vivaci e pieni di entusiasmo missionario. Poi, dal 1947 al 1949, fui a Trento con un duplice ufficio: insegnante di storia e geografia e cappellano nella chiesa della Santissima Trinità, a Trento città”.

Chi scrive lo ricorda come suo insegnante. P. Mario si era fatto notare e stimare per il suo costante sorriso sulle labbra, anche a scuola. Preparava bene le sue lezioni e aveva la capacità di renderle interessanti perché parlava come se stesse raccontando delle storie che captavano l’attenzione degli alunni; però aveva un tono che sembrava voler dire: ‘Imparate bene quanto vi dico, ma guardate che la vita è un’altra cosa’. Durante le ore di studio passeggiava su e giù per l’aula leggendo il breviario o recitando il rosario.

Di tanto in tanto si fermava e guardava a che punto uno fosse arrivato col compito. Se qualcuno aveva bisogno di qualche spiegazione, anche nelle materie che non erano le sue, era sempre disponibile a bisbigliare la soluzione giusta, e poi riprendeva il suo su e giù contento di aver fatto una buona azione. Quando il superiore, P. Giorgio Canestrari, comunicò agli alunni che P. Mario sarebbe partito per il Messico, ci fu un sincero rimpianto. Egli disse che era contento di poter finalmente partire e ne approfittò per parlare del Messico, della Bassa California che erano proprio dall’altra parte del mondo, dove faceva molto caldo.

Bassa California

“Finalmente ricevetti l’ordine di partire per le missioni della California – prosegue P. Mario nella sua relazione. – Avevo un gran desiderio di lavorare nell’apostolato diretto. Salpammo da Napoli sulla nave ‘Italia’. Eravamo: P. Carlo Pizzioli, P. Marcello Panozzo, P. Gino Sterza, Fr. Igino Olivieri, Fr. Virginio Negrato e io. Quel viaggio presentava delle incognite perché eravamo tra i primi a toccare quella terra. Come attraccammo alle Azzorre, fummo salutati da una possente eruzione di un vulcano che investì la nave di cenere e lapilli, alcuni dei quali entrarono anche nelle nostre cabine. “Comincia bene!”, disse qualcuno, ma eravamo tutti pieni di entusiasmo per cui neanche il vulcano ci fece perdere il buon umore. L’11 ottobre sbarcammo al porto di New York e poi in treno raggiungemmo la Bassa California. Quel viaggio durò tre giorni e furono giorni di digiuno e di penitenza, non perché avessimo la proibizione di mangiare, ma perché non c’era niente (salvo un salame che la mamma di P. Panozzo – santa donna – gli aveva nascosto nella biancheria) e non avevamo soldi.

Il mio primo campo di lavoro fu Santa Rosalia, una cittadina mineraria, insieme a P. Amedeo Ziller. Vi giunsi senza conoscere la lingua. Nei primi mesi mi sentii a disagio sia per la lingua, sia per la mentalità della gente che non riuscivo a capire, sia per il caldo. Ricordo il calore terribile di quella missione in mezzo al deserto, sempre oltre i 35 gradi. Non ce la facevo proprio. Vivevo in una stanzetta dietro la chiesa, dormivo su una branda... Fu un anno terribile. La gente, inoltre, era piuttosto fredda nei confronti della religione. Un poco alla volta, però, vidi con soddisfazione che la chiesa si riempiva. L’anno dopo fui inviato a Todos Santos, dove il clima era più sopportabile.

Imparai in poco tempo le prime frasi di quella lingua piuttosto facile e così mi immersi nel ministero: visite agli ammalati, viaggi nei centri lontani in groppa a un mulo, istruzione, sacramenti, battesimi. Ho capito che la gente, quando le si vuole bene, sa ricambiare. E un poco alla volta cominciò a frequentare la chiesa e i sacramenti.

Dal 1950 al 1953 rimasi a Todos Santos con P. Carlo Pizzaioli e Fr. Erminio Pilia. Nel 1957 arrivò anche Fr. Giorgio Agnoli. Vi rimasi fino al 1960, anno in cui venni in Italia per le prime vacanze. A Todos Santos occorreva una chiesa. Fr. Pilia vi si dedicò con entusiasmo, cocciutaggine e forza e, il 12 dicembre 1954, anno mariano, potei benedire la nuova chiesa del ‘Pescatore’. Fu una festa indimenticabile nella quale ho potuto constatare come quella gente buona e semplice amasse la sua chiesa e noi missionari. Se c’erano state delle sofferenze e delle privazioni, le avevamo tutte dimenticate.

Prima che lasciassi Todos Santos, Mons. Giovanni Giordani benedisse la prima pietra della chiesa dedicata alla Madonna di Fatima che doveva sostituire la prima chiesetta. Iniziai anche i lavori per una casa per le religiose in modo da poter dare alle ragazze un punto di riferimento per la loro formazione spirituale e anche domestica”.

Una sorpresa amara

Per mandare avanti tutti questi lavori, P. Mario divenne questuante. Ogni tanto faceva un viaggio negli Stati Uniti per predicare qualche giornata missionaria. Una volta, era il 4 marzo 1958, tornando alla sua missione tutto contento perché la Provvidenza era stata generosa, quando mostrò i documenti alla frontiera, il poliziotto, che pareva l’uomo più mite del mondo, gli disse in tono piuttosto confidenziale: “Scommetto che lei è un ‘padrecito’ (un sacerdote)”.

P. Mario, non pensando che la costituzione messicana, ancora di ispirazione massonica e anticlericale, proibiva ai sacerdoti esteri l’accesso in Messico, invece di dire che era un professore come era scritto sul suo passaporto, rispose con la massima semplicità e altrettanta confidenza: “Sì, sono un missionario. Anzi, la invito nella mia missione di Todos Santos dove c’è un clima ottimo, a trascorrere le vacanze con la famiglia”. La sua semplicità e rettidudine non gli aveva fatto vedere il tranello nel quale era caduto. Infatti il poliziotto fece un cenno ad altri due suoi colleghi che lo presero, lo ammanettarono e lo portarono alla stazione di polizia dove fu chiuso in prigione.

“Questa proprio non me l’aspettavo – commentò P. Mario. – Ed ora cosa devo fare? Almeno fatemi avvertire i miei colleghi professori in modo che vengano a liberarmi”. Stava per dire “i miei confratelli missionari”, ma si corresse in tempo per non far finire in galera pure i suoi confratelli.

“I messicani, però, sono buoni e sanno sempre trovare delle scappatoie alle leggi. Mi confinarono nel convento dei Missionari dello Spirito Santo e lì vi sarei rimasto finché non avessi pagato una multa di 1.000 pesos e la cauzione di altri 8.000. Finalmente potei partire per Sahuayo, Messico, e infine per Todos Santos per continuare a fare il parroco ma anche l’economo, il falegname e l’elettricista per completare i lavori”.

I giudizi a suo riguardo sono veramente lusinghieri: “Ha un carattere felice – scrive P. Carlo Pizzioli – sa amare, compatire, aiutare e sacrificarsi, perciò è benvoluto dalla gente. Non perde mai la pazienza, sorride sempre ed è esemplare in tutto”. P. Vittorio Turchetti, che è stato suo superiore provinciale, loda lo spirito comunitario di P. Mario: “In comunità, con i confratelli, è una nota armoniosa”.

In Messico con tappa in Spagna

Dopo le vacanze in Italia (1960), P. Mario fu inviato in Spagna, a Corella (1961-62), come padre spirituale dei futuri missionari. Gli costò lasciare la Bassa California, ma accettò l’obbedienza di buon grado. In realtà si trattò di una parentesi che, tuttavia, indica la stima e la considerazione che i superiori avevano di P. Franco.

Nel luglio del 1962 era nuovamente in Messico, a San Francesco del Rincòn, come confessore ed economo nel seminario: “Mi trovo qui come direttore spirituale dei 17 ragazzi aspiranti fratelli che abbiamo al momento. Sono anche occupato con la chiesa di Santiaghito ed ho da fare scuola di religione ai ragazzi. Questa volta sono potuto entrare in Messico come turista. Devo rinnovare il permesso ogni 6 mesi”, scriveva al Superiore Generale il 2 aprile 1962. Nel 1963, tuttavia, era nuovamente in Bassa California “a prendere il posto del buon P. Luigi Corsini che è morto così misteriosamente. All’arrivo a Todos Santos ho trovato la gente ancora molto impressionata e continuamente mi ricorda P. Corsini che tanto faceva per attirarli al Signore. È con me Fr. Francesco Di Domenico. Non troviamo difficoltà con la gente, anche se alle volte è piuttosto difficile. C’è ancora molto lavoro da fare prima di avere una cristianità fervente”.

A Todos Santos c’era la Massoneria che lavorava molto e si opponeva in tutti i modi all’opera dei missionari i quali dovevano muoversi con la massima prudenza e circospezione per non fare la fine dell’ardente P. Corsini.

Rammaricandosi, nel 1964, per l’espulsione in massa dei missionari dal Sudan meridionale, scrisse: “Noi qui in California godiamo della santa libertà di poter esercitare l’apostolato anche lontano dai centri. Non possiamo svolgere grandi opere, ma almeno pensiamo di fare un po’ di bene alle anime. La gente ci vuole bene ed apprezza il nostro lavoro. Visito i centri lontani e la gente accoglie il sacerdote con grande rispetto e approfitta per compiere i doveri cristiani. Noi seminiamo la Parola del Signore con la certezza che a suo tempo darà frutti di salvezza. Per la festa della Madonna di Guadalupe abbiamo dato la prima comunione a 102 bambini. Cominciano a vivere la vita cristiana e così speriamo di avere, un giorno, un paese più cristiano”.

Confessore e padre spirituale

Dopo Todos Santos P. Mario passò alla parrocchia del Cuore di Maria di La Paz (1972-74) e poi a Santiago (1974-1986). Scrivendo a Roma nel 1977, quando era stato invitato per l’anno di aggiornamento e per un servizio alla provincia italiana, rispose: “Per me è veramente un sacrificio lasciare un’esperienza ben incamminata in mezzo a un popolo a cui sento di voler bene profondamente e per il quale ho accettato di fare qualsiasi sacrificio. Comunque sono perfettamente d’accordo che è necessario dare la possibilità a tutti di andare in missione senza lasciar cadere le attività necessarie alla continuazione del nostro carisma in Italia. Sono convinto che in qualsiasi parte ci troviamo a lavorare, si può essere missionari.

Personalmente mi vedo più realizzato nella pastorale e nell’evangelizzazione diretta. Per questo chiedo fin d’ora di poter tornare in missione appena sarà possibile”.

Difatti nel 1988 tornò nuovamente a La Paz, nella Casa Daniele Comboni, e poi a S. Ignacio (1989-96), per tornare nuovamente a La Paz con l’incarico di dedicarsi alla Cappella del Sacro Cuore con P. Efrem Agostini. Il vescovo lo nominò vicario delle religiose della diocesi.

Ormai già avanti negli anni, si dedicava esclusivamente al ministero delle confessioni e della direzione spirituale di tanta gente, anche sacerdoti e religiose, che si rivolgevano a lui. Era visto come l’uomo di Dio capace di dire la parola giusta a chi ne aveva bisogno.

Ultime battute

La salute cominciava a denunciare l’età piuttosto avanzata. Nel 1998 tornò in Italia per i controlli medici. Si riprese egregiamente, tanto che chiese subito di poter tornare al suo campo di lavoro. “Sto bene – disse ad un amico che gli chiedeva che cosa andasse a fare in Bassa California alla sua età. – Esami clinici ottimi su tutta la linea, e laggiù c’è molto da fare... Per cui ti ribalto la domanda: cosa farei in Italia, visto che sono ancora abile e pieno di voglia di lavorare? La parrocchia del Corazón di Maria, dove andrò, conta più di 25.000 abitanti e siamo una comunità di sei sacerdoti. Io, però, con un altro quasi della mia età, ho la cura di una rettoria che si trova nel centro della città di La Paz. La nostra attività si svolge né più né meno come nelle parrocchie italiane. Noi, però, insistiamo molto sulla formazione dei laici. Perché i laici (animatori parrocchiali e catechiste) sono la pupilla dei nostri occhi, sono la Chiesa del domani. Guai se non ci fossero! In una zona dove le vocazioni sacerdotali scarseggiano, sono indispensabili e lavorano benissimo facilitando il lavoro del sacerdote. Ho visto che qui in Italia i laici non sono valorizzati come dovrebbero. Forse perché qui ci sono ancora tanti sacerdoti. Per certi problemi (famiglia, lavoro, ecc.) sono anche più capaci del sacerdote stesso. Sono del posto, conoscono meglio la mentalità della gente...”

La gioia del contadino al tempo del raccolto

Rilasciando un’intervista per il periodico Missionari Comboniani, alla domanda: “Cosa ti resta maggiormente impresso nel cuore dei tuoi 49 anni di missione?”, rispose: “È una domanda molto impegnativa. All’inizio la gente non mi conosceva, inoltre non era abituata alla presenza del sacerdote, che mancava da decenni, per cui mi ignoravano e nessuno veniva in chiesa. Poco a poco le cose cambiarono: i messicani sono cordiali e simpatici per cui, quando si sono resi conto del mio lavoro, hanno cominciato a seguirmi. E la chiesa si è riempita di gente che cominciò a vivere la vita cristiana.

La chiesa di Todos Santos era stata costruita dai missionari gesuiti nel 1700, ma era piccola e fatiscente, per cui ne costruii una più grande, vicino alla missione”. Gli fu chiesto ancora: “Qualche altro ricordo più personale?”. “In Messico vigeva ancora la costituzione massonica, per cui i preti non potevano entrare nel territorio. Noi, infatti, eravamo entrati come ‘missione culturale’. Tuttavia, anche se conoscevano bene la nostra identità, ci hanno sempre rispettati e aiutati. Ciò che mi ha causato molta gioia è stato il constatare come la popolazione ha approfittato della presenza del sacerdote per fare un vero cammino di fede. Questo mi dava forza e non mi faceva sentire né il caldo, né altri disagi. Oggi la prima missione affidata ai Comboniani, quella di La Paz, è diventata diocesi. Questo è un grande passo in avanti. Hanno il loro vescovo, i loro sacerdoti e noi siamo loro aiutanti”. “Cioè vuoi dirmi che, da protagonisti, siete passati a un ruolo più basso”. “È vero che non siamo più i protagonisti, però il nostro ruolo è ancora importante e la nostra presenza è molto apprezzata; insomma, ci sentiamo amati dal giovane clero autoctono. Vuoi sapere qual è un’altra grande gioia di noi vecchi missionari? Sentirci ‘inutili’ nel senso che abbiamo fatto crescere una Chiesa che ora può camminare con le sue gambe, senza di noi”. “Cosa prevedi per il futuro?”

“Io continuo il mio lavoro di sempre, soprattutto come confessore e animatore della comunità. Perciò mi sento molto utile e realizzato. Sto constatando che questi miei anni sono i più belli, perché sono quelli della raccolta. La cosa più importante è proprio questa: che il terreno, sarebbe meglio dire il deserto, nel quale abbiamo seminato nel pianto, abbia germogliato una Chiesa giovane e bella. A questo punto noi possiamo andarcene senza rimpianti, anzi, con la gioia del contadino quando porta a casa i prodotti dei suoi campi”.

La giornata di P. Mario Franco era ormai decisamente finita. Il 29 giugno 2001 tornò in Italia perché la salute dava segni preoccupanti, soprattutto quanto a disturbi circolatori e cardiaci. Dopo una giornata in famiglia, fu ricoverato in Casa Madre per le cure adeguate. Parve che si riprendesse benino tanto che cominciava a parlare di ritorno in novembre quando un improvviso malessere lo fece ricoverare d’urgenza all’ospedale di Borgo Trento.

Vi entrò la sera del 17 settembre, trascorse una notte discreta, ma alla mattina un ictus lo stroncò definitivamente. La domenica precedente era stato presente alla festa dei parenti dei missionari comboniani veronesi in Casa Madre e aveva parlato della sua missione commovendosi fino alle lacrime. Forse percepiva che quanto diceva erano solo ricordi e non potevano più essere progetti per il futuro.

Testimonianze

Il parroco di Porto, presente al funerale in Casa Madre, ha detto:

“P. Mario è stato un uomo sempre in ascolto, sempre sorridente, semplice. Rientrava per le vacanze, ma il suo pensiero era in Messico. Nel 1995 abbiamo celebrato il suo 50° di sacerdozio, e lo aspettavamo a Porto per il 60°, invece è approdato ad un altro porto infinitamente più grande e più bello. Abbiamo la certezza di vederlo nella liturgia del cielo”.

P. Enzo Canonici ha sottolineato la sua capacità di costruire chiese in muratura, ma prima ancora di essere un costruttore di comunità cristiane. P. Gaetano Briani, riferisce sempre P. Canonici, quando visitò la Bassa California come Superiore Generale, ebbe a dire: “Ne avessi cento di missionari come P. Mario!”

P. Primo Silvestri lo ha chiamato: “L’uomo della misericordia, della riconciliazione”, sottolineando la passione di P. Mario per il sacramento delle confessioni.

P. Marcello Panozzo: “Ci siamo conosciuti a Brescia, poi in scolasticato. Il 29 settembre 1949 siamo partiti insieme da Napoli. Posso dire che P. Mario fu sempre animato dal desiderio di santità, dallo spirito di preghiera, da un grande amore alla gente e da una vera devozione alla Madonna di Guadalupe”.

Dopo il funerale in Casa Madre è stato sepolto nel cimitero di Verona, nel reparto riservato ai Comboniani. P. Mario lascia l’eredità di un padre buono, sempre sorridente, che ha amato la gente alla quale è stato mandato, totalmente dedito alla costruzione del Regno di Dio. Che dal Cielo ottenga alla Chiesa messicana tante e sante vocazioni.
P. Lorenzo Gaiga, mccj