Fr. Angelo Zanetti aveva “succhiato” fin da bambino lo spirito missionario, vivendo a stretto contatto con i missionari. Infatti nacque proprio nel rione San Giovanni in Valle, a Verona, dove si trova la Casa Madre dei Comboniani, e trascorse l’infanzia tra le tonache dei missionari che non mancavano di raccontare al ragazzino e ai suoi compagni, frequentatori abituali del frutteto in fondo all’orto, le avventure della missione.
Papà Giovanni Battista era muratore e fu uno di quelli che aiutò a costruire il “castello” di Don Calabria, che si vede dal cortile dei Comboniani. La mamma, Maria Melchiori, era casalinga. Entrambi ottimi cristiani.
Dopo aver frequentato le elementari alla scuola Bartolomeo Rubele, Angelo, a differenza degli altri 5 fratelli, chiese di frequentare il seminario diocesano come esterno. Il parroco della chiesa di San Giovanni in Valle, Don Giuseppe Bonometti, scorgendo nel giovinetto i segni di una sicura vocazione, pagò la retta poiché la famiglia era povera. Angelo frequentò il ginnasio fino all’età di 14 anni.
Durante le vacanze andava a dare una mano nella Tipografia Nigrizia che aveva la sua sede in Casa Madre. I suoi lavori, all’inizio, consistevano nel piegare, etichettare e spedire la rivista. Il lavoro gli piaceva, ma più ancora gli piaceva la compagnia dei missionari, per cui, dopo il ginnasio, anziché proseguire gli studi, fu assunto in tipografia come stipendiato. Vi rimase tre anni, fino all’età di 17 anni.
“Il contatto con i missionari, la loro cordialità e la gioia di aver donato la vita a Gesù Cristo nelle missioni furono gli elementi che influirono sulla mia scelta vocazionale. Se sono così contenti, giovani e anziani, – scrisse Angelo rispondendo ad un’intervista – vuol dire che la loro è una gran bella vita”. Ne parlò a P. Federico Vianello, una figura carismatica tra i Comboniani. Questi gli disse che lo avrebbe accolto molto volentieri. Il papà volle anche interpellare Don Calabria, di cui era amicissimo, e questi rispose che, se P. Vianello aveva detto sì, lui non poteva che confermare.
Tuttavia, dopo la prima richiesta, trascorse ancora un anno. Lo deduciamo da una lettera di Angelo scritta il 24 agosto 1927: “Si compie proprio in questo tempo un anno da che io le scrissi la mia prima lettera di domanda, e due da che ho l’intenzione di entrare nell’Istituto… Ho già fatto la visita medica come mi ha detto. L’esito è stato positivo… Desidero entrare un po’ prima dell’inizio degli esercizi spirituali in modo da ambientarmi e poter iniziare la preghiera e la riflessione senza distrazioni…”.
In Africa a 19 anni
Sulla condotta del giovinetto, ecco le dichiarazioni del suo parroco e del direttore del ginnasio vescovile.
Il primo dice: “Sul conto di Zanetti Angelo io non posso dare che buone informazioni sia riguardo alla moralità che alla pietà. E poi esercita un vero apostolato anche tra i compagni. Non sono così sicuro sulla sua salute perché è un po’ gracile”.
Il secondo, Mons. Timoteo Lugoboni, dice che Angelo ha frequentato la prima classe ginnasiale nell’anno 1921-22 ed è stato promosso alla seconda. Il papà ha rilasciato il permesso con le scarne ma sostanziali parole: “Lascio libero mio figlio che si faccia missionario, sperando che Dio veramente lo chiami a questa vita”.
Così, a 17 anni compiuti, Angelo entrò nel noviziato di Venegono Superiore con l’intenzione di diventare Fratello, e l’11 febbraio 1930 emise i voti temporanei. Venne inviato a Brescia a prepararsi per la missione che era prossima. Il 23 luglio 1930 s’imbarcò a Brindisi e raggiunse l’Egitto e poi proseguì per il sud. Aveva 19 anni sulle spalle e 40 quintali di merce come bagaglio personale. Tutta merce destinata alle missioni del Sudan Meridionale. Tra gli altri viaggiavano con lui Fr. Emilio Calderola e P. Antonio Figini. Dopo sei settimane di viaggio, parte in nave, parte in treno, parte in battello, raggiunse Wau, la sua prima missione di destinazione.
La vita missionaria di Fr. Angelo può essere divisa in due parti: Sud Sudan dal 1930 al 1959; Uganda dal 1961 al 5 agosto 2000, anno del suo definitivo rientro in Italia.
Il primo impatto con l’Africa è descritto in terza persona nell’introduzione ad un libretto di ricordi intitolato “Missionari di ieri”.
“Arrivato nel lontano 1930, appena ventenne, nella regione immensa del Bahr el Ghazal o Fiume delle Gazzelle, nel Sudan Meridionale, Fr. Angelo poté assaporare tutto il profumo di un’Africa genuina ed accogliente: una natura intatta, meravigliosa, esuberante. Ne fu subito affascinato. Da allora l’Africa fu la sola ragione di tutta la sua vita.
Le molteplici attività di un Fratello erano allora, e lo sono ancor oggi, un prezioso contributo allo sviluppo delle missioni. Quanto racconta Fr. Angelo non è che una delle tante esperienze dei missionari di allora. Forse oggi l’Africa è cambiata: certo, non è più l’Africa dei pionieri. Ma lo spirito e il coraggio del missionario non sono mutati: ieri il ruggito del leone, oggi il crepitio della mitraglia”.
A Wau, in Sudan, cominciò subito a fare il tipografo: “Stampavamo un giornale locale molto apprezzato dai pochi che sapevano leggere… La cultura era molto importante perché apriva la strada all’evangelizzazione. Poi mi sono dedicato alla segheria e alla carpenteria”, disse in un’intervista. Parlando del Sudan, precisò: “Quando vi giunsi, nel 1930, il Sudan Meridionale era povero, pagano, ma in pace. Quando l’ho lasciato, nel 1959, poiché i superiori mi avevano richiesto per l’Uganda, il paese era in guerra. Quella guerra che dura ancora ai nostri giorni e che ha provocato una spaccatura tra Sud e Nord con il contorno di bombardamenti, fame, schiavitù, distruzione…
Ma c’è anche la parte positiva: dalle nostre scuole è uscita una classe di bravi intellettuali, senza parlare del cammino della Chiesa che è stato sublime. Oggi il cristianesimo è molto diffuso. Ci sono vescovi sudanesi, sacerdoti locali, seminaristi, suore, congregazioni con un bel numero di religiosi e suore e un gran numero di ottimi catechisti. L’Africa ha avuto e ha i suoi martiri per la fede. Questa è una cosa meravigliosa, anche se ci fa piangere il cuore”. Pur riconoscendo la dura realtà dell’Africa, Fr. Angelo era, e rimarrà sempre, un ottimista.
40 anni d’Uganda
Il secondo periodo missionario, quello ugandese, lo vide come addetto alle costruzioni a Maracha (1961-63), Namalu (1963-1987), Moroto (1987-1989), Matany (1989-2000). Come era successo in Sudan Meridionale, anche in Uganda Fr. Angelo passò per quasi tutte le missioni per portare la sua opera e il contributo della sua esperienza.
In un foglietto, troviamo elencati i principali lavori ai quali si era dedicato: “Ho scavato pozzi e imbrigliato dighe per raccogliere l’acqua, ho costruito stazioni missionarie, scuole, chiese e dispensari, andavo nei boschi a tagliare il legname per fare le capriate dei tetti delle chiese, ho impiantato officine, impastato mattoni, coltivato l’orto perché i confratelli avessero cibo sano e abbondante, ho fatto anche il dentista, l’infermiere, l’idraulico, il meccanico, il falegname e anche il direttore di fattorie”. Sappiamo che era anche un abilissimo cacciatore “non per divertimento – precisava – ma per necessità in quanto in certi periodi in missione si pativa la fame”.
“Quando giunsi in Uganda, trovai una nazione meno povera rispetto al Sudan, meno pagana e in pace salvo una sorda lotta tra cattolici e protestanti che ha sempre caratterizzato quel paese. Quando l’ho lasciata c’erano i ribelli che scorazzavano uccidendo, bruciando, portando via ragazze e bambini per trasformarli in guerrieri. Ho visto la fame, il colera, l’AIDS, ma non è mai mancata la speranza, perché l’Africa è il continente della speranza”.
In Uganda dovette subire l’insulto della guerra che si è protratta per anni con tutte le conseguenze che questo flagello porta con sé.
Al tempo del dittatore Amin anche Fr. Angelo fu messo al muro per essere fucilato, ma poi riuscì a convincere il soldato a lasciarlo vivere accontentandosi di portargli via le cose che aveva. In un’altra occasione vide due soldati nemici entrare nel cortile della missione da due parti opposte con le armi spianate. Uno dei due, preso dal panico, si fece un frettoloso segno di croce. L’altro, pure cattolico, abbassò l’arma, si avvicinò e gli strinse la mano. “Io ho visto e mi sono commosso. Ecco la potenza del messaggio evangelico che siamo venuti a portare”, commentò Fr. Angelo. E, dopo aver rifocillato quei due che erano affamati, li rimandò per la loro strada non senza aver loro raccomandato di abbandonare le armi e cambiare vita.
Di pericoli ne superò a bizzeffe, “ma il Signore e la Madonna mi hanno sempre aiutato”, diceva.
Fr. Angelo era un uomo che amava la gente e dalla gente era riamato, spesso con gesti commoventi. “Recentemente sono arrivato in un villaggio dei Karimojong. Ero bagnato come un pulcino per un furioso temporale che mi aveva sorpreso. Mi vide una bimbetta che avrà avuto sette, otto anni. Mi invitò nella sua capanna dove c’era la mamma, mi invitò a togliermi la camicia e la mise sulla cenere perché si asciugasse e si scaldasse. Alla fine, prima di lasciare la sua capanna, mi diede una ciotola di latte caldo e mi augurò buon viaggio. Chi ero io per lei? Non ci eravamo mai visti. Ma l’Africa è proprio così: ospitale, accogliente, per chi la ama”.
“I miei momenti di gioia erano quelli in cui, durante la fame, potevo distribuire i prodotti della fattoria: latte, olio, grano. Ma questa gioia era ancor più grande quando potevo consegnare un paio di buoi, un aratro e gli attrezzi da lavoro ai giovani che avevano frequentato la scuola di agraria perché potessero fare da soli. Allora si toccava con mano quella che era la promozione umana che il missionario operava in Africa”.
Buon religioso e gran lavoratore
I sentimenti e la spiritualità di Fr. Angelo si possono ricavare da alcune sue lettere scritte nei primissimi anni di Africa, in occasione della rinnovazione dei voti. Ma, stando alle testimonianze concordi dei confratelli, sappiamo che tutta la sua vita è stato un costante cammino verso la perfezione.
Nel 1931 scrisse: “Sono contento dello stato religioso abbracciato e ne ringrazio quotidianamente di cuore il Signore. Il mio desiderio non è altro che di continuare fedelmente nella mia vocazione fino alla morte. Come notizie le dico che, dopo un anno trascorso a Wau nella tipografia, ora sono a Kajango a sostituire Fr. Giuseppe Pagliani, partito per la fondazione tra i Boro. Qui mi trovo benissimo e sono molto contento della vita di missione”.
L’anno dopo, nel 1932, disse che sarebbe stato disposto a emettere subito i voti perpetui, tanto era contento della scelta che aveva fatto: “Ringrazio mille volte il Signore di questa bella vocazione missionaria quantunque talvolta porti con sé sacrifici e non piccoli. La salute tiene bene, salvo qualche attacco di malaria”.
Nel 1936, in occasione dei voti perpetui, scrisse: “In questi sei anni di prova, dei quali più di cinque passati in missione, credo di non aver avuto illusioni circa lo stato di vita che ho abbracciato. La vocazione mi è sempre apparsa luminosa, ricca di consolazioni ma anche, e molto più, di sacrifici e rinunzie”. Segue poi una confessione della sua debolezza: “Purtroppo quanto alla pratica della vita religiosa devo piangere tante defezioni delle quali chiedo perdono al Signore e a lei. Spero me lo vorrà dare, questo perdono, a nome dell’Istituto, in modo speciale di quella parte che è stata maggiormente male edificata dalla mia condotta”.
Forse esagerava un po’ dato che i superiori erano concordi nel riconoscerne le virtù, cominciando da P. Angelo Arpe, P. Edoardo Mason e P. Ercole De Marchi.
Il raggio d’azione di Fr. Angelo nei primi 29 anni di missione sudanese furono le missioni di Wau e Kajango con puntate anche nelle altre (che allora non erano molte) per fare qualsiasi lavoro di cui ci fosse bisogno. Lo afferma anche P. Gaetano Briani: “È molto intraprendente, capace di cavarsela in tutto tanto che è a disposizione del Vicariato Apostolico. Conosce le lingue denka, arabo e inglese. Eccelle nelle costruzioni. Riesce bene grazie a una acuta intelligenza, a un notevole senso pratico e a tanto entusiasmo”.
In Uganda imparò altre lingue e si adattò a nuovi usi e costumi con uguale disinvoltura e allegrezza. Dotato di una salute di ferro, passava gran parte della notte a studiare. Imparò lo swahili alla perfezione, tanto da essere in grado di insegnarlo, oltre ad altre lingue locali. Bisogna dire che per le lingue aveva un dono particolare.
Scrivi solo tre cose
Che cosa dire della spiritualità di Fr. Angelo? Un giorno chiamò nella sua stanza P. Lorenzo Gaiga, che normalmente scrive i necrologi dei confratelli e che era di passaggio da Verona e gli disse: “Senti, ormai suonerà la campana anche per me e tu chissà cosa tirerai fuori a mio riguardo. Io ti prego, ma sinceramente, come fossi sul letto di morte, di dire solo tre cose. La prima: in questi 70 anni di missione ci ho messo sempre tanta buona volontà; la seconda: ho sempre amato e stimato sopra ogni cosa la mia vocazione missionaria e non l’ho mai barattata con niente; terza: il Signore mi ha ampiamente ripagato con tanta gioia. Tutto qui, non una parola di più. Me lo prometti?”. “Non te lo prometto, Fr. Angelo, ma queste tre cose le dirò di sicuro”.
Fr. Angelo si è cimentato anche con la penna. Ha scritto parecchio trattandosi di un fratello che non aveva tanto tempo per questo genere di lavoro. Le sue considerazioni sugli usi e i costumi della gente, sui rapporti tra locali e “colonialisti”, se riflettono la mentalità di un vecchio missionario, non sono privi di spunti illuminanti e di tanto buon senso. Prendendo in considerazione il colonialismo inglese in Sudan e in Uganda, Fr. Angelo seppe vederne anche gli elementi positivi, oltre a quelli negativi: “Gli inglesi, quando detenevano il potere, avranno commesso delle ingiustizie, degli abusi, ma amministravano bene la giustizia, facevano funzionare la scuola, la sanità, l’agricoltura, e quando scoppiava qualche carestia, facevano arrivare il cibo. Soprattutto mantenevano la pace che è sempre stata compromessa dal fenomeno del tribalismo e dal dispotismo dei capi”. Era convinto che la storia avrebbe fatto giustizia anche su questo argomento. Ciò, in opposizione a un certa critica contro il colonialismo, visto come unica fonte dei guai per l’Africa, senza distinzione di luoghi o di persone.
Fr. Angelo ha rappresentato un bel pezzo di storia dell’Istituto. È stata una fortuna che P. Giovanni Vantini abbia avuto il tempo e l’opportunità di intervistarlo lungamente.
Florilegio missionario
Fr. Angelo Zanetti ci ha lasciato un florilegio di episodi missionari che si leggono con gusto e con il costante sorriso sulle labbra.
“L’essere fondatori di una nuova missione in luoghi selvaggi e sconosciuti – ha scritto Fr. Angelo – era il sogno dei giovani missionari di allora. Quando mi dissero che ero io il prescelto, balzai dalla gioia. Finalmente – dissi – c’è pane per i miei denti… Vi arrivai sul mezzogiorno con quattro operai e il camion carico di utensili e materiale. Adocchiata una bella pianta di tamarindo, vi disponemmo vicino i nostri bagagli a semicerchio, dentro il quale ci sistemammo per la prima notte.
Quando venne il momento del commiato con i due padri che ci avevano accompagnati, vidi sul loro volto un velo di mestizia. Il più giovane, P. Angelo Matordes, avrebbe voluto restare, ma il suo lavoro lo chiamava altrove. Allora mi affrettai a dire che mi sentivo l’uomo più felice del mondo. Partirono rasserenati.
Quando il camion scomparve, mi accorsi per un istante di essere solo. Sì, solo, non però nella solitudine. Si era già formato attorno a noi un folto gruppo di abitanti dei vicini villaggi, curiosi di vedere che cosa stesse succedendo. La mia conoscenza della lingua denka e la loquacità di Andrea ci furono subito di aiuto per facilitare i primi contatti e allacciare le prime amicizie. Così seppi che il posto si chiamava Warap…”.
Poi passa a parlare del “Pozzo delle scimmie”, dei “Trenta giganti”, del “Cobra devoto” ma anche “Tra le fauci del leone” e “In pasto ai coccodrilli” o “Nella morsa della palude” e via via, un episodio dopo l’altro fino a riempire pagine e pagine… per farci capire di quanto entusiasmo fosse animato Fr. Angelo. Mons. Edoardo Mason aveva di lui una stima immensa e, quando si trattava di affrontare una nuova fondazione, insieme a qualche sacerdote mandava Fr. Angelo, sicuro che le cose le avrebbe fatte a dovere.
Amore alla Chiesa
Dalle sue lettere ai superiori risulta un particolare interesse per il consolidamento della Chiesa nelle regioni da poco evangelizzate o la sua espansione tra popolazioni ancora completamente digiune di Vangelo. In una lettera del 1966 scrisse: “Ho sentito che non fu accettata la proposta della missione tra i Turkana. Non è da me indagarne le ragioni; mi limito a far notare quanto segue: con questa mancata accettazione io penso che sia stato precluso o ritardato l’accesso al Cristianesimo ad un popolo ben disposto ad accoglierlo. I Turkana sono circa 200.000 anime finora abbandonate quasi completamente e ciò proprio in questa era di espansione della Chiesa del Concilio. Forse mi sbaglierò ma, per quanto conosca l’Africa, nessun popolo è così privo dell’opera della Chiesa come i Turkana.
L’Istituto che ne ha ora la cura, ha colà due sacerdoti, uno dei quali è completamente ignaro della lingua e l’altro ne ha una conoscenza minima, e questo in perpetuo perché la loro presenza è solo di occupazione del posto. Sembrò a tutti un intervento della Provvidenza quando il vescovo di Eldoret espresse l’idea di cedere il Turkana ai Comboniani… Abbiamo abbandonato in Sudan fiorenti missioni e tanti cristiani. Perché ora perdere questa occasione di farne degli altri?
Convengo che il Turkana è uno dei paesi più impervi e inospitali dell’Africa. Non tanto per il clima che, pur essendo molto caldo, è asciutto e perciò anche sano, quanto per la natura del suolo desertico, sassoso, arido e la popolazione primitiva e seminomade. Non penso che questi lati negativi siano atti a far indietreggiare un Istituto il cui Fondatore ha scelto come campo di lavoro non solo l’Africa, ma quella parte di essa dal clima più micidiale. Con ciò non intendo fomentare in me e negli altri quel segreto sottile orgoglio che ci fa preferire ad altri istituti come detentori del monopolio dello zelo e dei migliori sistemi di apostolato. No. Eppure dico che anche i turkana hanno bisogno di ricevere il Vangelo”. Le parole di Fr. Angelo sono state profetiche: sappiamo che i Comboniani sono andati in Kenya all’inizio degli anni settanta.
In un’altra lettera del 1975 scrisse: “Sento chiacchiere in questi giorni circa la possibilità di qualche permesso di entrata in Sudan. Sento pure nello stesso tempo frasi come questa: ‘I Fratelli non se la sentono di andare se non vanno anche i Padri’. Desidero precisare che questo non rispecchia il pensiero di tutti i Fratelli. Il sottoscritto ha lavorato a lungo nelle missioni del Sudan a fianco dei sacerdoti locali e ha vissuto nella loro comunità in perfetto accordo. Il principio, poi, (quasi di ripicca): ‘Giacché non possono andare i Padri non vadano neanche i Fratelli’, non mi pare corrisponda al nostro mandato. I Fratelli che vanno anche solo per i lavori di impianto, vanno come missionari, vanno a lavorare per la Chiesa africana, e questo è lo scopo della nostra vita.
Se accettiamo che uno degli scopi della vocazione del Fratello è quello di aiutare lo sviluppo della Chiesa e delle missioni con il lavoro materiale, penso non sia lecito ritirarsi da un’impresa tanto necessaria in un paese così devastato.
Quanto a me, ritorno volentieri in Karamoja, ma se un domani si cercassero dei nomi per il Bahr el Ghazal, sono sempre pronto”. Insomma, pur essendo un Fratello, Angelo aveva a cuore il cammino della Chiesa per la quale lavorava.
Amore alla vocazione
Fr. Angelo amava parlare in pubblico, sempre di argomenti inerenti alla missione e alla vocazione missionaria. Lo faceva con estrema proprietà di linguaggio e con una convinzione tale per cui strappava scrosci di applausi. Ci resta anche un suo intervento fatto nel duomo di Verona in occasione della partenza dei missionari.
Ognuno, dopo averlo ascoltato, si convinceva che “quel Fratello” alla sua vocazione credeva davvero, e che veramente per lui era stata la fonte genuina della felicità. Eppure non era un illuso che nascondesse o tacesse i sacrifici che la vocazione richiedeva.
Non possiamo terminare questi brevi accenni su Fr. Angelo senza parlare del suo spirito comunitario, della sua cordialità e carità. Da buon veronese aveva arguzia da vendere, ma tutta roba genuina, intelligente, che non scadeva mai, per cui la sua presenza in comunità era considerata una benedizione. A queste doti umane univa un profondo spirito di fede che si trasformava in preghiera, in comprensione, direi in tenerezza verso gli altri.
Davvero Fr. Angelo è stato un vero Fratello missionario proprio come Comboni voleva i laici che portava con sé nel cuore dell’Africa. L’ombra della frustrazione non ha mai oscurato la sua vita, la sua gioia di vivere, il suo entusiasmo missionario. Insomma, è stato un Comboniano realizzato al cento per cento, contento, anzi entusiasta, del suo essere Comboniano e Fratello comboniano.
È deceduto in Casa Madre dopo poche settimane di malattia (broncopolmonite in un uomo di 92 anni) e ora riposa nel cimitero di Verona nel reparto riservato ai Comboniani.
Che dal cielo, dove oggi gode il premio riservato ai servi buoni e fedeli, preghi per noi, per l’Istituto, per la Chiesa del Sudan e dell’Uganda che tanto ha amato. (P. Lorenzo Gaiga, mccj)
Bro. Angelo Zanetti was born in the neighbourhood of San Giovanni in Valle, Verona, where the Comboni Mother House is located. His father, John Baptist, was a bricklayer and helped build the “castle” of Don Calabria, visible from the yard of the Comboni house. His mother, Maria Melchiori, was a housewife. After attending the Bartolomeo Rubele primary school, Angelo, unlike his five brothers, asked to attend the diocesan seminary as a day student. The parish priest of San Giovanni in Valle, Fr. Bonometti, detecting the signs of a religious vocation, paid his tuition, because the family was very poor. Angelo studied there until he turned 14.
During his school holidays he used to help out at the Nigrizia printing press that was located at the Mother House. At the beginning his job consisted in folding, labelling and shipping “Il Piccolo Missionario”. He liked the job, but even more he liked to mingle with the missionaries. So when he finished his secondary school, instead of continuing his studies, he was hired. He worked there for three years, up to the age of 17.
In answer to an interview, Angelo wrote: “The contact with the missionaries, their kindness and their joy for having given their lives to Jesus Christ in the missions had a great influence in my vocational choice. If they are so happy, young and old alike, it means that theirs is a beautiful life.” He discussed it with Fr. Federico Vianello, who told him that he would gladly accept him. His father asked him to talk to Don Calabria as well, who was a good friend of his. Don Calabria answered that, if Fr. Vianello had agreed, he could only go along with his judgement.
Thus it was that Angelo entered the novitiate of Venegono Superiore with the intention of becoming a brother. He took his first vows on 11 February 1930. On 23 June 1930 he took off from Brindisi on his way to Egypt and later to Sudan. He was 19. Bro. Emilio Calderola and Fr. Antonio Figini travelled with him. After a six week journey by ship, train and boat, he reached Wau, his first mission. In Wau he started a printing press: “We were printing a local newspaper much appreciated by the few people who knew how to read… Education was very important, because it opened the way to evangelisation.”
The missionary life of Bro. Angelo may be divided into two periods: South Sudan from 1930 to 1959; Uganda from 1961 to 5 August 2000, the year of his final return from the missions. What can we say about Bro. Angelo? One day he called Fr. Lorenzo Gaiga into his room and said: “Listen, the bell will soon toll for me, too, and who knows what you will write about me. I ask you in all sincerity, just as if I were on my deathbed, to say only three things. First, during these 70 years of mission life I always put all of my good will in everything I did; second, I have always loved and honoured my missionary vocation and I have never compromised it for anything else; third, the Lord has rewarded me with great joy. That’s it, and no more. Do you promise?” “I won’t promise anything, Bro. Angelo, but I will certainly mention these three points.”
Early in his missionary life Bro. Angelo, blessed with unfailing good health, used to spend most of the night studying languages. Then during the day he would work with the energy of someone who had slept like a log all night He learned to speak Swahili and English well enough to teach them, and several local languages. He had a gift for languages.. He did a little bit of everything: dug wells, built homes, schools, churches and clinics, cut lumber in the forest to make girders and roofs, started mechanics workshops, baked bricks, took care of vegetable gardens to provide healthy and plentiful food for his confreres, at any one time he was a dentist, nurse, plumber, mechanic, carpenter and farmer. He was also a great hunter “not for fun – he used to say – but out of necessity, because at times we were going hungry.” He was successful in everything he did because of his sharp mind, a lot of common sense and much enthusiasm.
Bro. Angelo loved the people and they loved him in return, often with moving tributes. “My most joyous moments were when, during a famine, I could give away the products of the farm: milk, oil, corn. But there was an even greater joy when I could entrust a team of oxen, a plough and farm tools to the young men who graduated from our farm school, so that they could start on their own. On such occasions one could see in practice the type of human promotion implemented by the missionaries in Africa.”
We cannot conclude this short sketch of Bro. Angelo’s life without saying something about his community spirit, his kindness and charity that made his belonging to a community a real blessing. To these human qualities he added a deep faith that translated into prayer, understanding, almost tenderness towards others. Truly Bro. Angelo was a real missionary Brother, the way Comboni wanted the lay people he brought along in the heart of Africa to be.
He died at the Mother House after an illness that lasted a few short weeks (bronchial pneumonia at the age of 92). He now rests in the cemetery of Verona in the section reserved to the Comboni Missionaries. From heaven, where now he enjoys the reward reserved for the good and faithful servants, may he pray for us, for the Institute, for the Church in Sudan and Uganda, places that he loved so much.
Da Mccj Bulletin n. 216 suppl. In Memoriam, ottobre 2002, pp.83-94