In Pace Christi

Giudici Antonio

Giudici Antonio
Data di nascita : 16/03/1940
Luogo di nascita : Sarnico/BG/I
Voti temporanei : 09/09/1970
Voti perpetui : 19/03/1973
Data ordinazione : 30/06/1073
Data decesso : 17/03/2002
Luogo decesso : Predore/BG/I

Prima di morire, P. Antonio Giudici desiderava celebrare una santa Messa con i confratelli della sua comunità di Brescia, lui che in comunità era vissuto così poco a causa dei continui impegni in favore dei bambini ammalati di cuore. Infatti, col sopraggiungere della malattia, andò ad abitare nella casa della sorella Maddalena a Predore.

I Comboniani di Brescia decisero di andare da lui proprio sabato 16 marzo 2002, giorno in cui P. Antonio compiva il sessantaduesimo anno di età. Celebrò stando disteso sul suo letto diventato calvario e croce.

“Voglio che sia una Messa di ringraziamento per la mia vita e la mia vocazione missionaria, per gli anni spesi in Africa. Desidero che sia come un’offerta a Dio per la mia vita che ho cercato di spendere solo per lui e per i poveri, specie per i bambini sofferenti… Ho desiderato tanto questo momento… Ormai sto partendo; sia fatta la tua volontà, Padre; non come voglio io ma come vuoi tu”. Poi il pensiero tornava all’Africa:

“L’Africa… Io l’ho amata l’Africa. L’Africa è uno splendido continente pieno di risorse e di buona volontà. L’Africa è come una grande barca che ha lasciato la sponda e che non si fermerà… Nessuno deve soffocarne gli aneliti di speranza, i modi di esistere e le tradizioni… Ho sempre cercato di essere parte della storia dell’Africa perché l’Africa ha molto da donare anche all’Europa, sia sul piano delle risorse, sia su quello degli aspetti culturali”.

Dopo la messa ci fu il rinfresco, quasi ‘ultima cena’ con i suoi amici. Il vescovo Bruno Foresti, ritiratosi per limiti di età dalla diocesi di Brescia, la cui casa è attigua a quella di P. Antonio, era presente alla celebrazione. Alla fine della Messa, poiché il malato non poteva alzarsi, il vescovo disse ai presenti: “Lasciatelo in pace. Chissà quali cose ha da dire al Signore in questo momento!”. Si vedeva, infatti, che la sua lampada aveva consumato tutto l’olio e stava per spegnersi.

I missionari tornarono a casa con il cuore gonfio di commozione. Nessuno pensava che quello sarebbe stato l’ultimo saluto. Il giorno dopo, infatti, domenica sera 17 marzo, P. Antonio è entrato nella pace del Signore che ha amato, annunciato e servito nello spirito del suo padre e fondatore, il Beato Daniele Comboni.

Dalla fabbrica all’altare

Antonio Giudici, primo di cinque fratelli, è nato a Sarnico, sulla costa bergamasca del lago d’Iseo il 16 marzo 1940. Papà Mario lavorava nella fabbrica dove veniva impastato l’amianto per ricavarne guarnizioni per motori, tute antincendio e altri oggetti ignifughi. A quel tempo non si sapeva che l’amianto fosse altamente cancerogeno, anche se tanti operai finivano colpiti da quel male. Tra essi ci fu anche il papà di Antonio, deceduto nel 1972, mentre il figlio si trovava a Londra per gli studi teologici. Il male partì proprio dai reni, come succederà anni dopo per P. Antonio stesso. La mamma, Anna Vavassori, era casalinga e tutta impegnata nell’educazione umana e cristiana dei suoi cinque figli.

Dopo le elementari e le medie, Antonio si iscrisse alla “Scuola serale di Disegno, Arti e Mestieri” del suo paese uscendone, dopo tre anni, con il diploma di disegnatore meccanico. Contemporaneamente divenne garzone barbiere presso una bottega del suo paese. Pur avendo in mano un mestiere più sano, finì col papà nella Manifattura Colombo di Sarnico dove lavorò dal 1956 al 1961 come disegnatore e confezionatore di guarnizioni per macchine.

Ad un certo punto cominciò a porsi le domande “esistenziali” che ogni giovane si pone:

“Vale la pena dedicare la vita a disegnare guarnizioni o c’è qualcosa di più e di meglio?”. Il tarlo del dubbio cominciò a trapanargli la coscienza. Portò il suo segreto nel cuore per alcuni mesi, finché un giorno, in un corso per catechisti durante le ferie, si rivolse a Don Felice, il sacerdote che lo seguiva spiritualmente – Antonio era sempre stato un frequentatore dell’oratorio e della chiesa – e gli manifestò il suo cruccio.

Dopo un lungo esame, il nostro giovane finì nel seminario per vocazioni adulte di Crema. La lotta, specialmente con la mamma che se la prese perfino col curato “che certamente ha messo in testa al mio Antonio queste idee balzane”, fu lunga e difficile. Alla fine, essendo una donna profondamente cristiana, seppe dire il suo sì al Signore e diede la benedizione al figlio che partiva.

Sacerdote a 33 anni

A conclusione degli studi secondari, il suo superiore, P. Giovanni Riva, pensò di mandarlo a Londra per il noviziato e per gli studi teologici. Vi giunse il 10 agosto 1968; il 6 ottobre fece la vestizione religiosa dando inizio al noviziato. Suo padre maestro fu P. Aleardo De Berti.

Il noviziato si concluse il 9 settembre 1970 con la professione dei tre voti di povertà, castità e obbedienza. Quindi passò a Elstree, sempre in Inghilterra, per la teologia che frequentò al collegio universitario MIL (Missionary Institute of London). Quel periodo gli servì anche per apprendere la lingua inglese.

Dopo 13 anni di formazione, venne ordinato sacerdote. Era il 30 giugno 1973. La funzione, presieduta dal vescovo Mons. Clemente Gaddi, ebbe luogo nella cattedrale di Bergamo.

P. Antonio volle celebrare una delle sue prime Messe nello stabilimento della Manifattura Colombo, circondato dai suoi vecchi compagni di lavoro. Per la circostanza, un amico pittore gli regalò un quadro in cui aveva dipinto P. Antonio, “buon pastore”, con una pecorella sulle spalle. Uomo di Dio e sacerdote per i fratelli saranno le direttrici della sua vita missionaria.

Evangelizzazione e promozione umana

Partì per il Kenya il 7 settembre 1973. “Anch’io come il fondatore Daniele Comboni lasciai le sponde di un lago per avventurarmi nel continente nero, nelle aride terre del Kenya”, scrisse.

Nel 1971 il territorio del Karapokot, amministrato dall’Uganda, passò al Kenya. Il vescovo chiese ai Missionari Comboniani, che vi lavoravano, di continuare il loro ministero.

Nel 1973 i Comboniani assunsero impegni con le diocesi di Marsabit, Machakos, Nairobi, Nyeri, Nakuru ed Eldoret, tutte in Kenya; avevano optato per il Kenya anche perché, in caso di espulsione dalla vicina Uganda, ci fosse una terra che li accogliesse. In Uganda, infatti, dal 1971 era arrivato al potere il dittatore Idi Amin. La sua presenza non prometteva niente di buono.

Le missioni comboniane del Kenya nel 1974 erano già nove, compresa quella di Moshi in Tanzania, con più di trenta missionari.

I missionari furono accolti bene dalla popolazione. La politica del governo si ispirava al motto “Harambee” (diamoci la mano), quindi il programma, almeno sulla carta, si ispirava alla collaborazione che escludeva il razzismo e la xenofobia, anche se in parlamento era presente un unico partito.

“Ormai sono in Africa da tre mesi – scrisse P. Antonio. - Non posso ancora dire di essermi incarnato nella mentalità e nel mondo che mi circonda, soprattutto per la sua estrema povertà… Vi sembrerà strano, ma la prima impressione che ho avuto sulle necessità di questa gente è che, più di un aiuto materiale, hanno bisogno di conoscere Dio. Ciò mi impegna, come missionario, ad esportare valori veri, cominciando dall’amore di Dio, dalla fede, dalla solidarietà con gli altri, insomma dal Vangelo. Poi, in un secondo tempo, arriverà anche il resto perché è giusto e sacrosanto che con l’evangelizzazione vada avanti anche la promozione umana”.

Nella missione di Moyale

Lasciata la capitale Nairobi, dopo due giorni di marcia a bordo di un pulmino sgangherato e stipato di viveri, arrivò a Sololo, primo avamposto da poco occupato. La missione era retta da un sacerdote e da una dottoressa che dirigeva il nuovo ospedale appena costruito.

Ma la meta per P. Antonio non era quella. La mattina dopo, prestissimo, questa volta a bordo di una Land Rover, puntò verso nord fino a raggiungere Moyale.

Era l’ultima missione da poco affidata ai Comboniani, ancora gestita da un missionario della Consolata e da un sacerdote fidei donum. C’erano anche delle Suore Comboniane che accolsero il nuovo arrivato in un clima di festa sincera e cordiale.

P. Antonio si buttò nel lavoro con entusiasmo diventando costruttore, dottore “improvvisato”, perforatore di pozzi e cercatore d’acqua. “Furono queste le prime arti in cui mi cimentai per portare, insieme al Vangelo e la testimonianza cristiana, un miglioramento anche nella vita di quelle popolazioni sempre stremate da carestie e incapaci di rompere il circolo vizioso e frustrante di una vita dura e difficile come quella vissuta nel deserto”, scrisse.

Moyale era una bella missione, dotata dei conforti essenziali. C’erano la chiesa, le aule scolastiche, la casa dei Padri e delle Suore, l’asilo per i bambini, il refettorio e un dormitorio; tutto materiale prefabbricato, così che conservava il caldo del giorno non oltre i 35 gradi e il fresco della notte non sotto i 25.

La missione copriva una superficie di 1.500 Kmq, come una diocesi italiana, con una popolazione di 10.000 abitanti, di etnia borana con infiltrazioni etiopiche. I cattolici erano, si e no, un centinaio, gli altri erano musulmani (8.000) o di religione tradizionale.

Distava da Nairobi 800 chilometri e si trovava ad un’altitudine di circa 1.300 m. C’era anche un piccolo campo d’aviazione che serviva ai turisti che andavano a caccia da quelle parti o ai medici volanti che accorrevano in caso di emergenza. Il terreno era collinoso e arido, il clima secco e salubre, per chi aveva da mangiare. Quando vi giunse P. Antonio, non pioveva da quattro anni.

Una vocazione nella vocazione

A Moyale c’era un catechista di nome Michele che aveva una famiglia da poco formata. Appena battezzato, aveva sposato Birke, una giovane appartenente a una famiglia contadina dell’Etiopia.

Durante una visita alla famiglia del catechista, P. Antonio si accorse che la bambina, Anna, era ammalata.

“Un giorno – scrive P. Antonio – decisi di portarla dalla dottoressa Teresetta Dessi di Cagliari che lavorava nell’ospedale della vicina missione di Sololo. Così venni a sapere che si trattava di una malformazione al cuore che, però, poteva essere corretta, ma non nel deserto di Moyale o di Sololo e neppure negli ospedali di Nairobi. Bisognava andare in Europa.

Durante una notte insonne e tormentata da incubi, decisi di alzarmi e di prendere in mano la rivista Famiglia Cristiana che era arrivata con la posta di quei giorni. E trovai la soluzione del problema. In un articolo si descrivevano le malattie cardiache infantili e la possibilità di correggerle con operazioni cosiddette ‘a cuore aperto’ presso gli Ospedali Riuniti di Bergamo.

Inviai la lettera a Nairobi tramite un flyng-doctor, un dottore volante, dell’associazione Amref, che periodicamente visitava le missioni del Nord del Kenya, con preghiera di spedirla al più presto in Italia, a Bergamo, dove il professor Lucio Parenzan eseguiva quel genere di operazioni, allora all’avanguardia. La risposta arrivò nel giro di poche settimane e così ebbe inizio il mio peregrinare che mi portò a viaggiare tra il Kenya e l’Italia allo scopo di offrire a tanti piccoli, circa duecento, la gioia di vivere una vita normale, serena e felice”.

Non senza difficoltà

A questo punto P. Antonio scrive alcune frasi enigmatiche… “Non mi dilungo a raccontare le incongruenze, le delusioni e le frustrazioni dei primi due anni della mia vita…”. La salute esuberante e il desiderio di mettere le sue energie al servizio della Chiesa e degli altri, portò P. Antonio a scontrarsi con altri confratelli. I missionari, infatti, e anche qualche suora, cominciarono a brontolare per il suo modo di fare. Pareva che l’Africa, pur così vasta, andasse un po’ stretta a P. Antonio. Gli altri facevano progetti di evangelizzazione, ma bastava che capitasse un caso di qualche bambino ammalato di cuore, perché lui mandasse all’aria tutti i programmi prestabiliti e si buttasse a corpo morto sulla linea di quella che per lui era autentica carità che doveva avere la precedenza su ogni altra cosa.

“Il Consiglio Generale disapprova in pieno il tuo modo di fare - gli scrisse il superiore provinciale. - Se continuerai su questa linea, è meglio che tu lasci la missione in modo che al tuo posto arrivi uno che lavori con noi…”. P. Antonio diceva di sì, riconosceva che avevano ragione, ma di fronte a un bambino malato, dimenticava tutto e partiva.

Scrive P. Pieto Ravasio a questo proposito: “Alle comunità religiose missionarie può capitare di fraintendere le cose. Se un membro ha dei doni particolari, come è stato il caso di P. Antonio, ha anche dei doveri verso Dio, e la comunità ne viene arricchita.

Gli altri, dotati di doni normali, conducono la loro vita regolare e, tutto sommato, serena. Nello stesso tempo, però, dovrebbero essere contenti che qualcuno di loro abbia qualcosa di più e sia in grado di compiere gesti profetici. Bisogna essere miopi per non capire questo.

Inoltre i superiori, se è vero che devono esigere una certa misura, hanno l’obbligo anche di riflettere sul significato della Parola di Dio che parla di doni e di carismi”.

Un giorno un confratello disse a P. Antonio che con i soldi spesi per curare uno di quei bambini si sarebbero potute salvare centinaia di persone. P. Antonio rispose: “Probabilmente hai ragione, ma vedo che i missionari spendono dei soldi per costruire delle strutture che, data la situazione, sono cattedrali nel deserto, non confacenti allo spirito, alla mentalità e alla vita della gente. Insomma, mi pare che quelle opere proclamino di più la potenza e l’efficienza dell’uomo bianco, che l’esigenza di andare incontro alle vere necessità dei poveri tra i quali viviamo. E poi, quando vedi un bambino che muore e che potrebbe essere salvato… mi dici cosa faresti?”. Gli rispose il Superiore Generale:

“Tu sai che dobbiamo dare la priorità all’annuncio e al ministero strettamente sacerdotale. ‘Nos autem orationis et praedicatione verbi instantes erimus’. Sai anche che nel campo dello sviluppo è più importante far fare, che non fare direttamente, anche se è un processo più lento e, almeno all’inizio, meno produttivo…”.

P. Antonio chinò il capo e, per non amareggiare i confratelli di Moyale, passò alla missione di Katilu, più a Sud e verso l’Uganda, che venne fondata proprio in quel 1975. Qui lavorò bene, ma senza mai dimenticare i bambini malati di cuore.

Animatore in Italia

Dopo 5 anni di missione, era arrivato il tempo di rientrare in Italia per un buon periodo di vacanza, o per un lavoro diverso da quello fatto fino a quel momento. A metà del 1978, P. Antonio si trovò in Italia, precisamente a Verona, con l’incarico di propagandare le riviste Nigrizia e Piccolo Missionario. La stampa è sempre stata considerata un mezzo di fondamentale importanza per informare e formare sui problemi inerenti all’Africa e al Terzo Mondo.

Nel suo eterno peregrinare da un capo all’altro dell’Italia, P. Antonio diffondeva la stampa missionaria, ma più ancora l’amore per l’Africa e per gli africani tra i quali sperava di trovarsi presto per continuare la sua opera di buon samaritano.

Tra i suoi itinerari di animazione c’erano le colonie marine. Nel periodo estivo batteva la costa adriatica da Venezia a Pescara proponendo ai ragazzi il Piccolo Missionario. Il sistema, già collaudato dai suoi predecessori, portava ottimi frutti. E la tiratura del simpatico giornalino missionario per ragazzi aumentava.

Nel periodo invernale era la volta dei collegi e delle scuole, specialmente quelle tenute da religiosi o da suore, dove, oltre al Piccolo Missionario, venivano diffusi anche Nigrizia e il libro missionario.

Nuovamente in Kenya

Dopo tre anni di permanenza in patria, durante i quali aveva potuto estendere oltre misura le sue amicizie e ingrandire la cerchia dei suoi amici, ottenne di poter ripartire. Lo destinarono alla missione di Gaichanjiru, sempre in Kenya. Vi rimase dal 1982 al 1988 con l’incarico ufficiale di economo.

Un momento importante per Gaichanjiru è stata l’inaugurazione dei nuovi reparti del locale ospedale che era nato nel 1925 come dispensario ad opera dei missionari della Consolata. Aveva 20 posti letto nel 1954, 70 nel 1971 e centotrentacinque nel 1993.

Per la cerimonia erano presenti l’ambasciatore d’Italia Roberto Di Leo che, insieme alla moglie, aveva dato la sua disponibilità a partecipare anche per sottolineare la collaborazione in campo sanitario tra Italia e Kenya. C’erano il nunzio apostolico Mons. Clemente Faccani, il vescovo di Muranga Mons. Peter Kairo, amici e benefattori di P. Antonio, ministri e parlamentari kenyani, il sindaco di Sarnico con una delegazione.

P. Antonio aveva in mente un piano sanitario di prim’ordine per risolvere una volta per sempre il problema dei bambini malati. Portarli in Italia era costoso e scomodo (dovevano essere accompagnati dai genitori); era più facile mandare in Africa i dottori per curarli o, ancora meglio, creare in Africa le strutture e il personale per queste delicate operazioni. Ne parlò con eminenti luminari della scienza e trovò ascolto. I superiori, quasi impauriti dal progetto, cercarono di toglierlo dal Kenya inviandogli l’obbedienza, prima per l’Etiopia e poi per il Sudan meridionale, ma né l’uno né l’altro dei due paesi gli concessero il permesso d’entrata. Cosicché P. Antonio rimase in Kenya.

Salvare l’Africa con l’Africa

“Nella mia vita ho avuto discussioni con persone, anche importanti, che non condividevano il mio operato, ma io non mi sono perso d’animo e ho cercato di essere coerente con la Parola di Dio che dice: ‘Se uno non ha la carità è un cembalo squillante che fa solo rumore’. Il mio essere missionario e la mia attività è sempre stata svolta in funzione dell’uomo e non delle strutture. Credo che il Signore sia contento di questo perché è proprio l’uomo vivente che gli dà gloria…

Così, se la vita comunitaria consiste nello starsene al caldo e al sicuro nel proprio nido, per me non vale; è meglio proiettarsi fuori, lungo le strade del mondo, come Gesù che andava tra la gente e la aiutava”. Quest’ultima battuta era una risposta a coloro che lo accusavano di non essere mai in comunità, di essere sempre fuori, di vivere una vita indipendente, autogestita.

Quel suo continuo avanti e indietro dall’Italia con i bambini o con i medici che facevano sempre più frequenti visite all’Africa, quel suo procurarsi soldi dagli amici e dai benefattori per i viaggi e per gli interventi, dava sul naso a più di uno.

Il Superiore Generale conosceva i progetti nei quali era coinvolto P. Antonio perché il 30 luglio 1987 aveva ricevuto una lettera dal professor Lucio Parenzan (colui che operava i bambini a Bergamo) che diceva: “Reverendo Padre, mi permetto di rivolgermi a lei per chiedere l’aiuto di P. Antonio Giudici nell’attuazione del progetto ‘Studio epidemiologico e formazione di personale per lo sviluppo di unità locali di prevenzione di malattie dell’apparato cardiovascolare in paesi dell’Africa centrale’ di cui le è già stata recapitata la prima bozza.

Il 27 luglio u.s. sono stato con il professor Antonino Zichichi, presidente del Centro Internazionale di Cultura Scientifica a Ginevra, per la programmazione del progetto stesso. Il professor Zichichi è favorevole e quindi invieremo, il 28 settembre p. v. a Nairobi, due professori per prendere i primi contatti con il governo.

Ritengo indispensabile l’aiuto di P. Antonio Giudici data la sua conoscenza del paese interessato… Conosco personalmente P. Antonio da molti anni e ho molta stima di lui e non vedo altra persona più indicata di lui per collaborare con noi.

Recentemente sono stati ricoverati da noi 10 bambini che sono stati sottoposti a correzione della cardiopatia congenita con ottimi risultati. Questo senz’altro è stato possibile grazie al suo aiuto e il risultato sarà a beneficio del vostro Istituto… Prof. Lucio Parenzan”.

Dal Kenya, tuttavia, arrivavano a Roma lettere di fuoco contro P. Antonio, giudicato “un affarista”, “un mercenario”, “un hombre de negocios non tan claros” (un uomo di affari non tanto chiari). Il Superiore Generale (P. Pierli) che stimava P. Antonio e sapeva quanto bene aveva fatto (“conosco molto bene il tuo impegno per gli africani, la tua dedizione, e non ho dubbi sul tuo zelo”), voleva rendersi conto di persona di cosa stesse succedendo, e gli scrisse: “Non capisco quali ‘negozi’ stai facendo. Ti chiedo, perciò, di lasciare definitivamente il Kenya entro il 20 agosto 1987 e di passare per Roma per un fraterno dialogo con me”.

Quando giunse la lettera in Kenya, P. Antonio era già in Italia, pronto a chiarire la sua situazione.

Né contrabbandiere, né trafficante

In una lunga lettera che porta la data 14 settembre 1987, P. Antonio giustifica il suo operato:

“Non nascondo il fatto di essere contestato da qualche confratello del Kenya e di aver subito critiche forti per non dire calunnie. Tuttavia posso assicurare che non ho mai fatto il trafficante e il contrabbandiere. Non avrò offerto l’immagine del missionario predicatore o catechista, ma ho sempre agito per fare del bene. Non mi giudichi superbo se le confesso che spesso sono stato la mano della Provvidenza per molti.

Quando mi ha prospettato l’Etiopia e poi il Sudan meridionale mi sono dichiarato pronto all’obbedienza. Solo che non sono mai arrivati i permessi da parte dei governi. E allora mi sono dato da fare per salvare vite umane, specie di bambini che, altrimenti, sarebbero morti. Non toccava a me in quanto prete? Un laico avrebbe fatto meglio? Può darsi, ma non c’era. Io ho aiutato le persone e non ne provo rimorso, anzi mi sento sulla linea del Fondatore che ha liberato tante persone dalla schiavitù; io le ho liberate dalla malattia e dalla morte precoce che sono forme di schiavitù ancor più crudeli.

Portando avanti il progetto dei professori Zichichi e Parenzan, che tende a formare medici africani e strutture africane per certe cure delicate, mi pare di realizzare il Piano del Comboni ‘salvare l’Africa con l’Africa’. La stima che hanno i medici a mio riguardo, mi conferma la verità di quanto affermo.

Qualcuno ha insinuato che sarebbe meglio che uscissi dall’Istituto. Non voglio a tutti i costi uscire dal mio Istituto in cui vivo da ormai 25 anni, di cui sono orgoglioso e che credo di servire anche glorificandolo e facendolo conoscere”. Sembra Comboni quando veniva espulso dal Mazza.

Il progetto epidemiologico

In data 14 ottobre 1992 giunse al Superiore Generale una lettera del professor Antonino Zichichi, scritta da Ginevra, nella quale si auspicava la creazione di uno studio epidemiologico in Africa per gli africani, di cui era direttore il professor Lucio Parenzan, primario cardiochirurgo degli Ospedali Riuniti di Bergamo.

Il professor Parenzan, anche direttore dell’International Heart School e Presidente del Worlf Forum for Pediatric Cardiology, aveva iniziato questo progetto nel 1987, dopo essersi recato un paio di volte in Kenya, accompagnato da P. Antonio. Durante gli ultimi anni il progetto aveva fatto notevoli progressi.

Il professor Zichichi precisò nella sua lettera: “Ho il dovere di dirle, rev.mo Superiore Generale, che anima di questo progetto è P. Antonio Giudici… Va quindi considerato un elemento fondamentale per quanto riguarda le relazioni sia con le missioni sia con le autorità locali.

L’aiuto fornito da P. Antonio in questi anni al Laboratorio è stato di straordinaria importanza. Il professor Parenzan ed io consideriamo impossibile la continuazione del progetto negli anni a venire senza la guida e l’aiuto di P. Antonio Giudici… Prof. Antonino Zichichi”.

Pur restando ancorato alla Provincia Italiana, alla fine del 1992, P. Antonio fu inviato nella città di Nairobi come addetto al Media Centre per la rivista New People. Lavoravano con lui P. Kizito Sesana (ex direttore di Nigrizia) e P. Paul Donohue i quali avevano insistito per averlo come collaboratore. In un secondo tempo, invece, fu membro della casa dove risiedeva il superiore provinciale. Questi gli affidò l’incarico di iniziare la costruzione della nuova sede del Centro di New People. Il nuovo superiore provinciale, P. Ferdinando Colombo, in data 29 novembre 1993, scrisse: “P. Antonio è l’unico che potrà seguire il lavoro del nuovo centro, che sarà comunque commissionato ad un cantiere, poiché non sembra che lo stesso padre possa trovare spazio per un vero impegno come giornalista. Comunque, terminato questo lavoro al centro, intendiamo recuperarlo per un lavoro pastorale al quale il confratello è molto portato”.

Ad un certo punto sembrava che qualcuno volesse chiamare in Italia P. Antonio. Egli scrisse:

“Lasciatemi lavorare in quest’opera alla quale il Signore mi ha chiamato; permettetemi di realizzare questa mia speciale vocazione che sublima la mia vocazione missionaria… Se devo obbedire, obbedisco prontamente, ma lo faccio con il cuore a pezzi”.

Il volano gira

In data 24 dicembre 1994 il professor Parenzan scrisse al superiore generale: “Nel maggio prossimo, presso il Mater Misericordiae Hospital di Nairobi cominceremo ad eseguire interventi di cardiochirurgia tali da riportare alla normalità i bambini e gli adulti affetti da malattie di cuore. Il team finora è di 40 persone tra cardiologi, cardiochirurghi, intensivisti, patologi, anestesisti, infermieri e perfusionisti.

Il ‘cuore’ e il ‘motore’ di tutto questo progetto è stato ed è ancora P. Antonio Giudici di cui tutti abbiamo sempre apprezzato l’amore per il prossimo, l’alto sentimento religioso, il rapporto fraterno con noi, la tenacia nel tenere i contatti con la terra africana e la sua assoluta abnegazione nell’aiutarci in tutto e per tutto.

Senza P. Antonio certamente dovremmo sospendere la nostra azione terapeutica determinando così la morte di tanti bambini e adulti. La lista d’attesa in questi paesi è enorme, tanto che l’organizzazione svizzera ‘Terre des Hommes’ aveva già in progetto di affidarci almeno cento bambini cardiopatici africani all’anno”.

Un lettera analoga venne scritta dal professor Antonino Zichichi il 9 febbraio 1995. Il periodico Famiglia Cristiana n. 51 del 1996 espresse parole lusinghiere a proposito dell’attività di P. Antonio in missione, tanto che P. Pietro Ravasio, archivista generale dell’Istituto, si sentì in dovere di segnalarle al Superiore Generale: “Segnalo alla sua benevola attenzione questo articolo apparso sul numero di Natale di Famiglia Cristiana. Mi pare onori i gesti profetici di P. Antonio, certo non sbandierati, ma che hanno già dato frutti così evidenti…”. E P. Antonio rimase in Kenya.

Il sacerdote

Abbiamo presentato P. Antonio come “un imprenditore della carità”. La carità è il cuore del Vangelo, il fiore all’occhiello del cristianesimo. Tuttavia P. Antonio fu sempre e ovunque un sacerdote. Quando si presentava lo faceva come “Sacerdote Missionario Comboniano”. Vestiva sempre, anche in missione, il clergyman e portava il colletto romano.

Nei viaggi aveva con sé la valigetta con l’altare portatile e i paramenti in modo da poter celebrare la santa Messa anche se, per la rottura della macchina, avesse dovuto dormire fuori dalla missione. Il breviario era suo compagno indivisibile e non ne ha mai saltato neppure un pezzetto per quanto fossero impellenti gli impegni della sua giornata.

Se viaggiava da solo, recitava il rosario; e se era in compagnia, chiedeva se volevano pregare un po’ con lui, oppure ascoltava delle audiocassette con conferenze e meditazioni. La sua prima cura di fronte ad un ammalato era l’amministrazione dei sacramenti, se era un cattolico; se si trattava di un protestante o di un musulmano, invitava ad elevare il pensiero a Dio.

Quando c’era bisogno di un confessore, si prestava volentieri. Era più restio ad accettare corsi di predicazione perché convinto di non esserne capace. Invece, quando cominciava a raccontare l’esperienza di missione, captava l’attenzione di tutti.

Pur avendo frequentato tanti laici, alcuni dei quali neppure credevano in Dio, egli ha saputo sempre dare la sua testimonianza di cristiano e di sacerdote, edificandoli.

Era molto stimato anche dai sacerdoti della diocesi di Bergamo. Di fatto, si era sempre sentito un prete bergamasco e soprattutto di Sarnico. Quando era in Italia era sempre disponibile per il ministero, anzi, in tempi di cambiamento di sacerdoti, andava a sostituirli.

Davvero P. Antonio era un uomo di Dio, che ha lasciato in tutti l’impronta di Dio, non per i suoi discorsi teologici, ma per l’esempio della sua vita semplice e retta, per la sua disponibilità ad aiutare i bisognosi, per il suo cuore buono e gentile. Tutti quelli che hanno avuto contatti con lui o che gli sono stati vicini, ne hanno ricevuto edificazione. Non si è trovato uno che avesse qualcosa da dire sulla sua serietà e sul suo impegno sacerdotale.

Lui, che ha sempre avuto una tenera devozione per il Cuore di Gesù, ne ha assorbito lo spirito di carità, zelo e sacrificio. Possiamo dire che, alla fine della vita, il suo cuore e quello di Dio battevano all’unisono.

La sua ora

Che qualche cosa non funzionasse nel suo organismo, lo si vedeva chiaramente. Qualche amico medico, in Africa, gli ripeteva che doveva farsi vedere, doveva fermarsi per pensare anche a se stesso. Ma P. Antonio non aveva tempo di fermarsi. Gli pareva che le necessità degli altri fossero infinitamente superiori alle sue. Finalmente si decise a farsi visitare. La situazione apparve subito piuttosto seria per cui fu ricoverato al San Raffaele di Milano.

Verso la fine del 1995, gli asportarono un rene affetto da tumore. Fu un duro colpo, anche da un punto di vista psicologico, per P. Antonio che non sapeva che cosa fosse il riposo.

“La salute che subisce le avversità del tempo e la spossatezza che ne consegue, avevano spento in me l’entusiasmo di combattere. Le incongruenze e gli atteggiamenti di certi cristiani, e anche di certi pastori, che sembrava non avessero mai letto il Vangelo che pur spiegavano ai loro fedeli ogni domenica, mi avvilivano. Mi sfiorò perfino il dubbio di aver sbagliato tutto, di aver lavorato invano. Eppure i bambini guariti erano lì a dirmi che la strada che avevo imboccata fin dall’inizio della mia vita missionaria era quella giusta”.

Durante la convalescenza, ebbe modo di riflettere, di pregare… Ricordò quanto gli aveva scritto il Superiore Generale qualche anno prima: “Non ho l’impressione che tu abbia speso molto tempo in iniziative di formazione permanente, se mai troppo poco”. E il superiore provinciale aveva aggiunto: “Da parte tua provvedi a fare il corso di esercizi spirituali”.

Sì, è vero, P. Antonio aveva avuto poco tempo di fermarsi per pensare a se stesso, ma a Dio e ai poveri aveva pensato sempre. Ora ecco la malattia, la sofferenza, ad obbligarlo a una tappa. Dopo il primo istante di smarrimento, ebbe anche lui la forza di dire, come Gesù nell’orto: “Non la mia, ma la tua volontà sia fatta”. Rilesse ciò che gli scrisse P. Tarcisio Agostoni, ex Superiore Generale e sempre suo amico: “La sofferenza è uno strumento che nelle mani di Dio è fonte di fecondità per il nostro lavoro e per il nostro cammino spirituale”. Comboni non aveva forse detto più volte: “Le opere di Dio nascono, crescono e si sviluppano ai piedi del Calvario?”. Se ciò che P. Antonio aveva fatto era opera di Dio, necessariamente doveva avere il sigillo della croce.

Anche il tumore, dunque, era un dono che lo aiutava a stendersi sulla croce di Cristo, che ha portato salvezza al mondo. Il missionario che ha cercato di seguire Cristo, di imitarlo, non può che finire nello stesso modo. Questa è la logica della sofferenza per un cristiano.

Lo chiamavano “Padre Cuore”

Nel 2000 era rientrato definitivamente in Italia e, come comunità, risiedeva nell’Istituto Comboni di Brescia, in Viale Venezia, tuttavia continuò a mantenere i suoi legami con il Kenya che visitava periodicamente.

Nel gennaio del 2001 arrivò la conferma che il tumore era tornato in attività con rinnovata virulenza. Negli ultimi tre mesi di vita, la sorella Maddalena lo volle nella sua casa in modo da essergli vicina sia quando faceva la chemioterapia, sia quando aveva bisogno di assistenza. Fu così fino al momento della morte che avvenne la sera di domenica 17 marzo 2002.

Il 15 gennaio P. Antonio aveva ricevuto dall’amministrazione comunale e dalla parrocchia il “San Maurino d’oro”, premio destinato ai concittadini benemeriti. Non fu lui a ritirarlo, ma un confratello.

Al suo funerale c’erano più di mille persone e 50 sacerdoti concelebranti, con Mons. Foresti. “Il Kenya perde un amico, un missionario dal cuore grande e di una disponibilità unica”, ha detto P. Francesco Antonini, superiore provinciale dei Comboniani in Italia. Anche il sindaco ha voluto rivolgere il saluto a questo missionario che ha fatto conoscere gli aspetti più belli di Sarnico e la generosità della sua gente, in molte parti del mondo. Hanno concluso la cerimonia le toccanti parole del parroco, Don Luciano Ravasio, e di P. Guido Poda, il missionario che è stato formatore di P. Antonio durante gli anni di teologia a Londra e poi compagno in missione:

“Ho visto P. Antonio dar da mangiare agli affamati, fornire d’acqua gli assetati, accogliere i forestieri, vestire gli ammalati ed amare, come pochi, i bambini. È riuscito in imprese impossibili, impensabili anche ai più ottimisti, come portare in Italia, curare e guarire duecento bambini con gravi problemi cardiaci…”.

La sepoltura è avvenuta nel cimitero di Sarnico vicino alle tombe dei genitori e del fratello che lo aveva preceduto tre anni prima.

Pochissimi, anche tra i Comboniani, erano a conoscenza di quanto P. Antonio aveva fatto per venire incontro alle necessità degli africani, specialmente dei bambini, perché amava lavorare senza sbandierarlo ai quattro venti. Una cosa è certa: P. Antonio è stato un autentico figlio del Comboni del quale ha vissuto in pienezza il carisma.

Come il Comboni, suo padre e maestro, ha saputo fare il bene degli africani, senza guardare a destra o a sinistra, senza paura di scontrarsi con chi non la pensava come lui o non era all’altezza di capire l’importanza di certi progetti che portava avanti, anche se si trattava di persone importanti. Come Comboni non ha evitato di addossarsi fatiche, croci e umiliazioni pur di donare a tanti piccoli, con la fede, anche il dono della salute fisica, e di coinvolgere tutti, specialmente i medici, nella sua passione per l’Africa. Tutto perché nel suo cuore c’era un incendio di amore per Dio e per i più poveri e i più bisognosi. Non per niente in Africa è stato chiamato, e resterà per sempre, “Padre Cuore”. (P. Lorenzo Gaiga, mccj)

Fr. Antonio Giudici. On Saturday, 16 March, we celebrated Fr. Antonio’s 62nd birthday by saying Mass with him, his close family, bishop emeritus Foresti of Brescia and the Comboni community of Brescia. We gathered around his bed in the home of his sister Maddalena and his brother-in-law Gino who, together with other relatives and many friends, had assisted and supported him during the last stages of his illness. It was a Mass of thanksgiving for Fr. Antonio’s life, his missionary vocation, the years spent in Africa and those spent in Italy, but with Africa always in his heart. Fr. Antonio was indeed big-hearted, capable of finding and then maintaining numberless of contacts and friendships, capable of involving one and all in his passion for Africa and, in particular, for children suffering from heart disease.

Fr. Antonio was known by many, thanks precisely to his personal intuition and attention that he translated into more than 200 children undergoing heart surgery in Italy. To be of assistance to them, he had to raise awareness, interest and cooperation in many people: in doctors for the operations and in numerous friends and relatives for the logistic of transporting, accommodating and assisting these young patients, not only in Italy, but also in Nairobi, Kenya.

Eventually, to make the project an African one, Fr. Antonio assisted Professor Lucio Parenzan (the surgeon who was operating on these children at the hospital in Bergamo) and Professor Antonio Zichichi (president of the “International Centre of Scientific Culture” in Geneva) in setting up in cooperation with the Nairobi Hospital a Centre specialised in heart surgery and training facilities for local staff. In this way, Fr. Antonio succeeded in creating the possibility of carrying out the required surgery for his many little patients in Nairobi, without having to rush abroad.

Fr. Antonio had to suffer a lot of incomprehension and criticism from his confreres and other people concerning his project in assisting all these children. They thought that what Fr. Antonio was doing should have been done by someone else and that this commitment prevented him from fitting in within the religious community. Fr. Antonio used to answer that “a layperson or a brother could have done what he had been or was doing in a better way, but that such a person was not around where or when was needed”. He believed that, “as Comboni has freed many people from slavery, to free young people from heart disease and untimely death was to free them from a terrible form of slavery”.

Fr. Antonio had joined the Comboni Missionaries in Crema as an adult vocation, slightly over 20, coming from Sarnico (BG). From Crema he went on to the novitiate (Sunningdale, England), taking his first vows in 1970, then on to the scholasticate, always in England (Elstree).

He had landed in Kenya in 1973, the year of his ordination. He returned to Kenya several times in between various assignments in Italy: Verona, Trent, Milan. No matter where he was working, he always managed to bring assistance to the children with heart problems. He had started in 1975 with a little girl, the daughter of a catechist in Moyale, and continued till his death, the last child assisted being one hosted by his sister in January 2002.

Towards the end of 1995 Fr. Antonio, too, had to undergo a surgery for tumour to a kidney, which had eventually to be removed. Everything seemed to have gone well and Fr. Antonio had resumed his activities in full. His time in Kenya, though, came to an end in August 2000, when his health deteriorated. Even then Fr. Antonio did not sever his ties with Africa.

In January 2001 he had confirmation that the tumour was back. Fr. Antonio wanted to die with his boots on and, except for the last three months when the disease had placed severe limitations, we believe his wish was granted.

The Mass of his last birthday was also the last Mass of his life, in thanksgiving and in oblation to God for a life spent totally for Him and for the poor – always with wide open horizons, because the ordinary barriers of life never fit him well. On Sunday evening, 17 March 2002, he entered in the peace of the Lord he loved, proclaimed and served in the Spirit of Comboni.

Da Mccj Bulletin n. 216 suppl. In Memoriam, ottobre 2002, pp. 67-83