“Io sottoscritto Don Alfonso Polacchini, di Giuseppe e di Osti Ines, nato il 28 febbraio 1927 a Sammartini di Crevalcore, Bologna, sacerdote dell’Archidiocesi di Modena, ordinato il 18 maggio 1950 a Nonantola, attualmente cappellano di Sozzigalli, col consenso dei Superiori chiedo di essere ammesso alla Congregazione dei Figli del Sacro Cuore, desiderando consacrare tutta la mia vita alla redenzione della Nigrizia…”. Con questa lettera, scritta il 30 settembre 1950, Don Polacchini chiedeva di farsi Comboniano.
I genitori erano contadini e proprietari di un piccolo podere. La famiglia era credente e praticante. Dei cinque figli Alfonso era il primo. Il terzo, Don Tonino, è oggi parroco a Casalecchio di Reno, e la più giovane, Ines, si è fatta suora. In famiglia era viva la tradizione religiosa. Infatti papà Giuseppe aveva un fratello sacerdote, una sorella e tre cugine suore francescane.
Da bambino Alfonso frequentava la parrocchia e prestava servizio all’altare come chierichetto. Di carattere era mite e remissivo. Uno dei suoi hobby da ragazzo era la lettura di buoni libri. Per tutta la vita coltiverà questa passione tanto che, nei suoi spostamenti, stupiva la quantità di libri che si portava dietro.
Dopo le elementari è entrato nel seminario di Modena ed è sempre andato avanti senza particolari traumi. “Non sappiamo come sia nata in lui la vocazione missionaria - scrive il fratello sacerdote - ma sappiamo che i Missionari Comboniani andavano spesso in seminario a parlare di missioni e di Africa. Era suo desiderio entrare tra i Comboniani già da seminarista, ma lo zio sacerdote volle che terminasse gli studi in seminario perché convinto che la vocazione missionaria doveva essere ponderata a fondo”.
Sono contento di questa strada
Il rettore del seminario, Mons. Flaminio Vecchi, ha scritto di Don Alfonso: “Pur non essendo di intelligenza straordinaria, è sempre riuscito bene negli studi grazie alla sua diligenza e applicazione. Riguardo alla pietà, allo zelo e a tutte le altre qualità sacerdotali credo di poter dare un giudizio retto ed oggettivo ritenendo il nostro giovane ottimo. Voglio sperare che tutto proceda conforme alla volontà del Signore ed imploro da Dio la grazia che, ancora una volta, il nostro seminario possa contribuire in modo degno al grande apostolato della salvezza del mondo infedele”.
Don Alfonso entrò nel noviziato di Gozzano il 14 ottobre 1950; il 13 novembre fece la vestizione e iniziò il suo tirocinio come novizio fervoroso e diligente. “Molto intraprendente e zelante della salute delle anime - scrisse P. Giovanni Giordani, padre maestro. Poi aggiunse - sacerdote di pietà soda, dovrà rinunciare allo studio prolungato per intervenire subito dove i novizi sono chiamati. È aperto, sereno, gran lavoratore, sempre di buon umore, pronto all’obbedienza e al sacrificio, si adatta a tutto e non teme disagi e desidera far ministero. Non ha le doti del superiore, ma sarà un ottimo collaboratore”.
Dopo due anni di noviziato P. Alfonso poté scrivere: “Mi sono trovato bene e sono contento di aver seguito questa strada. Sono desideroso di immolare tutta la mia vita per la salvezza degli infedeli. Il 28 agosto 1952 concluse il noviziato con l’emissione dei voti temporanei. L’anno dopo chiederà di anticiparli al 15 agosto, solennità dell’Assunta, come omaggio alla Madonna della quale era molto devoto.
In Sudan meridionale
Lo stesso giorno dei voti P. Alfonso ricevette la destinazione: missione di Raga, in Sudan meridionale.
“I nostri genitori - scrive il fratello sacerdote - hanno sofferto quando è partito per il Sudan, ma lui era così convinto della chiamata da parte di Dio che è riuscito a tranquillizzare tutti”.
Raga era una missione fondata nel gennaio 1935, ma già nel 1930 i gruppi di Cresh residenti a Kayango, Mboro, Den Zubeir, furono riuniti agli altri Cresh nell’area di Raga. In ciascuno di tali gruppi vi era un certo numero di cristiani così, nella zona musulmanizzante di Raga, vennero a trovarsi più di 200 cristiani. Da ciò sorse la necessità di fondare la missione. Sono stati P. Angelo Arpe e Fr. Giuseppe Pagliani a benedire la croce, dando origine alla missione.
P. Innocenzo Simoni e Fr. Virginio Taglioretti iniziarono i lavori, aiutati da P. Anselmo Ghiotto e Fr. Angelo Zanetti. In un tempo relativamente breve prepararono la casa per i missionari, un dormitorio per i ragazzi e una cappella provvisoria. In luglio di quel 1935 arrivò Fr. Silvio Carlin, ma in novembre morì di febbre nera.
Intanto si constatava che la missione era stata costruita in un luogo paludoso e malfermo, per cui gli edifici si sgretolavano e cadevano. Fr. Eugenio Monguzzi lasciò il posto a Fr. Taglioretti e si cominciò daccapo a circa mezzo chilometro di distanza, sul terreno solido. Vi lavorano P. Ghiotto e Fr. Udilio Rossignoli.
Alla fine di marzo del 1937, mentre P. Simoni si trovava impegnato a colpire un leopardo che era penetrato nel pollaio, improvvisamente venne assalito dalla bestia e fatto cadere riverso. Ne riportò una morso non grave e la frattura di una gamba sopra il ginocchio. Venne trasportato a Wau d’urgenza. P. Domenico Seri, P. Giuliano Ignazio Alghisi, P. Luigi De Giorgi si alternarono a Raga e fecero un gran lavoro di evangelizzazione. Il registro dei battesimi del 1946 indica 1.200 cristiani. “Da notare - recita il diario della missione - che a Raga si fa un gran numero di battesimi di vecchi, lebbrosi e disgraziati”. Inoltre c’erano scuole e catecumenati nei villaggi.
Una preferenza per i vecchi e i lebbrosi
Quando vi giunse P. Alfonso il lavoro era in pieno sviluppo. Egli non guidava l’auto e non sapeva neanche andare in moto. Il suo primo superiore, P. Mario Castagnetti, lo aiutò a vincere la sua naturale ritrosia costringendolo ad usare la moto. Essendo un evangelizzatore appassionato, andava volentieri a fare i safari e gioiva intensamente quando constatava che, nonostante le difficoltà della lingua, la fede cresceva tra la gente.
Nella “cartella informativa” alla data 15 agosto 1953, quindi dopo un anno di missione, ad ogni voce (progresso spirituale nella vita religiosa - osservanza delle Regole - spirito di pietà - obbedienza - povertà - castità - impegno nell’ufficio - carità fraterna - zelo per le anime - attaccamento alla vocazione) corrispondono tutti “ottimo” ed “esemplare”. La firma è di P. Francesco Colombini, provinciale. Questi, in una postilla aggiunge: “È arrivato in missione molto debole di salute, ma si è rimesso bene”.
Nella zona c’erano molti anziani e malati di lebbra. P. Alfonso mostrò subito una speciale predilezione per queste persone. Andava a visitarle portando sempre qualche piccolo dono (coperte, sapone, tabacco, sale…) s’intratteneva con loro e con loro approfondiva la lingua. P. Giovanni Battista Zanardi, che è stato suo superiore, dice che, almeno all’inizio, “ha fatto parecchio fatica ad apprendere la lingua, ma sapeva spiegarsi bene con il linguaggio della carità”. Poi aggiunge: “Non aveva tanta iniziativa ma, essendo obbedientissimo, si lasciava guidare e faceva un gran bene”.
Ha saltato le tappe
Dopo tre anni di missione, è arrivato per P. Alfonso il momento di rinnovare i voti religiosi per altri tre anni, prima di accedere ai voti perpetui. Ma egli era così contento della sua vita missionaria, che chiese ai superiori di poter emettere subito i voti perpetui senza attendere gli altri tre anni prescritti dal Codice Canonico.
P. Gaetano Briani, allora provinciale, scrisse: “Sono favorevole che P. Alfonso sia ammesso ai voti perpetui perché è esemplare in tutto ed è di edificazione”. P. Zanardi aggiunse: “P. Alfonso si comporta bene e spero che i superiori accolgano favorevolmente la sua richiesta di emettere i voti perpetui”. I superiori acconsentirono molto volentieri e P. Alfonso poté pronunciare i voti perpetui il 15 agosto 1955.
Proprio in quell’anno cominciò per il Sudan una lunga via crucis che continua anche ai nostri giorni. Nel 1955 a Torit, Sudan meridionale, scoppiò una tremenda rivolta dei militari neri contro gli ufficiali arabi. L’insurrezione venne soffocata nel sangue con l’appoggio degli inglesi. Il Sudan ottenne l’indipendenza dall’Inghilterra il 1° gennaio 1956.
Nel febbraio del 1957 il ministro dell’educazione della nuova repubblica sudanese, un musulmano convinto, ordinò l’occupazione di tutte le scuole delle missioni del Sud con lo scopo di eliminare l’insegnamento della religione cristiana e sostituirlo con il Corano. Ai ragazzi venivano strappate dal collo le medagliette e la corona del rosario. Coloro che protestavano venivano picchiati, alcuni furono anche imprigionati. I missionari patirono restrizioni di ogni genere: non potevano distribuire le medicine agli ammalati, non potevano allontanarsi dalla missione senza permesso della polizia, ad un certo punto era proibito catechizzare, battezzare, celebrare Messa… senza uno speciale permesso. Insomma era persecuzione vera e propria.
Con l’angoscia nel cuore
Anche P. Alfonso ne fu vittima e, nel 1963, venne espulso dal Sudan dove aveva dato i suoi anni migliori. Partì con l’angoscia nel cuore e si trovò a Pellegrina, nella bassa veronese, dove i Comboniani gestivano una scuola di agraria per fratelli missionari. P. Alfonso diventò il loro padre spirituale. Vi resterà da metà 1963 a metà 1965. Subito diventò l’amico e il fratello di quei giovanotti che dissodavano la terra, allevavano mucche, galline e maiali in vista di un analogo lavoro in Africa per realizzare il Piano di Comboni: “Salvare l’Africa con l’Africa”. Anche P. Alfonso sognava continuamente l’Africa da dove era stato espulso nel giro di qualche ora, senza neanche potersi portar via le cose più indispensabili.
Nel 1965 lo troviamo a Roma, al Corso di Rinnovamento, per un periodo di studio, di preghiera e di vita comunitaria al quale tutti i missionari periodicamente si sottopongono. La mente e il cuore erano sempre in Sudan meridionale dove continuava la guerra e dove Mons. Ireneo Dud, unico vescovo sudanese, portava avanti il ministero con una ventina di sacerdoti locali. Quando i missionari sarebbero potuti ritornare?
Come il buon pastore
Ma ecco che, nel 1967, si riaprono ancora le porte dell’Africa per P. Alfonso. Non per tornare in Sudan dove era assolutamente proibito mettere piede, ma in Centrafrica dove i cristiani di Raga avevano trovato rifugio per sfuggire alla persecuzione sudanese.
L’incontro di P. Alfonso con i suoi cristiani fu qualcosa di commovente e di esaltante. Il suo incarico era quello di “assistente ai profughi sudanesi” e lo disimpegnò nel modo migliore. Presso i cristiani riprodusse l’immagine del buon pastore che segue il suo gregge, lo difende, lo nutre e lo aiuta. Non si trattava solo di non far mancare niente da un punto di vista spirituale, ma quella povera gente era priva anche del minimo indispensabile da un punto di vista materiale. E anche a questo doveva pensare P. Alfonso. Qui la sua carità ebbe modo di inventare mille espedienti per venire incontro alle necessità di tutti. Organizzò le mense comuni per coloro che non avevano da mangiare, incaricò i gruppi dei giovani di Azione Cattolica di costruire le capanne per coloro che non erano in grado di bastare a se stessi, sguinzagliò i ragazzi perché gli segnalassero gli ammalati o coloro che avevano particolari bisogni. Insomma seppe mettere in moto una macchina che portò conforto a tutti.
Una lettera scritta da Mboki il 6 maggio 1968 ci apre un ulteriore spiraglio sulla vita e l’attività di P. Alfonso: “Rev.mo Padre, le invio due righe dalla cara missione di Mboki. Mi trovo bene e sono felice e contento. Anche di salute sto bene.
Abbiamo dedicato la nostra chiesa alla Madonna del Rosario. Ci auguriamo che i profughi sudanesi possano ritornare presto, liberi e tranquilli, ai loro villaggi. La speranza è grande.
Abbiamo pure iniziato il piccolo seminario con 12 alunni, ma altri ragazzi hanno già manifestato il desiderio di entrarvi…”.
Superiore degli universitari
Dopo cinque anni di quella vita piuttosto logorante, dovette rientrare in Italia per riprendere fiato. Fu mandato a Crema dove i Comboniani avevano un seminario e la cura di un santuario. Il ministero delle confessioni occupò gran parte dell’anno in cui P. Alfonso rimase a Crema. Intanto, però, si rese disponibile un altro posto che poteva essere adatto a lui: superiore e vice parroco della casa comboniana di Via Saldini, a Milano, dove confluivano i giovani missionari che frequentavano l’università e dove c’era da gestire la chiesa dedicata a “Dio padre”.Vi rimase fino al 1981.
Per capire quanto sia stato benvoluto a Milano, basta riportare una frase pronunciata dal prevosto al momento dell’addio: “Il vedere la chiesa di Via Saldini così gremita mi ha fatto strabiliare. Ho visto anche come amate P. Alfonso che è stato con voi per ben 8 anni e si è fatto voler bene per la sua bontà di cuore e la sua comprensione”.
Intanto in Sudan succedevano cose buone. Il 25 maggio 1969, Nimeyri, un militare, prese il potere con un colpo di stato e inaugurò una rivoluzione moderatamente di sinistra. Con l’accordo di Addis Abeba del marzo 1972 si pose fine alla guerra tra Sudan del Nord e Sudan del Sud. Nell’accordo era espresso per la prima volta il principio della libertà di religione. Nei missionari si riaccese la speranza di poter tornare nelle missioni da dove erano stati espulsi.
In realtà qualche permesso arrivò, ma con il contagocce, perché Nimeyri doveva tenersi buoni gli arabi del nord che erano contrari alla sua politica di apertura.
Non è come prima
Il 21 giugno 1980 il Superiore Generale fece la proposta a P. Alfonso di tornare in Sudan meridionale, sperando di ottenere il permesso di entrata. “Tu sai che ci sono tante richieste di confratelli per il Sudan meridionale, sia per l’attività diretta, sia soprattutto per i seminari, le scuole e i centri catechistici… Non ti nascondo il fatto che l’attesa per il permesso potrebbe essere lunga, ma speriamo bene”.
La gioia di P. Alfonso andò alle stelle, ma la sua ansia di partire doveva essere mortificata a lungo. Solo in novembre 1981 giunse a Raga, nella sua prima missione, e scrisse al Superiore Generale: “Mi trovo a Raga insieme a P. Gino Tosello e a Fr. Ambrogio Confalonieri. I cristiani ci hanno accolto molto bene e ci hanno fatto festa. Io mi sono commosso e ho ringraziato il Signore. C’è anche un sacerdote nero che da ragazzo ho aiutato ad entrare in seminario. Per arrivare a Raga ho tribolato molto. Ho dovuto aspettare quattro mesi a Nairobi per avere il permesso e non volevano darmelo perché ero sulla lista nera come espulso. Intervenne poi il nunzio e il permesso venne. Attesi ancora due mesi a Juba per completare le pratiche e, finalmente, dopo sei mesi potei arrivare a Wau… Il clima del Bahr el Ghazal è sempre quello, ma con meno comodità rispetto ai nostri tempi quando comandavano gli inglesi. L’avvenire politico del Sudan è molto incerto. Se dovesse cadere Nimeyri potrebbe riprendere la guerra. In giro ci sono tante armi e, ogni tanto, capitano delle sommosse”. Parole profetiche, queste ultime. Poi continua: “A Raga ho trascorso un bel Natale con tanta gente in chiesa, molte confessioni e comunioni. La fede è ancora viva, ma non è più come prima. I musulmani lavorano e fanno propaganda specialmente tra la gioventù delle scuole. Bisogna ricostruire ciò che la guerra e i lunghi anni di assenza dei missionari hanno rovinato e distrutto. A Den Zubei non c’è neppure un sacerdote, così pure a Mboro e a Kayango c’è desolazione. Tutto abbandono e distruzione eppure erano missioni come cittadine… Caro padre, la ricordo con affetto e venerazione, e prego il Signore perché mi mantenga la salute per poter lavorare”.
Un dono di Dio
Il provinciale del Sudan, P. Ottorino Filippo Sina, ha scritto al Superiore Generale: “Grazie di aver assegnato P. Alfonso al Sudan. Conosco l’uomo e sono convinto che la sua presenza è un dono di Dio, una grazia per il Sudan”.
Il Signore gli concesse dieci anni di intensa attività durante i quali poté fare tanto bene. Nel 1987 P. Francesco Pierli scrisse ai confratelli di Raga: “La vostra presenza in una zona così importante per l’evangelizzazione, anche se così remota da altre comunità comboniane, è un segno che la nostra vita è veramente dedicata all’evangelizzazione anche in situazioni difficili e complesse. Quando nell’assemblea di Juba si parlò di Raga ci fu un consenso unanime nel dire che la presenza comboniana ha un grande significato per la prima evangelizzazione e per proteggere l’Africa nera dall’invadente influenza islamica. Con questa lettera, pertanto, intendo manifestarvi il ricordo, la preghiera, l’apprezzamento e l’ammirazione da parte mia e del Consiglio Generale”.
Intanto la salute cominciò a segnare rosso. All’inizio P. Alfonso non si diede per vinto, desideroso di concludere i suoi giorni in quella terra. Quando si sentiva particolarmente stanco, si sedeva sotto l’ombra di una grossa pianta e lì incontrava gli africani e parlava con loro.
Restauratore di anime
Uomo di spirito e di preghiera, sempre con la corona in mano, P. Alfonso era il confessore di tanti missionari e tantissimi cristiani che ricorrevano al suo ministero e al suo consiglio. Giustamente i suoi confratelli lo hanno chiamato: “Restauratore di anime ferite dal peccato”. Era anche l’uomo del perdono, della misericordia, della carità: gli si poteva portare via tutto, anche i vestiti, e lui si mostrava sempre contento.
Dice P. Giovanni Battista Zanardi, che è stato suo parroco: “Come carattere era remissivo, affabile, pacifico, cordiale con tutti. Conosceva bene la lingua della gente, il cresc. Ciò gli consentiva di intrattenersi con loro senza alcuna difficoltà. La sua umiltà lo portava a dar sempre ragione agli altri perché pensava che ne sapessero di più di lui. Era negato alle polemiche e accettava le decisioni dei superiori, quindi uomo di obbedienza e sempre disponibile ad aiutare. A Raga la guerra ha messo in fuga 25.000 persone, e P. Alfonso si preoccupava di questi profughi e li aiutava in tutti modi”.
Non ha fatto cose grandi da un punto di vista materiale, non ha avuto idee rinnovatrici, ma ha amato gli africani fino al punto che voleva morire tra loro. Ma ha amato anche i confratelli. Tra le sue carte sono stati trovati dei quadernetti nei quali registrava la data del compleanno e dell’onomastico dei confratelli con i quali aveva lavorato, e dei superiori. Li voleva ricordare con una cartolina augurale e con una preghiera.
Amo la Chiesa e gli africani
Nel 1994 cominciarono giorni difficili per i missionari del Sudan meridionale. Da anni era ricominciata la guerra con le restrizioni imposte dal governo, e in più con il pericolo dei bombardamenti sui villaggi, con la fame e le malattie che dilagavano. In quell’anno P. Mattia Bizzarro, ultimo dei missionari del gruppo di Juba, è stato espulso. P. Alfonso in quel periodo si trovava a Crevalcore in vacanza. Il Superiore Generale gli scrisse che prolungasse le vacanze e “si godesse la compagnia della mamma, perché non era possibile tornare a Raga”. Allora P. Alfonso tornò a Nairobi, in Kenya, pronto a fare il balzo in Sudan quando si fosse aperta la porta. Ma per lui quella porta sarebbe rimasta chiusa per sempre.
All’inizio di settembre del 2003, per un improvviso peggioramento della salute, provata da continue malarie e ulcere accompagnate da emorragie, fu portato in Italia. Andò direttamente nell’ospedale di Negrar per esami più approfonditi. Alla mattina di Natale, 25 dicembre 2003, dopo colazione si è appisolato e così, nel sonno, senza neppure che l’assistente se ne accorgesse, è passato all’altra vita.
Le parole che ripeteva spesso erano: “Amo la Chiesa, amo l’Istituto, amo gli africani… quando potrò tornare laggiù?”. Dopo il funerale in Casa Madre, la salma è stata portata al suo paese natale. Scrive il fratello Don Tonino: “Noi fratelli consideriamo una grazia del Signore averlo potuto accogliere al termine della sua vita terrena qui fra noi, anche se siamo convinti che il suo desiderio più volte espresso era quello di terminare i suoi giorni in quella terra d’Africa che ha tanto amato”. Ora P. Alfonso Polacchini riposa nel cimitero di Crevalcore ed è segno di evangelizzazione per la sua Chiesa locale. (P. Lorenzo Gaiga, mccj)
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Fr. Alfonso Polacchini joined the Comboni Missionaries immediately after his priestly ordination in Modena in 1950. He wanted to join the Institute as a seminarian, but an uncle, who was a priest, wanted him to finish first his studies in the diocesan seminary, because he felt that the missionary vocation needed to be pondered very deeply. His brother, the diocesan priest Don Tonino, says: “We don’t know how he got his missionary vocation, but we remember that the Comboni Missionaries used to visit the seminary and speak of their missions in Africa.”
After his religious profession in 1952, he left immediately for South Sudan. His parents suffered a lot over his departure, but Fr. Alfonso was so convinced of his call that he had the strength to comfort everybody.
Having been expelled from Sudan in 1963, together with all the other missionaries because of the persecution waged by the Arabs, Fr. Alfonso worked in mission promotion in Italy. In 1967 the doors of Africa opened again and he was sent to the Republic of Central Africa from where he could assist the Sudanese refugees who had had to leave their country. He stayed there until 1972, when he returned to Italy. In 1981 he was finally able to return to South Sudan, in the areas that had been snatched from the clutches of Khartoum.
When his health began to fail, Fr. Alfonso went to Kenya, but always as a member of the province of South Sudan. In early September 2003, due to his deteriorating health on account of malaria bouts and haemorrhaging ulcers, he was taken to Italy. He went straight to the hospital of Negrar for further tests. On Christmas morning, 25 December 2003, he peacefully died in his sleep.
Fr. Alfonso was a man of prayer, always with a rosary in his hand, and was the confessor of many missionaries and Christians who treasured his ministry and his advice. Rightly his confreres called him the “restorer of souls” wounded by sin. He was also a man of great mercy, forgiveness and charity: one could have deprived him of all that he had and he would still be at peace. When he was in Raga, Sudan, he would sit under a tree and people would come along and chat with him. He was the only missionary the people would still remember even years after he had left the area.
Fr. Giovanni Battista Zanardi, who was his parish priest, says of him: “He had a very meek, friendly, peaceful and cordial character. He knew the local language well. This allowed him to converse with the people with ease. In his humility he tended to agree with others, because he thought they knew better. He detested controversy and always accepted the decisions of his superiors, thus showing his obedience and his availability to be of help. In Raga the war displaced twenty-five thousand people and Fr. Alfonso worried about them and helped them in every possible way.”
He never did outstanding things from the material point of view, did not shine for new ideas, but he loved the Africans so much that he was ready to give his life for them. He also loved his confreres. After his death, among his papers they found notebooks where he wrote the dates of birthdays and name days of the confreres and superiors with whom he had being working. On such anniversaries he used to remember them with a card and a prayer.
He was a committed missionary: he loved to visit the villages and rejoiced when he saw that, despite the hardships caused by the war and hunger, people were growing in their faith. Even when he had been away a long time from Raga, people remembered him for his goodness and because he always had a good word for everyone.
His last words were: “I love the Church, the Institute, the Africans… When will I get back to the missions?” Now he rests in the cemetery of Crevalcore, his birthplace.
Da Mccj Bulletin n. 222 suppl. In Memoriam, aprile 2004, pp. 121-131