In Pace Christi

Migotti Evaristo

Migotti Evaristo
Date de naissance : 26/10/1922
Lieu de naissance : Tomba di Mereto UD/I
Premiers vœux : 15/08/1944
Vœux perpétuels : 07/10/1947
Date de l’ordination : 06/06/1948
Date du décès : 01/12/1964
Lieu du décès : Rungu/RDC

La lettera che scrisse da Rungu 1'8 luglio scorso rispecchia mirabilmente la sua serenità e lo spirito da cui fu sempre animato: «Quello che mi meraviglia è la popolarità già acquistata qui. Dovreste vedere come mi salutano e mi accolgono festosamente ai loro villaggi. Sono veramente contento di trovarmi qui, e non cambierei la mia condizione di missionario neppure col Presidente degli Stati Uniti».

Aveva lasciato per la prima volta il suo paesetto di Tomba di Mereto (Udine), dove era nato il 26 ottobre 1922, per entrare nel seminario diocesano. Quel giorno la mamma lo condusse davanti alla Madonna della camerata e gli disse: «Evaristo, d'ora in poi questa Madonna sarà la tua mamma».

Nel 1940 aveva già manifestato al Rettore il desiderio di entrare nella nostra Congregazione. Gli fu consigliato di attendere dopo l'ordinazione sacerdotale, ma nel 1942 decise di non ritardare più l'attuazione del suo desiderio. La decisione fu determinata anche da alcune conferenze che un nostro confratello tenne nel suo Seminario nella festa di Pentecoste. Si procurò la vita di Mons. Comboni «per leggerla e meditarla attentamente e acquistare quello spirito di eroismo necessario a chi si consacra alle missioni» e si presentò di persona in Casa Madre. Quanto appariva timido ed impacciato con persone di riguardo, altrettanto era fermo nelle sue decisioni. Entrò nel Noviziato di Venegono in quell'anno, al termine della seconda classe di liceo. Gli fu particolarmente duro il distacco dalla sua buona mamma, ma egli l'offrì volentieri al Signore «aspettando da Lui una degna e abbondante ricompensa». Finito il Noviziato, completò gli studi a Verona e fu ordinato sacerdote nel 1948. Nell'ottobre di quello stesso anno partì per l'Asmara, dove insegnò per cinque anni nel Collegio Comboni. Imparò il tigrino e anche il ghe'ez, la lingua liturgica, e fu in grado di celebrare la S. Messa in rito copto. Esercitò tutto il ministero che gli era permesso. La domenica partiva in bicicletta, raggiungendo centri lontani, senza temere gli sciftà che infestavano le strade mettendo in pericolo la vita dei passanti.

Quel modesto ministero non lo appagava; e nel 1953, dopo lunga riflessione e molte preghiere, si permise di rinnovare umilmente la domanda di essere inviato in un campo di maggiore apostolato. «Sento in me un prepotente bisogno di vivere di più di Gesù, di farlo conoscere ed amare, di vivere più intensamente la mia vocazione religioso-missionaria. Ho ormai 30 anni; aspettando ancora mi riuscirebbe difficile imparare una nuova lingua». I Superiori accolsero la sua domanda ed egli, alla fine del 1953, raggiungeva la Prefettura di Mupoi. In dieci anni di apostolato (interrotto solo da una breve vacanza in Italia nel 1958) svolse un fruttuoso lavoro di conversioni a Rimenze, Naandi, Maringindo, Ezo e nuovamente a Naandi, dove fu Superiore fino al giorno dell'espulsione dal Sudan.

Il 15 novembre 1962 venne chiamato in tribunale sotto l'accusa di avere rifatto due cappelle di paglia e fango senza il permesso delle autorità e fu confinato per un mese nella missione di Tombora, in attesa del giudizio. In quel mese scalpitava per l'impossibilità di tornare a Naandi, dove lo attendeva una mole di lavoro. Pochi giorni prima del giudizio, il governo decretò l'espulsione sua, di P. Piazza e di altri confratelli. Ma prima di lasciarlo partire le autorità lo condannarono a trenta sterline di multa; e gli sarebbe toccato di peggio se non fosse stata già decretata la sua espulsione.

Rientrato in Italia, non nascose ai Superiori il desiderio di partire anche lui per il Congo. E intanto fece qualche mese da missionario al suo paese, sostituendo il vecchio parroco ammalato; e con la generosa collaborazione dei compaesani fece applicare la suoneria elettrica alle campane.

Partì per il Congo nel febbraio del 1964, e fu destinato a Rungu. Non mancò però di fare presto una visita a Ndedu per mettere a profitto di quei suoi Confratelli la sua qualità di rabdomante e indicare loro alcuni posti dove potevano trovare acqua. A Rungu imparò abbastanza presto il bangala e cominciò le sue escursioni apostoliche. Nel mese di luglio era già in piena attività, passando da un villaggio all'altro in auto o in bicicletta, sotto il caldo equatoriale. Al ministero nei villaggi univa la cura dei registri parrocchiali; e il tempo non gli bastava per arrivare a tutto. «Siamo qui in due a lavorare nei villaggi fuori missione. Sono più di 70, e non riusciamo a tenere dietro al movimento cominciato con la nostra venuta». Proprio nulla faceva prevedere la tragica giornata del 1° dicembre! Di carattere semplice e buono, P. Migotti lavorò sempre con sottomissione e generosità e si comportò da religioso esemplare. Prima di abbracciarlo per l'ultima volta la mamma gli disse: «P. Evaristo, perché dopo essere uscito dal pericolo di morire nel Sudan vuoi andare nel Congo, dove continuano ad uccidere i bianchi?». «Mamma - fu la risposta del figlio - penso che se il Signore mi chiedesse di morire martire sarei indegno di tale grazia».

Il Signore invece l'ha ritenuto degno di questa grazia, alla quale P. Migotti si era disposto fin da quando aveva domandato di essere ammesso alla professione perpetua, dichiarando al Superiore Generale: «Liberamente, con piena avvertenza mi consegno a Lei e ai suoi successori perché dispongano di me per qualunque ufficio credessero opportuno affidarmi anche per quelli che richiedessero un atto eroico».

L'atto eroico, il Signore glielo chiese il 1 dicembre 1964, ed egli non esitò a compierlo: fu ucciso a Rungu, dai ribelli Simba.

Da Bollettino n. 72, gennaio 1965, p. 54-56

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La lettera che scrive da Rungu l’8 luglio 1964 rispecchia mirabilmente la sua serenità e lo spirito che l’hanno sempre animato: «Quello che mi meraviglia è la popolarità già acquistata qui. Dovreste vedere come mi salutano e mi accolgono festosamente nei loro villaggi. Sono veramente contento di trovarmi qui e non cambierei la mia condizione di missionario neppure con il presidente degli Stati Uniti».

Lascia il paese natio per la prima volta per entrare nel seminario diocesano. La mamma lo conduce davanti alla statua della Madonna posta davanti al dormitorio e gli dice: «Evaristo, d’ora in poi questa Madonna sarà la tua mamma».

Nel 1940 manifesta al rettore del seminario il desiderio di entrare nell’istituto dei Missionari Comboniani. Gli viene consigliato di attendere dopo l’ordinazione sacerdotale. Nel 1942 decide che non può più ritardare. Nella solennità di Pentecoste un comboniano ha tenuto una conferenza e lui ne è rimasto colpito. Si è anche procurato una vita di mons. Comboni, «per leggerla e meditarla attentamente e acquistare quello spirito di eroismo necessario a chi si consacra alle missioni». Poi si presenta di persona alla Casa Madre di Verona. Appare timido e impacciato con persone di riguardo, ma è fermo nelle sue decisioni. Quell’anno entra nel noviziato di Venegono Superiore (Varese). Particolarmente duro è il distacco dalla mamma.

Finito il noviziato, completa gli studi a Verona ed è ordinato sacerdote nel 1948. Nell’ottobre di quell’anno parte per Asmara (Eritrea), dove insegna per cinque anni nel Collegio Comboni. Impara il tigrino e il ghe’ez (l’antica lingua della liturgia ortodosso-etiopica) ed è in grado di celebrare la messa in rito copto. Esercita tutto il ministero che gli è consentito. La domenica parte in bicicletta per raggiungere centri lontani, senza temere gli scifta (banditi) che infestano le strade e attaccano i passanti.

Nel 1953, dopo lunga riflessione e molte preghiere, rinnova la domanda di essere inviato in un campo di maggiore apostolato. «Sento in me un prepotente bisogno di vivere di più di Gesù, di farlo conoscere e amare, di vivere più intensamente la mia vocazione religioso-missionaria... Ho ormai 30 anni. Se aspettassi ancora, poi mi riuscirebbe difficile imparare una nuova lingua».

I superiori accolgono la sua domanda e, alla fine del 1953, padre Evaristo raggiunge la Prefettura di Mupoi (Sudan). In dieci anni di apostolato, interrotti solo da una breve vacanza in Italia nel 1958, svolge un fruttuoso lavoro di conversioni a Rimenze, Naandi, Maringindo, Ezo e di nuovo a Naandi, dove è superiore di comunità fino al giorno dell’espulsione dal Sudan.

Il 15 novembre 1962 è chiamato in tribunale. È accusato di avere rifatto due cappelle di paglia e fango senza il permesso delle autorità ed viene confinato per un mese nella missione di Tombora, in attesa di giudizio. Pochi giorni prima del verdetto, il governo centrale decreta l’espulsione sua, di padre Piazza e di altri confratelli. Prima di lasciarlo partire, le autorità lo condannano a pagare una multa di 30 sterline.

Rientrato in Italia, esprime ai superiori il desiderio di partire per la nuova missione del Congo (paese confinante con il Sudan), per assistere i profughi sudanesi che fuggono dalla guerra. Mentre attende, sostituisce il vecchio parroco ammalato. Grazie alla generosità dei compaesani, installa l’impianto elettrico delle campane.

Nel febbraio 1964 parte per il Congo ed è destinato a Rungu. Fa prima una veloce sosta a Ndedu, dove, grazie alla sua abilità di rabdomante, riesce a indicare ai confratelli alcuni posti dove scavare un pozzo.

A Rungu impara la lingua del posto, il bangàla, e comincia i suoi safari apostolici. Nel mese di luglio è già in piena attività, visitando un villaggio dopo l’altro, ora in bicicletta, ora in auto. Si cura anche dei registri parrocchiali. Ai familiari scrive: «Il tempo non mi basta mai. Siamo qui in due. I villaggi da visitare sono oltre 70. Abbiamo iniziato un lavoro che richiederebbe la presenza di molti missionari».

La guerra regna ovunque nel Congo, a causa dei ribelli simba. Prima di abbracciarlo per l’ultima volta, la mamma gli ha detto: «Perché, dopo essere uscito dal pericolo di morire in Sudan, vuoi andare in Congo, dove continuano a uccidere i bianchi?». La sua risposta: «Penso che se il Signore mi chiedesse di morire martire, sarei indegno di tale grazia».

Lui, però, è disposto a tanto, come ha dichiarato al superiore generale. Alla fine del 1964, arriva il momento dell’offerta eroica e non esita a compierla. Viene ucciso, con altri missionari, la sera del 1° dicembre sul ponte del fiume Bomokandi a Rungu: i simba gli sparano un colpo e gettano il suo corpo nell’acqua… in pasto ai coccodrilli.

L’unico superstite di quella sera è stato Fratel Carlo Mosca: ferito gravemente da una pallottola, si finge morto, si lascia gettare nel fiume e nuota con fatica verso la riva…

(Dalla serie “I Martiri” preparata a Verona da P. Romeo Ballan, 14.9.2010)