Date de naissance :
28/07/1936
Lieu de naissance :
Verona
Premiers vœux :
09/09/1957
Vœux perpétuels :
09/09/1963
Date de l’ordination :
28/06/1964
Date du décès :
14/01/2003
Lieu du décès :
Negrar/I
P. Bruno Novelli (28.07.1936 – 14.01.2003)
Figlio di Adriano, bigliettaio sulle filovie di Verona (ma era stato soldato in Libia e poi prigioniero negli Stati Uniti), e di Fontana Fiorina, casalinga e infermiera, Novelli Bruno era l’unico maschio in una famiglia dove c’erano due sorelle. Era nato in Via Campo Fiore, vicino alla casa dove era morto Don Nicola Mazza, nella parrocchia di S. Paolo in Campo Marzio, ma poi la sua famiglia ha cambiato molti posti. Il ragazzino è stato praticamente educato dai nonni verso i quali ha sempre avuto una grande venerazione. Al momento della sua entrata tra i Comboniani abitava in Borgo Venezia. La sua infanzia è stata tutta scuola, casa e chiesa. Sulle sue “carte” c’è scritto che era capogruppo aspiranti e chierichetto.
Un giorno del 1948 Bruno venne a sapere da un suo cugino che c’era un padre missionario che cercava ragazzi disposti a farsi missionari. Anzi il cugino, dopo le parole di P. Gino Sterza nella sua parrocchia, disse che si sarebbe fatto missionario. Ma quando andò a casa fu dissuaso dai suoi. Lo zio, incontrando il nipote Bruno, gli disse: “Quel matto di mio figlio voleva farsi missionario. Ti immagini?”.
“Allora ci vado io al suo posto”, rispose subito Bruno. E senza attendere oltre s’informò chi fosse il missionario che era stato nella parrocchia del cugino. In data 26 febbraio 1948, gli scrisse:
“Aff. mo Padre, ho sentito da mio cugino A. G. di Rotta di Caldiero che voi cercate dei bambini che abbiano la vocazione di andare missionari. Io questa vocazione l’avrei, ma non so cosa devo fare. Scrivetemi voi. Novelli Bruno”. E mise il suo indirizzo.
In data 20 marzo 1948 c’è una seconda cartolina: “Aff. mo padre missionario, ho ricevuto con molto piacere la vostra lettera in data 16 marzo 1948 e ho sentito che devo rispondere solo a tre domande. 1. Ti piace sul serio farti missionario? Sì. 2. Vuoi venire anche se non viene tuo cugino? Sì. 3. I tuoi genitori sarebbero contenti? Sì. Saluti infiniti da Novelli Bruno, dai miei genitori e dal mio curato don Angelo Corrado”.
In data 26 marzo 1948; Bruno scrisse nuovamente presentandosi: “Ho ricevuto con molto piacere la vostra cartolina e ho sentito che voleva tre risposte: Eccole. 1. Io ho 11 anni. 2. Frequento la quarta classe. 3. Ho due sorelle. Vi mando insieme a quelli dei miei genitori i miei migliori auguri di Buona Pasqua. Vi saluto affettuosamente. Vostro Bruno”.
P. Gino andò dal parroco. “Sì, sì – gli rispose costui – Bruno potrebbe diventare un bravo missionario. È di buona indole, di buona pietà e di buona intelligenza”. Il missionario interpellò anche il maestro di quarta. Questi disse che non aveva nessuna fiducia che Bruno potesse diventare sacerdote e missionario. Il parroco, venuta a sapere la sentenza del maestro, si affrettò a scrivere al missionario che non c’era da far troppo caso alle parole del maestro perché era “un Saragatiano e piccolo anticlericale, immaginarsi se favoriva le vocazioni sacerdotali!”. E Bruno si preparò a partire. Insomma, a quei tempi, il discernimento vocazionale non andava troppo per le lunghe.
Fai e Trento
Il viaggio da Verona a Fai della Paganella per “il mese di prova” venne fatto sul cassone del camion dei missionari, ben coperto dal tendone. Della quarantina di ragazzi che erano partiti da Verona, e che a Fai ne incontrarono altrettanti provenienti dal Trentino, ne rimasero tre quarti.
Due mesi dopo, coloro che erano stati trovati idonei ad iniziare la prima media si assiepavano sul marciapiede della stazione di Porta Nuova in attesa del treno che li portasse a Trento. L’unico vagone disponibile per loro che viaggiavano a prezzo ridotto era un carro bestiame. Saltarono su tutti allegramente, incoraggiati dalle parole di P. Gino Sterza. Chi scrive, si ricorda bene, perché c’era anche lui in quella squadra.
Bruno, con il suo cappellino bianco in testa, ma lo avevano tutti perché faceva parte del corredo, era in piedi sul carro e salutava con le due mani la mamma che, a sua volta, gesticolava e sparava raccomandazioni a raffica. Era piccolo e mingherlino il ragazzino, ma da quella posizione faceva la figura di un condottiero in miniatura. Ad un certo punto il bigliettaio disse: “Dentro che chiudo!” e afferrò il portellone per spingerlo verso il centro. A quel punto mamma Fiorina scoppiò in un pianto dirotto. Allora Bruno, mettendo le braccia nella posizione di chi sta per sparare col fucile, disse:
“Non sta mia piànsere, mama, se no te tiro na s-ciopetà”. Il papà di un altro di quei ragazzi, commentò: “Ecco cosa ti prendi dai figli!”. Per ammirare il paesaggio, quei ragazzi appoggiavano a turno l’occhio nei buchi che c’erano nella lamiera, provocati dalle pallottole delle mitragliatrici che avevano preso di mira i treni durante la guerra. E trovarono che quelle raffiche, dal loro punto di vista, erano state provvidenziali.
Bruno non aveva una “gran salute”. Frequentò la preparatoria e poi cominciò le medie. Il suo superiore, P. Giorgio Canestrari, ha scritto di lui: “Ha sofferto di polmonite, pleurite e di mastoidite da piccolo. È molto delicato. I medici dicono che sviluppandosi potrà normalizzarsi, ma non sarà mai un uomo da fatica”. Poi delineò anche il suo carattere. Il giudizio del primo superiore combacia con quello degli altri suoi formatori: “Le sue doti, che egli conosce molto bene, lo portano a quella certa aria di superiorità. Ma è buono di carattere, aperto, generoso ed ubbidiente. Essendo molto intelligente è aperto a tutto ed è desideroso di imparare. Qualche volta si perde dietro a tante cose come la musica e l’arte. Nonostante non abbia una gran salute, durante queste vacanze (1953) partecipò a tutte le gite ed era sempre in testa ai suoi compagni. È scalatore e fu in cordata sul ghiacciaio. Suo papà, che lavora nelle filovie di Verona, è un ammiratore dei missionari. La mamma è un tipo coraggioso e intraprendente. Per tirare avanti la famiglia è andata in Francia a fare l’infermiera”.
A Trento, a causa della poca salute, Bruno dovette perdere un anno tra il 1950 e il 1951 (frequentava la seconda media). Tornò dalla mamma che lo guarì e poi fu di nuovo a Trento per completare le medie. Per il ginnasio, passò a Brescia.
Abbiamo una nota del suo parroco, Don Giuseppe Cavalleri, che formulò un suo giudizio prima dell’inizio del noviziato. “Il suo comportamento durante le vacanze in famiglia è stato edificante, è sempre stato rispettoso e ubbidiente nei confronti dei sacerdoti. È un giovane che, secondo me, ha la ‘taglia’ del missionario. Mi pare un carattere forte e di quelli che non si perdono dietro a sciocchezze. Ha molto criterio e molta buona volontà. È fedele alle funzioni in chiesa e mostra interessamento e premura per le cose di Dio. Mi sembra contento della vita intrapresa ed è inclinato ad essa. Mi auguro, e vi auguro, che abbia a continuare”.
Verso il sacerdozio
Il 24 settembre 1955, entrò nel noviziato di Firenze e vi rimase per tutto il 1955 e parte del 1956, poi passò a Gozzano dove, il 9 settembre 1957 emise i primi voti.
In noviziato, perciò, ha avuto due padri maestri. Il primo è stato P. Francesco Cordero che lo trovò “dotato di un serio desiderio di progredire, di acquistare idee sode. Amante dello studio, della musica e dell’arte, è intelligente e riesce bene nei vari uffici essendo anche un uomo pratico. Sa tante cose ed è consapevole di saperle”.
P. Pietro Rossi, il secondo padre maestro, lo trovò “volitivo, deciso, duro nelle sue opinioni e piuttosto orgoglioso e cocciuto. Tuttavia potrà fare del bene se coltiva il suo carattere. Durante il noviziato ebbe di nuovo la pleurite”.
Dopo i voti, passò a Verona per il liceo che allora si teneva in Casa Madre. Dalle domande per la rinnovazione dei voti vediamo qualche raggio della sua spiritualità: “Sotto il manto di Maria, per amore di Cristo e delle anime, faccio domanda di rinnovare la mia professione religiosa” (1959). “Consapevole di essere sempre stato aperto con i superiori, considero la loro decisione come quella di Dio nei miei riguardi. Da parte mia è ferma volontà di dedicarmi al trionfo dell’Amore in me e nei miei fratelli in quegli uffici che l’Istituto riterrà opportuno affidarmi. Confidando solo in Dio e in Maria mia madre, mi raccomando alle sue preghiere” (1963).
I suoi superiori a Verona furono P. Igino Albrigo e P. Andrea De Maldè e, a Venegono Superiore, P. Giuseppe Bertinazzo. Nei loro giudizi seppero apprezzare le doti del futuro missionario, specialmente da un punto di vista intellettuale e di impegno nella vita religiosa.
Per l’ultimo anno di teologia, 1963-1964, tornò nuovamente a Verona insieme a metà della sua classe (dalla lettera G alla Z, mentre dalla lettera A alla F rimasero a Venegono). Venne ordinato sacerdote dal Card. Agagianian nel santuario della Madonna Pellegrina di Porta Nuova il 28 giugno 1964. Nella domanda di ammissione al sacerdozio scrisse: “L’unico scopo che mi spinge a ciò è il desiderio di spendere nel migliore dei modi la mia esistenza dandomi completamente al Signore per il bene di tutti ed in particolare dei pagani dell’Africa e di coloro ai quali l’obbedienza mi manderà”.
I Comboniani ordinati in quell’anno erano 46. Erano andati a farsi ordinare a Verona perché Verona, centro dei Missionari Comboniani, era stata ferita dall’espulsione in massa di tutti i missionari e le missionarie dal Sudan meridionale.
Dopo l’ordinazione, andò a Milano per frequentare l’Università Cattolica e si laureò in Lettere Moderne con la tesi in Antropologia “Ergologia ed Etnosociologia Lotuho (Sud Sudan)” 3 Vol. pp. 726. Dopo la laurea, essendo destinato all’Uganda, fu inviato in Inghilterra per lo studio dell’inglese. Vi rimase per i primi 6 mesi del 1971.
Studioso di lingue africane
Nel maggio del 1971 P. Bruno era in Uganda, nel West Nile. Sua prima destinazione fu la missione di Koboko nel distretto di Arua, tra i Kakua. E qui ebbe l’impegno di cappellano della Senior School. Fu un anno di rodaggio in cui imparò la lingua locale e cominciò ad inoltrarsi nei meandri degli studi etnografici sulle orme di illustri confratelli, primo fra tutti P. Pasquale Crazzolara.
Nel 1972 venne dirottato a Namalu, in territorio Karimojong, diocesi di Moroto, con lo scopo di approfondire la lingua e l’antropologia degli abitanti. Contemporaneamente si dedicò al ministero e allo studio sul lavoro missionario dei Comboniani in Karamoja.
Nel 1974 era a Naoi, sempre per approfondire gli studi sulla lingua, gli usi e i costumi dei Karimojong, e per il ministero. Mise mano ad una grammatica e a un dizionario karimojong. In una lettera dell’11 marzo 1979 scrive: “Per quanto dipende da me non intendo lasciare il lavoro della grammatica e dizionario per nessun motivo fino a quando non l’abbia completato. Le due interruzioni delle vacanze del 1976 e della morte della mamma nel 1977 sono state piuttosto pregiudiziali per il lavoro, dato che mi hanno praticamente obbligato a cominciare daccapo. Ora non vorrei mettermi in un’altra iniziativa obbligandomi così a ricominciare per una terza volta”.
In questi anni P. Bruno aveva lavorato molto. Una lettera di P. Vittorino Dellagiacoma ce ne indica alcune tappe: “P. Bruno Novelli, da circa 7 anni in Karamoja, ha compiuto uno studio basato soprattutto sui diari delle missioni della zona di Kangole. Dalle fonti ha rilevato che il lavoro tra i Karimojong è stato compiuto prevalentemente tra i giovani e che la carità ha assunto talvolta il colore di una pressione morale per la conversione.
È stato proposto di pubblicare il lavoro sul MCCJ Bulletin a uso interno dei Comboniani; si è visto, però, che è troppo vasto per rientrare nel tipo di articoli del MCCJ Bulletin e si è considerato la possibilità di stamparlo a parte, possibilmente dall’EMI. Nel frattempo copie del lavoro sono state sottoposte all’attenzione di alcuni confratelli che lavorano in Karamoja e sono stati chiesti i loro commenti. I commenti rilevano che lo studio è piuttosto critico a riguardo dei missionari passati e perciò è ritenuto unilaterale. Alcuni di questi commenti (P. Michele Rosato, P. Giuseppe Garavello, P. Antonio La Braca) verrebbero pubblicati insieme al lavoro di Novelli per dare una visuale completa dell’apostolato in Karamoja”.
Segretario Generale dell’Evangelizzazione
Rimase a Naoi fino al 1980, anno in cui fu chiamato a Roma per diventare segretario generale dell’evangelizzazione. Il suo nuovo ufficio lo portò a visitare molte missioni e ad entrare in relazione con molti missionari. In questo modo la sua conoscenza delle missioni, dei problemi inerenti all’attività missionaria e della Chiesa si dilatò e si approfondì notevolmente. Il Superiore Generale, P. Salvatore Calvia, gli scrisse: “Sono certo che avrò in te non solo un collaboratore, ma anche un amico”. P. Bruno rispose: “Farò del mio meglio per dare il contributo che mi si chiede per rendere la nostra Famiglia sempre più conscia delle aspettative che il Signore ha per essa. Può certamente contare sulla mia disponibilità e sull’attaccamento alla mia vocazione. Per la competenza… non so proprio cosa dire”.
P. Bruno si applicò al suo ufficio con tutto l’impegno possibile. Ma quasi subito cominciò ad entrare in una specie di crisi di identità. Non sua, ma dell’Istituto in confronto al tipo di lavoro apostolico che la stessa portava avanti. Si è trattato di un cosa serena, ragionata, ma decisa. Risale a questo periodo una sua “Riflessione personale sul numero 13 della Regola di Vita”.
Il succo di quattro fitte pagine dattiloscritte è il seguente: secondo la Regola 13 il fine dell’Istituto è “attuare la missione evangelizzatrice della Chiesa tra quei popoli o gruppi umani non ancora o non sufficientemente evangelizzati”.
A P. Bruno quel “non sufficientemente evangelizzati” non andava giù. Egli era persuaso che il fine di un Istituto missionario “nato in missione e per la missione” era quello di evangelizzare i non cristiani. Quindi la priorità da salvaguardare nei contratti con i vescovi era quella, per il Comboniano, di poter far l’annuncio ai non cristiani che per lui si identificavano con l’ad gentes. Se si accetta il “non sufficientemente evangelizzati”, si giustifica l’attività del Comboniano anche nella Chiesa italiana (quanti ce ne sono di non sufficientemente evangelizzati!) e allora dove va a finire il carisma di Comboni che si dirigeva ai più poveri e bisognosi di fede, prima di tutto, perché nessuno gliela aveva mai portata?
In base a questo ragionamento non si giustificava la presenza dei Comboniani neanche in America latina dove la fede era stata portata da secoli. Un giorno P. Bruno parlando con un confratello che veniva dal Messico, per spiegare meglio il suo concetto di missione ad gentes, gli disse: “Tu non sei un missionario come intendeva Comboni, tu sei un sacerdote che è andato ad aiutare una Chiesa sorella. Buona cosa, intendiamoci, ma non è secondo il carisma di Comboni”.
Non si poteva non essere d’accordo con lui su alcuni principi metodologici. Ma quando si guardava alla realtà della missione e dell’Istituto, sempre piuttosto complessa per l’ambivalenza dei problemi e delle persone, ci si accorgeva che le sue prospettive peccavano forse di una certa ideologia e non avevano molta incidenza sulla realtà. Ma il suo carattere aperto e gioviale era soddisfatto, quando poteva esprimere ciò che pensava. Diceva: “Io ho detto quello che penso”, e sembrava insinuare: “Ora tocca a voi superiori o confratelli metterlo in pratica”.
Questo problema, tuttavia, lo “perseguitò” per tutta la vita. Sul MCCJ Bulletin sono apparsi alcuni lunghi articoli, e ai Superiori Generali che si sono susseguiti ha scritto molte lettere per spiegare il concetto che aveva in cuore e al quale lui credeva sul serio. Quando la morte lo colse, stava preparando un’ulteriore chiarificazione da presentare al Capitolo Generale. Come è facile immaginare, questa sua posizione lo mise in contrasto con tanti confratelli che la pensavano diversamente.
Il 12 luglio 1982 diede le dimissioni da segretario dell’evangelizzazione… “desidero assicurare lei e i confratelli del Consiglio Generale che la mia attività di questi due anni non ha avuto altro fine che rendere il nostro servizio di evangelizzazione in Africa e in America latina sempre più conforme al dettato e allo spirito della nostra Regola di Vita. Da come sono andate le cose in questi ultimi mesi, ho capito che la differenza tra quello che mi si chiedeva come responsabile di questo ufficio e quello che in coscienza sentivo di proporre, non solo non avevano modo di conciliarsi ma creavano incomprensioni e malessere…”.
“Nonostante qualche piccola divergenza – gli rispose il Superiore Generale – ho apprezzato molto il tuo lavoro, il tuo impegno e la tua dedizione… Io spero che la tua collaborazione per chiarire il senso della missione, e forse anche per fare delle proposte concrete al prossimo Capitolo Generale, non ci mancherà. Assegnandoti all’Uganda come desideri, ti esprimo la mia grande stima e la mia grande amicizia e un vero senso di gratitudine per quanto hai fatto”. P. Franco Masserdotti e P. Luciano Franceschini assunsero ad interim l’incarico.
Far causa comune con la gente
Nell’aprile del 1983 P. Bruno era a Matany, dedito al ministero. Egli pensava di dar vita ad un centro culturale che potesse aiutare i missionari ad inculturarsi nel contesto africano ma, per il momento, i tempi non erano maturi. Intanto la salute cominciò a creargli dei problemi: forti mal di testa, perdita di forze, circolazione carente e una strana ansia per la gente che amava davvero: “Basta che non piova e che i campi comincino a seccare, che mi prende una ansietà tale da non riuscire a far più niente. Incomincio a pensare a cosa capita alla gente che resta senza raccolto. ‘Padre, non piove; padre, ci sarà la fame; padre, cosa mangeremo?’. Ma i problemi non sono solo di pioggia: gli spari di notte e di giorno, i banditi sulle strade, ammazzamenti e ruberie fuori e dentro la porta di casa; violenza da parte dei Karimojong e contro-violenza da parte dei soldati del governo…”.
Insomma P. Bruno si era fatto solidale con il suo popolo, e le sofferenze della gente diventavano le sue sofferenze. “Sono un uomo da tavolino, nonostante tutto – scrisse nel 1986. - Sono un po’ predisposto a studiare, a ricercare e la mia preparazione scientifica è nel ramo dell’etnologia a servizio dell’apostolato missionario. Come consigliere provinciale e superiore e parroco di Matany si può trovare un altro che farebbe certamente meglio di me. Quanto al centro culturale, è una specie di barzelletta. In questo Centro è già tanto se sono riuscito, tra un impegno e l’altro, ad organizzare alcuni corsi di lingua e a raccogliere un po’ di materiale (libri, articoli, ecc.) in un locale provvisorio a Naoi, perché la diocesi non ha un posto per il momento per questo scopo”.
In questi anni P. Bruno aveva dato alle stampe alcuni suoi lavori, frutto di tanto studio e di accurate ricerche. Nel 1980 l’EMI pubblicò “Pastorale missionaria nuova”, pp. 148. L’Università di Colonia, nel 1985 editò “A Grammar of the Karimojong Language” pp. 541; nel 1987 il Museum Combonianum N. 43, pubblicò “Small Grammar of the Karimojong Language”, pp. 223; nel 1989 l’EMI pubblicò “Aspects of Karimojong Ethnosociology”, pp. 214; nel 1990 per il giubileo della diocesi di Moroto vide la luce “A man went out to sow his Seed”, pp. 88.
P. Bruno ha pubblicato molti articoli sui Karimojong e sull’attività dei missionari su varie riviste. Ricordarli tutti è un’impresa difficile. Comunque ne ricordiamo alcuni apparsi su Nigrizia: L’orizzonte è nostro, In guerra per vivere, Lo scambio dei doni, Naciribwa la bella, Un popolo rifiutato, i Karimojong, Aliò e la zucca, Naipeikisinà, I Cobas ad Gentes, Al pascolo della Tradizione.
Verona, Uganda, Kenya
Nel 1987 P. Bruno era a Verona. Il provinciale d’Italia gli propose di diventare membro della redazione di Nigrizia. “Io, però, spero di tornare presto in missione. Io non ho la salute per prendere il posto di Alessandro Zanotelli che presto parte per la missione, e credo che P. Elio Boscaini farà altrettanto tra poco. Con la mia salute non mi sento di assumere una responsabilità così grande e poi ci sono anche delle tensioni sulla linea da dare alla rivista. Io collaborerei volentieri dall’esterno”, scrisse il 2 marzo 1987.
L’anno dopo era nuovamente a Moroto come superiore locale e incaricato del Centro Pastorale. Vi rimase fino al 1992 e lavorò ancora molto sulla retta interpretazione della Regola di Vita e del carisma di Comboni, con un serie di articoli e di conferenze. “Una volta la geografia aiutava a tirare una linea tra missione e non-missione. Oggi non è più così – gli rispose P. Francesco Pierli. – mentre nel 1979 non riuscimmo a mettere nella regola di Vita la parola ad gentes, perché sembrava una cosa superata, ora è ritornata in voga. Il nostro punto di riferimento è Comboni e la sua esperienza…”.
Nel 1993 P. Bruno fu inviato in Kenya per dedicarsi alla pastorale dei nomadi. Egli, di nomadi, se ne intendeva bene visto che aveva passato gran parte della vita missionaria in mezzo a un popolo di nomadi e di pastori. Come sede gli fu assegnata la casa provincializia a Nairobi. P. Fernando Colombo scrisse nel marzo del 1995: “Il tuo lavoro di ricerca e catalogazione, redazione e attenzione alle fonti per il lavoro missionario che hai portato avanti qui a Nairobi è insostituibile, Non è un servizio immediatamente apparente e non è ancora sentito dai molti confratelli, ma è essenziale per la missione…”.
Le sofferenze dello spirito
Una settimana prima, P. Bruno aveva scritto al suo provinciale aprendogli l’anima. Gli disse che la salute cominciava nuovamente a perdere colpi. “Ai mali vecchi se ne aggiungono di nuovi (diabete, prostata, circolazione, anemia…). Purtroppo il mio aspetto florido, il mio sforzo per mostrarmi gioviale trae in inganno sulle mie reali possibilità ed alcuni confratelli hanno manifestato ai superiori il loro disappunto che il sottoscritto non si dia da fare un po’ di più. Questo è per me l’aspetto più umiliante della faccenda. Che cosa posso fare? Devo spiegare ad ognuno la situazione in cui mi trovo?
Non sono mai stato un colosso di salute, nonostante le apparenze, ed ora cominciano a farsi sentire piuttosto pesantemente le conseguenze di un forte scossone al mio sistema nervoso causato dai tre attacchi notturni di banditi armati che ho avuto a Naoi nel giro di un mese o due, quando mi trovavo in casa da solo, perché il Toni (P. Antonio La Braca) era in safari. Questo è capitato nel lontano 1976, e da allora, ogni più piccolo rumore mi fa saltare per aria.
Dormo pochissimo di notte e continuo a svegliarmi di soprassalto… Io accetto la mia situazione e sono disposto a fare quello che le mie forze mi permettono di fare, ma questo non sembra bastare agli altri. Ho per le mani alcuni lavori abbastanza impegnativi come: La storia della Provincia, la Catalogazione della biblioteca provinciale, il Libro sulla Religione tradizionale dei Karimojong, inoltre provvedo materiale di documentazione per i confratelli che lavorano tra le popolazioni pastorali del Nord (Borana, Turkana, Pokot) e devo preparare dei corsi di aggiornamento per i nostri...
Al “Besta” di Milano hanno tirato fuori la parola stress come causa della mia situazione. Gli stress non sono mancati, inoltre nel fondo del mio animo c’è una certa ribellione nel vedere come le cose vanno nel mondo dell’evangelizzazione, nel nostro servizio missionario. È da tanto tempo che mi occupo di questi argomenti; ho cercato di sensibilizzare i confratelli e i superiori, ho scritto, mi sono anche arrabbiato qualche volta per salvaguardare il nostro carisma, perché fossimo degni figli di Comboni, ma con pochi risultati.
A 30 anni dal Concilio il problema del dialogo, dell’inculturazione ha riempito le biblioteche di libri. Si è parlato molto ma quanti in concreto sanno di che cosa si tratta veramente, da che cosa si parte, dove si vuole arrivare. Ho dato le dimissioni da Segretario dell’Evangelizzazione quando ho capito che ciò che si voleva da me era ‘accademia’ invece dei ‘fatti’ di cui le nostre missioni avevano ed hanno bisogno. Tutto questo porta in me un certo scoraggiamento, tuttavia trovo ancora la forza di sorridere, di apparire sereno…”.
Questa lettera dimostra una volta di più che P. Bruno era un missionario molto identificato con Comboni, col suo carisma e con i Missionari Comboniani. Indubbiamente era un uomo di studio, un intellettuale, forse un po’ idealista, ma estremamente sincero e desideroso del vero bene delle anime, della Chiesa, dell’Istituto. L’esperienza missionaria pastorale più significativa, a cui sempre faceva riferimento, fu quella fatta con P. Antonio La Braca nella parrocchia di Naoi alla periferia di Moroto. Parlava di quell’esperienza che lo portò a contatto con le persone nel loro ambiente con un certo romanticismo e idealismo, come esperienza pilota tra i Karimojong dei quali divenne amico e fratello, sfidando l’approccio tradizionale considerato troppo paternalista.
Aggiungiamo che alle sofferenze sopra accennate, se ne aggiungevano anche da parte della sua famiglia. I genitori e una sorella erano morti in relativa giovane età. Gli restava una sorella, seriamente ammalata e semiparalizzata che si muoveva sulla sedia a rotelle. P. Bruno ripeteva spesso: “I miei sono morti tutti in giovane età, anch’io non avrò una vita lunga”.
Una fine inattesa
Dal 1995 al 1999 P. Bruno andò a Verona nell’équipe di Nigrizia. La domenica andava nella parrocchia di Santa Maddalena, dove vive la sua unica sorella ormai paralizzata, a prestare il suo ministero sacerdotale. Si fece benvolere dalla gente che era edificata dal suo zelo sacerdotale-missionario. Nel 1999 fu inviato nuovamente in Uganda come superiore e addetto al ministero della missione di Moroto. Nel 2002 tornò a Verona e poi fu dirottato nella comunità di Brescia per terminare nello studio e nella tranquillità il dizionario Karimojong.
Per il Natale 2002 inviò una e-mail al suo provinciale dicendo che non si sentiva molto in forza, con poca energia per continuare il suo lavoro. Pochi giorni prima della morte scrisse a P. Damiano Guzzetti a Matany e, tra l’altro, gli disse che gli mancava il taaba (tabacco) karimojong, che annusava con gusto. Gli chiese di fargliene avere un po’ mediante qualche confratello che sarebbe rientrato in Italia.
A Brescia, la presenza di P. Bruno voleva dire “missione”. A tavola o parlando con i confratelli, gli unici argomenti concernevano la missione. Ultimamente, mediante internet, poteva seguire tanti avvenimenti africani, di Chiesa, di politica e di economia. Egli condivideva queste sue conoscenze con i confratelli con il suo parlare gradevole e convincente. Ricordava i confratelli e gli episodi di missione, e mai si è sentito una parola di critica su uno o sull’altro. Sembrava l’uomo più sereno del mondo, sempre contento, con la battuta arguta e allegra, innamorato della sua Verona, come città e come squadra di calcio (per la quale faceva qualche fioretto) perché vincesse. Era legato anche alla sua famiglia. Aveva espresso ai confratelli che, in caso di morte, avrebbe desiderato essere sepolto a Verona accanto ai suoi genitori. Sempre più spesso si lamentava di un doloretto alla pancia. I confratelli gli dicevano di farsi visitare da qualche bravo medico. Egli diceva: “Sì, sì, appena ho sistemato un certo lavoro che mi preme”.
Domenica 12 gennaio, guidando personalmente l’auto, è andato a Verona per celebrare la Messa nella parrocchia di Santa Maria Maddalena, ha fatto l’omelia e tutto è andato bene come sempre. Lunedì mattina, 13 gennaio, è entrato all’ospedale di Negrar per sottoporsi ad alcuni esami che sarebbero cominciati la mattina del 14. Ma durante la notte tra il 13 e il 14 si è sentito male ed è morto per infarto intestinale.
I funerali nella sua parrocchia hanno dimostrato quanto fosse stimato dalla gente e dai sacerdoti. I concelebranti erano una sessantina, i fedeli gremivano la chiesa; il parroco, Don Giovanni Zocca, presentando la figura di questo missionario, “uomo di studio, che aveva rapporti con le università e con studiosi di mezzo mondo, sacerdote integerrimo e zelantissimo, eppure di una modestia e di una semplicità incredibili”, era commosso fino alle lacrime.
Il vice provinciale dei Comboniani ha sottolineato i tre amori di P. Bruno: l’amore alla vocazione nella quale si è sentito identificato; l’amore alla missione, che lo ha portato a sentirsi parte del popolo al quale è stato mandato; l’amore all’Istituto che ha cercato di arricchire con l’apporto dei suoi studi e di far conoscere a livello delle Università. “Come Comboni – ha concluso il vice provinciale – P. Bruno è vissuto per la missione ed è morto per la missione. Pur avendo tanto sofferto a causa delle guerre che hanno insanguinato l’Uganda, ha sempre parlato con gioia e in termini positivi del popolo africano”.
Hanno parlato anche dei laici esprimendo ammirazione e stima per un sacerdote totalmente donato alle anime, specialmente ai poveri, ai malati, agli anziani. La comunità di Brescia ha sentito il vuoto lasciato da questo confratello che sapeva rendere gradevoli le ricreazioni ed era accogliente e gentile.
È un fatto che, con la morte di P. Bruno Novelli, l’Istituto Comboniano ha perso un insigne linguista e antropologo, un appassionato di Cristo e di Comboni, un missionario identificato con la missione, che sapeva ridere delle piccole gioie, della convivialità, dell’amicizia. Ora lo immaginiamo nel grande villaggio in cui egli aveva individuato la fede dei Karimojong nell’al di là. P. Lorenzo Gaiga, mccj