Sabato 12 ottobre 2024
La cooperazione allo sviluppo dei Paesi più svantaggiati (africani in primis), da sempre una sfida di civiltà mai affrontata con effettiva determinazione dai Paesi più ricchi, è oggi in una fase di ulteriore arretramento rispetto al passato. Eppure stiamo parlando di uno strumento indispensabile alla causa della pace. Peraltro, l’attuale congiuntura internazionale è tale per cui a pagare il prezzo più alto sono i ceti meno abbienti che costituiscono in molti casi la stragrande maggioranza delle popolazioni. [Foto: ComboniPress. Testo: P. Giulio Albanese – L’Osservatore Romano]

In linea di principio qualsiasi organismo — poco importa se religioso o civile — dovrebbe impegnarsi nel salvare vite umane, non solo in situazioni emergenziali, ma sempre, garantendo l’accesso ai servizi di base; contribuendo a una crescita economica sostenibile; favorendo l’istruzione; proteggendo l’ambiente e contrastando i cambiamenti climatici; promuovendo la pace e rafforzando la tutela dei diritti umani, la democrazia e lo Stato di diritto. Questi sono obiettivi irrinunciabili.

Ma la cooperazione allo sviluppo sotto questo aspetto costituisce una priorità negata e un’evidente vittima delle grandi crisi che hanno impresso una notevole mutazione al contesto internazionale negli ultimi anni. Le conseguenze della pandemia da covid-19, la crisi russo-ucraina, i venti di guerra che imperversano in Medio Oriente, la crisi energetica, l’insicurezza alimentare, il peso del debito pubblico, l’inflazione e il global warming hanno avuto e continuano ad avere un impatto diretto sui Paesi in via di sviluppo.

I numeri parlano da soli: le persone che vivono in condizioni di estrema povertà sono aumentate nuovamente per la prima volta in 30 anni. Inoltre, il numero di quanti dipendono dagli aiuti umanitari, oggi pari a 339 milioni, è nettamente superiore rispetto al 2019. In Ucraina, per fare un solo esempio, la guerra ha provocato lo sfollamento di oltre un terzo della popolazione locale. E gli ultimi dati a livello mondiale alla fine del 2023 — già superati per le diverse guerre tuttora in atto e pressoché dimenticate dalla stampa e dalle opinioni pubbliche — riferivano che rifugiati all’estero e sfollati interni erano ormai oltre centodieci milioni.

Eppure, in risposta agli attuali cambiamenti di paradigma, in un mondo sempre più instabile, la cooperazione internazionale potrebbe e dovrebbe rappresentare uno degli antidoti contro gli oscuri presagi del nostro tempo. S’impone, infatti, la creazione di un ordine internazionale pacifico e giusto, condizioni quadro economiche stabili e favorevoli agli investimenti, la riduzione delle cause dello sfollamento forzato e della migrazione irregolare e lo sviluppo sostenibile globale. Il continente africano, da questo punto di vista, è il primo, giustamente, ad esigerlo.

Sebbene la guerra che insanguina l’Europa orientale e le sue conseguenze occupino un posto di rilievo nella strategia messa a punto dai donor internazionali, la tradizione umanitaria e gli interessi della cooperazione di matrice cattolica e non solo richiedono un impegno anche nel resto del mondo, particolarmente nell’Africa subsahariana.

Rimane il fatto che per operare oggi all’interno di una organizzazione non governativa (ong) o di altri enti attivi nella cooperazione internazionale non basta essere specializzati nello sviluppo sostenibile, nella sicurezza alimentare, nel sostegno ai sistemi sanitari pubblici, nella protezione dei minori, nell’emancipazione femminile ecc. Qui si tratta di capire che occorre andare al di là di quanto richiesto dalle tradizionali figure professionali, quelle cioè che sappiano occuparsi di scrivere progetti, gestire fondi e finanziamenti, controllare l’implementazione di specifiche iniziative sul campo, intervenire in situazioni di emergenza, coordinare piani di sviluppo. Nei corsi universitari di laurea magistrale in cooperazione internazionale questa sembra essere in molti casi la principale preoccupazione sia degli studenti sia dei docenti.

Anzitutto e soprattutto s’impone l’educazione all’advocacy partendo dal presupposto che i progetti serviranno a poco o niente se non verranno accompagnati da un impegno qui in Europa e più in generale nei Paesi industrializzati nel sostenere iniziative di contrasto ai meccanismi sistemici che determinano e acuiscono la miseria nelle periferie geografiche ed esistenziali del nostro tempo a partire dalla
vexata questio del debito pubblico. Paradossalmente, da quando si è scatenata la crisi finanziaria globale, i Paesi poveri (in primis quelli africani) hanno sostituito il debito multilaterale a basso costo e lungo termine con un debito verso creditori privati — assicurazioni, banche, fondi di investimento, fondi di private equity — molto più oneroso e a breve termine. Ecco che allora il debito è stato letteralmente finanziarizzato con il risultato che il pagamento degli interessi è stato inscindibilmente legato alle attività speculative sui mercati internazionali. Questo ha comportato costi di servizio del debito e rischi di rifinanziamento più elevati con il risultato, ad esempio per l’Africa, che la cifra assoluta del debito ha raggiunto i 1.140 miliardi di dollari. Si tratta di un valore assoluto certamente inferiore a quello delle economie avanzate. È però una cifra debitoria elevata se raffrontata al valore complessivo del Pil africano che è di poco più di 3 trilioni di dollari.

È evidente che di fronte a questo scenario occorre mantenere l’attenzione internazionale sulla necessità di trovare una soluzione, vista la fragilità in cui versano varie economie nazionali dei Paesi svantaggiati nel contesto odierno. Infatti, l’impennata dei tassi d’interesse a livello globale rende sempre più difficile la ricerca di fonti di finanziamento alternative per molti Paesi africani che stanno testando i limiti della capacità dei propri mercati nazionali per ovviare alla mancanza di fondi internazionali.

Qui le responsabilità ricadono sia sulle classi dirigenti locali, ma anche sulle stesse istituzioni finanziarie internazionali, le quali pretendono che le concessioni per lo sfruttamento delle materie prime, unitamente alle privatizzazioni (soprattutto il land grabbing, vale a dire l’accaparramento dei terreni da parte delle aziende straniere) vengano attuate «senza se e senza ma», per arginare il debito. Si tratta di un affare colossale essendo, in genere, le monete locali fortemente deprezzate.

È evidente che, se la cooperazione internazionale non denuncia nelle sedi opportune questi misfatti, le opere sul campo sortiranno nella migliore delle ipotesi un effetto palliativo.

L’advocacy naturalmente può essere estesa anche su altri versanti. Emblematico è il caso relativo ai finanziamenti da parte dei governi benestanti. Infatti, il 24 ottobre 1970, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite adottò una risoluzione che recitava: «Ciascun Paese economicamente avanzato aumenterà progressivamente la propria assistenza ufficiale allo sviluppo a favore dei Paesi in via di sviluppo e farà del suo meglio per raggiungere un importo netto minimo dello 0,70 per cento del proprio prodotto nazionale lordo ai prezzi di mercato entro la metà del decennio».

Purtroppo, dopo oltre cinquant’anni, pochi Paesi hanno raggiunto quel traguardo: per prima la Svezia nel 1974, seguita dalla Olanda, dalla Norvegia, dalla Danimarca e dal Lussemburgo. Nessun altro Paese lo ha rispettato e la media di quelli firmatari non è mai stata superiore allo 0.50 per cento del Pil.

Questo è un campo sul quale essere militanti sia come cittadini sia come cattolici. Ma attenzione: l’advocacy non può essere disgiunta dal lobbying inteso come modalità operativa di un gruppo organizzato di ong che cerca di influenzare con varie strategie dall’esterno le istituzioni per favorire gli interessi dei Paesi del cosiddetto Global South (Sud Globale). Perché ciò sia possibile è necessario imparare a fare sistema, evitando d’essere navigatori solitari.

Una cosa è certa: come ebbe a dire Papa Francesco ricevendo il 16 marzo 2019 la Cooperazione di Confcooperative: «Il “miracolo” della cooperazione è una strategia di squadra che apre un varco nel muro della folla indifferente che esclude chi è più debole».

P. Giulio Albanese – L’Osservatore Romano