Geovedì 20 dicembre 2018
L’Istituto comboniano fa uso dei beni «per raggiungere la sua finalità missionaria» (RdV 162), che i suoi membri realizzano, partecipando attivamente alla missione della Chiesa al mondo, attraverso il servizio all’uomo e la testimonianza della loro consacrazione nella vita comunitaria (cfr. Preambolo della RdV). In conclusione, appare chiaro che il servizio del missionario secondo la Regola di Vita è totalizzante, non lascia spazio a interessi individualistici; esso richiede “una disponibilità totale, una vita a piena disposizione, senza calcoli e senza utili».

L’AMMINISTRAZIONE DEI BENI DELL’ISTITUTO
Regola di Vita, Parte Quinta, nn. 162-165

Sommario

I. Un’amministrazione a servizio della Missione dell’Istituto nella Chiesa:

1. Il «servizio» nel Concilio Vat. II:

a). Servire. Servo. Servizio

b). Ministero. Ministri. Ministerialità.

2. Il «servizio» nella nostra Regola di Vita

II. Principi ispiratori dell’amministrazione dei beni nella nostra Regola di Vita: nn. 162-175

III. Icone da cui nascono i principi guida per una “gestione carismatica e comunitaria dei beni” nell’Istituto:

A.- Il Povero di Nazaret: identificati con Cristo povero.

B.- Maria di Nazat, l’ancella del Signore.

C.- I Dodici in missione con equipaggiamento leggero.

D.- La guarigione dello storpio alla porta del Tempio.

C.- La prima comunità di Gerusalemme:

1. L’insegnamento degli Apostoli.

2. La Koinonia (comunione fraterna).

3. La frazione del pane.

4. Le preghiere.

5. Simpatia di fronte al popolo.

6. Insidie contro la vita della comunità di Gerusalemme:

6.1. Il caso di Anania e di Saffira.

6.2. Il caso di Èutico, il pericolo di vivere un po’ dentro e un po’ fuori della comunità.

D.- Il Cenacolo-comunità, nato dall’ispirazione di san Daniele Comboni.

E.- San Daniele Comboni, “tutto povero” consacrato “servo dei poveri negri nella povera Africa centrale”:

1. “Vengo da Limone…”

2. L’Omelia di Khartum: Inno dell’amore sponsale di Comboni per la Nigrizia, vissuto in povertà ed obbedienza.

3. La fiducia di Comboni in san Giuseppe, “tipo” dell’uomo credente, che incarna il mistero della Provvidenza divina.

Appendice:

A.- Tracce per la riflessione personale e la condivisione.

B.- Traccia di studio e riflessione guardando al cammino della Congregazione e al tuo cammino personale di formazione, finito di recente o molti anni fa.

- Credo comboniano

I.

Un’amministrazione a servizio della Missione dell’Istituto nella Chiesa

1. Il «servizio» nel Concilio Vat. II

La Chiesa nel Concilio Vat. II prese coscienza del fatto che è « un mistero di comunione» e «sacramento universale di salvezza». In conseguenza di ciò, fu riscoperta «la spiritualità del servizio» o «lo spirito di servizio», che si può considerare uno dei frutti caratteristici del Concilio Vat. II.

La concezione della vita e dell’apostolato della Chiesa come «servizio» fu adottata dal Vat. II, facendo di essa vastissimo uso per chiarire sia la posizione, la funzione e l’attitudine della Gerarchia in relazione al Popolo di Dio, sia la posizione, la funzione e il comportamento di tutti i membri della Chiesa tra di loro e in relazione all’intera famiglia umana. Questa posizione presa dal Concilio merita tutta l’attenzione e non può rimanere insabbiata, giacche la sua importanza è estrema, sia per la vita interna della Chiesa, sia per la realizzazione della sua missione nel mondo di oggi.

Nella Chiesa, Corpo Mistico di Cristo, il dovere di tutti è il «servizio», che garantisce la dignità e l’uguaglianza di tutti davanti al Capo, che è Gesù Cristo Signore, e nello stesso tempo permette la necessaria distinzione o esercizio di funzioni in vista della costituzione di questo stesso Corpo, le cui dimensioni non conoscono limiti o barriere (LG 32).

Per introdurci in questa visione della vita e dell’apostolato della Chiesa come «servizio», è utile chiarire il termine «servizio» secondo il pensiero biblico che è quello adottato dal Concilio stesso.

a). Servire. Servo. Servizio

Servire” è una parola latina che indica l’essere a disposizione di qualcuno.

Servus era lo schiavo (da sclavus, cioè senza le chiavi di casa); poi, pian piano, è diventato anche sinonimo di “domestico” (da domus, casa) o anche “maggiordomo”(da major in domo, cioè colui che presiede alla vita della casa.

In poche parole, servire è sempre stato un sinonimo di sudditanza, più o meno sofferta ma sudditanza (Don Romano Nicolini).

A volte queste parole hanno anche nella Bibbia un significato analogo a quello di schiavo, schiavitù (Gal 5,13; Ef 6,5-8). In questi casi si allude a lavori e situazioni particolarmente duri tipici del mondo antico.

Caratteristico della Bibbia, però, è il senso religioso dato a questi termini. Servire Dio è obbedirgli, essergli fedeli, tributargli il culto, adorarlo (Gs 24,14-22). Servire gli uomini è considerarli come fratelli ed essere disponibili per loro, è mettersi sempre a loro livello, condividere i loro problemi e aiutarli a superarli. Gesù Cristo si presentò come supremo modello di servizio (Mt 20,28; Gv 13,12-16; Fil 2, 6-11), sottolineando inoltre che serviremo bene Dio solo se serviamo gli uomini con totale disinteresse e dedizione.

Servo di Dio è un titolo che la Bibbia dà a personaggi che hanno un rapporto particolare con Dio: patriarchi, capi del popolo, profeti, sacerdoti, re; anche a personaggi non israeliti come Nabucodònosor o Ciro. In modo particole tutto il popolo di Israele è denominato servo di Dio (Is 41,8; 44,21). Vi sono soprattutto quattro poemi del Deuteroisaia che hanno come protagonista un misterioso servo del Signore (Is 42, 1-7; 49,1-7; 50,4-9; 52,13-53,12). Chi è questo servo? Un personaggio concreto del passato o del futuro?. In ogni caso, la comunità cristiana riconobbe nei tratti di questo servo una prefigurazione di Gesù di Nazaret (Mt 12,15-21; At 3,13.26).

b). Ministero. Ministri. Ministerialità.

Con i termini “servire, servizio, servo” sono collegati i termini “ministero, ministro, ministerialità”.

Con queste voci la Bibbia allude qualche volta alla persona che esercita una funzione pubblica, oppure alla funzione stessa. In questo senso si potrebbero usare vocaboli più o meno equivalenti, come: cortigiano, funzionario, eunuco (Gn 39,1; 45,6; Es 7,10; Est 1,10; At 8,28). Tutte queste parole si riferiscono all'idea di servizio; per indicare un servizio di predominante carattere religioso è preferibile usare ministero (At 1,17-25; 2 Cor 6,3-4), mentre le persone che lo esercitano in una comunità come responsabili e animatori sono generalmente dette ministri (Is 61,6; Gl 1,9; 2 Cor 11,23). Nelle primitive comunità cristiane esisteva una grande pluralità di servizi e ministeri, che si adattavano alle necessità di ogni epoca (1Cor 12,4-30; 1Tim 3, 8-13; 5,17-19). Questa ampia gamma di servizi o ministeri costituisce la ministerialità della Chiesa.

La Chiesa del Concilio Vat. II ha avvertito la necessità e l'urgenza di riscoprire il pluralismo delle forme ministeriali, di cui era ricca e che per vari motivi erano cadute in oblio. La Chiesa si riscopre così tutta ministeriale, popolo sacerdotale, che esercita i ministeri in forza del sacerdozio battesimale-cresimale (cfr. Lumen Gentium 10). Nella Chiesa-comunione, tratteggiata dal Concilio, ogni “pietra vivente” concorre con il suo “specifico” alla costruzione del Regno di Dio già a partire da questa terra.

La ministerialità, per tanto, altro non è che la risposta ad una grazia particolare che ogni cristiano riceve per esercitare il suo servizio-ministero nella comunità: “A ciascuno di noi è stata data la grazia, secondo la misura del dono di Cristo” (Ef 4, 7).

Per noi Comboniani la grazia-ministero a cui siamo chiamati a rispondere nella Chiesa-comunione è l’evangelizzazione, assunta con radicalità sull’esempio di san D. Comboni, fino a divenire la ragione della nostra vita (cfr. RdV 2-5; 56).

In questa prospettiva, i partecipanti al 1500 Anniversario dell’Istituto, nel “Messaggio conclusivo ai confratelli”, sul tema della ministerialità annotano:

«I nuovi contesti sociali ci invitano con urgenza a rivedere la nostra ministerialità. Oggi abbiamo bisogno di essere meglio qualificati in diversi campi dell’evangelizzazione, lavorando in equipe con tutti i soggetti della famiglia comboniana e della chiesa locale. La ministerialità non basta se non è fondata sulla passione di Cristo per l’umanità» (Roma 26 maggio-1giugno 2017).

2. Il «servizio» nella nostra Regola di Vita

Nella nostra Regola di Vita, nata sulla scia del Concilio Vaticano II, il «servizio» e il conseguente «spirito di servizio» o mentalità solidale e ministeriale è “il filo d’oro” con il quale è tessuto l’intero testo di essa.

Il termine «servizio» appare già nel Preambolo, che possiamo considerare come il «Credo missionario comboniano», cioè, l’atto di fede della Congregazione nella missione che la Chiesa riceve da Cristo, e che l’Istituto è chiamo a realizzare mediante il servizio missionario all’uomo e la testimonianza della sua consacrazione nella vita comunitaria, e arriva fino alla Parte Quinta, che è l’ultima ed è dedicata alla Amministrazione dei beni dell’Istituto.

Il capo di questo filo ci connette con san Daniele Comboni. L’impegno, infatti, che egli si assume dalla concretezza del primo contatto con l'infelice Nigrizia nella stazione missionaria di Santa Croce, è il «servizio dei più poveri e abbandonati».

Mosso da questo spirito, scriveva al papà da santa Croce, il 5 marzo 1858:

«Dovremo affaticare, sudare, morire; ma il pensiero che si suda, si muore per amore di Gesù Cristo, e per la salute delle anime le più abbandonate del mondo, è troppo dolce per sgomentarci alla grande impresa» (S 297; cfr. RdV 2-5).

Nel giorno del suo ultimo compleanno, il 15 marzo 1881, poteva confessare al card. Canossa da Khartoum di aver adempiuto questo suo impegno:

«È vero che mi trovo qui dinanzi un Vicariato il più laborioso e difficile del mondo, che cammina abbastanza bene e che è portato ad un punto, mercè la grazia divina, che otto anni fa non avrei mai creduto di vedere, in vista degli enormi ostacoli che avea preveduti, ed al cui progresso vi ho fatto concorrere per volere di Dio e col suo aiuto anche il mio dito. Ma dopo tutto, è una grazia se io non vi posi ostacolo, e possa solo esclamare a tutta ragione coll'Apostolo: servus inutilis sum (S 6561).

L’aspirazione profonda di Comboni è che questo spirito di servizio animi ogni “Missionario della Nigrizia”, e così

«il suo (del missionario) spirito non cerca a Dio le ragioni della Missione da lui ricevuta, ma opera sulla sua parola, e su quella dei suoi Rappresentanti, come docile strumento della sua adorabile volontà, ed in ogni evento ripete con profonda convinzione e con viva esultanza: servi inutiles sumus; quod debuimus facere fecimus» (Regole dell'Istituto 1871, cap. X, S 2702).

L’Istituto che nasce da questo inizio, chiamato «piccolo cenacolo di apostoli» (S 2648), vuole essere oggi una “comunità di fratelli”, “chiamati da Dio è consacrati a Lui per il servizio missionario nel mondo” (RdV 11).

Tale servizio è vissuto nel pluralismo e nella comunione delle Chiese locali, giacché ognuna di esse “ha la responsabilità del servizio missionario” (RdV 17).

Perciò, “nella linea del suo Fondatore, l’Istituto collabora con gli altri agenti e organismi dell’evangelizzazione per assicurare un più effettivo servizio missionario (RdV 19).

L’Istituto collabora per assicurare il servizio missionario della Chiesa in quanto “comunità di fratelli consacrati al servizio missionario” (RdV: Parte Seconda).

Così la consacrazione per la missione attraverso la professione dei consigli evangeli è vissuta “secondo le esigenze del servizio missionario dell’Istituto nella Chiesa“ (RdV 22). In particolare, “vivendo il dono della castità consacrata, il comboniano risponde all’amore di Cristo che (…) lo rende disponibile a darsi più generosamente al servizio del Regno di Dio

Mediante questa consacrazione, “il missionario comboniano entra in una comunità di fratelli chiamati a condividere le difficoltà e le gioie del servizio missionario” (RdV 23).

In questa comunità il missionario comboniano vive “a servizio di Dio e dell’uomo. In essa, infatti, “ ciascun missionario, avendo liberamente accettato la chiamata del Signore, mette i suoi talenti ed energie e la sua stessa vita al servizio di Dio e degli uomini nella comunità, secondo le costituzioni” (RdV 41).

Il primo servizio è quello che nasce dall’ “incontro con Dio”, mediante il quale il missionario testimonia e proclama l’amore del Padre, “esperimentato nella comunione personale con Cristo, sotto la guida dello Spirito Santo” (RdV 46).

Tale incontro con Dio sfocia nella “preghiera missionaria” : “Il missionario sente e vive la preghiera come espressione del suo impegno missionario: Come operaio a servizio del Regno implora incessantemente “venga il tuo Regno”; in spirito di solidarietà con la gente ne assume i desideri e i bisogni concreti, prega con essa e in comunione con tutta la Chiesa” (RdV 48).

Dalla vita del missionario centrata in Dio mediante la consacrazione e l’incontro con Lui, esperimentato nella comunione personale con Cristo e formando con i sui fratelli una comunità orante (RdV 46), scaturisce “il servizio missionario dell’Istituto” (RdV: Parte Terza).

Tale servizio si concretizza nell’evangelizzazione (Sezione prima, nn. 56-71), che è il primo servizio che la Chiesa deve all’umanità e riafferma ed esplicita la ragione dell’esistenza dell’Istituto Comboniano.

L’Istituto Comboniano, infatti, esiste perché ci sono «popoli o gruppi umani non ancora o non sufficientemente evangelizzati» (RdV 13), ed è l’Istituto che «attua il suo fine inviando i suoi membri, dove si richiede un’attività missionaria conforme al carisma del Fondatore», (RdV 14), che si incentra sui «più poveri e abbandonati… specialmente riguardo alla fede» (RdV 5).

Il «Servizio dell’evangelizzazione» (RdV, Parte terza, Sezione prima:56-71) è integrato dal servizio dell’ «Animazione missionaria» (RdV, Parte terza, Sezione seconda: 72-79) e dalla «Formazione di base e permanente» (RdV, Parte terza, Sezione terza: 80- 101).

Il «Servizio dell’evangelizzazione» comporta:

  • collaborare con l’azione dello Spirito Santo, che “fermenta e trasforma i popoli e li conduce ad incontrarsi con la persona di Cristo” (RdV 56);
  • scoprire i valori culturali e religiosi dei popoli in clima di dialogo (RdV 57);
  • offrire la testimonianza personale e comunitaria dei consigli evangelici e della pratica della carità secondo lo spirito delle beatitudini (RdV 58);
  • annunciare chiaramente e in equivocamente il mistero di Gesù di Nazaret, Figlio di Dio (RdV 59);
  • nel farsi solidale con la vita del popolo, condividendone il destino, e nell’impegnarsi nella liberazione integrale dell’uomo (RdV 60-61);
  • accompagnare coloro che accolgono la Parola nel cammino che conduce al Battesimo fino all’Eucaristia, che edifica la comunità e apre al servizio della carità (RdV 63);
  • scoprire e promuovere i doni e i ministeri, suscitati dallo Spirito nelle comunità per la loro crescita, avendo una particolare attenzione per la promozione e la formazione del clero locale (RdV 64);
  • collaborare con la Chiesa locale offrendo il proprio servizio nelle attività di evangelizzazione corrispondenti alle finalità dell’Istituto (RdV 65);
  • obbedire a coloro che Cristo ha posto a reggere la sua Chiesa (RdV 66);
  • promuovere il dialogo ecumenico (RdV 76);
  • favorire il sorgere e lo sviluppo di comunità apostoliche di preghiera e di lavoro fra tutte le forze che si dedicano all’evangelizzazione nello stesso luogo (RdV 68);
  • impegnarsi nell’inculturazione del messaggio evangelico (RdV 69);
  • svolgere l’attività evangelizzatrice in modo che le giovani Chiese raggiungano l’autosufficienza, possiedano cioè i loro ministeri, provvedano alle loro necessità e prendano parte alla diffusione del Vangelo (RdV 70);
  • accettare la provvisorietà come caratteristica del servizio missionario (RdV 71).

Il servizio dell’«Animazione missionaria» è un servizio specifico secondo il proprio carisma che i comboniani offrono ai pastori delle Chiesa e ai loro collaboratori, che sono i primi responsabili dell’animazione (RdV 73)

Attraverso questo servizio ogni comunità comboniana vive il suo carattere specifico e aiuta il Popolo di Dio ad arricchire la sua fede (RdV 75).

Il servizio della «Formazione di base e permanente» ha come finalità offrire a coloro che sono chiamati alla vita missionaria comboniana gli elementi per una formazione di base e permanente, in vista di un efficace servizio missionario nella vita consacrata (RdV 80).

La formazione viene qualificata dagli ideali e dall’esperienza di Comboni e dalle esigenze del servizio missionario. (RdV 81).

Il missionario, da parte sua, risponde liberamente con il suo impegno personale all’azione dello Spirito, che lo trasforma dall’interno, rendendolo sempre più capace di mettersi al servizio del Regno (RdV 82).

La vocazione missionaria, infatti, è un dono dello Spirito, che il candidato realizza attraverso la scelta concreta del servizio missionario (RdV 88).

Per tanto, scopo del Noviziato e del periodo di professione temporanea è preparare il candidato alla consacrazione a Dio per il servizio missionario (RdV 92; 94; 97).

La Formazione permanente, in fine, è necessaria perché il missionario ha bisogno di rinnovarsi continuamente in vista del suo servizio missionario (RdV 99).

Il filo del servizio innerva anche la Quarta Parte della Regola di Vita che tratta appunto del «Servizio dell’autorità».

Questa Quarta Parte, infatti, comincia definendo l’autorità “un servizio che partecipa di quella di Cristo e vi si ispira. … Questo servizio è reso alla comunità e a ciascun membro per aiutarlo a vivere la sua consacrazione e a sviluppare i suoi doni personali e carismi nel servizio missionario” (RdV 102; 107). Perciò l’autorità a tutti i livelli, da quello locale a quello generale, va esercitata “in spirito di servizio” (RdV 112).

Il filo del servizio arriva a portare il suo soffio vitale anche a “L’amministrazione dei beni dell’Istituto”, che costituisce la Parte Quinta e ultima della Regola di Vita.

L’Istituto, infatti, fa uso dei beni «per raggiungere la sua finalità missionaria» (RdV 162), che i suoi membri realizzano, partecipando attivamente alla missione della Chiesa al mondo, attraverso il servizio all’uomo e la testimonianza della loro consacrazione nella vita comunitaria (cfr. Preambolo della RdV).

In conclusione, appare chiaro che il servizio del missionario secondo la Regola di Vita è totalizzante, non lascia spazio a interessi individualistici; esso richiede “una disponibilità totale, una vita a piena disposizione, senza calcoli e senza utili». In quest’ottica il missionario comboniano è chiamato a vivere servendo, seguendo Gesù che si presenta e vive come il servo, come colui che è venuto a servire e non a essere servito.

Queste parole conclusive provengono da Papa Francesco che le ha pronunciate in varie occasioni.

In sintonia con queste parole, Papa Benedetto XVI, nel messaggio per la Giornata Missionaria Mondiale del 2009, ricordava a tutti che lo spirito di servizio è fondamentale per un valido e coerente annuncio del Vangelo di Gesù:

“I discepoli di Cristo sparsi in tutto il mondo operano, si affaticano, gemono sotto il peso delle sofferenze e donano la vita. Riaffermo con forza quanto più volte è stato detto dai miei venerati Predecessori: la Chiesa non agisce per estendere il suo potere o affermare il suo dominio, ma per portare a tutti Cristo, salvezza del mondo. Noi non chiediamo altro che di metterci al servizio dell’umanità, specialmente di quella più sofferente ed emarginata”.

II.

Principi ispiratori dell’amministrazione dei beni nella nostra Regola di Vita: Parte V: nn. 162-175

1. Nelle Costituzioni 1958 c’erano solo norme giuridiche e poche indicazioni economiche.

Nei Documenti Capitolari del 1969, la parte sulla vita economica dell’Istituto aveva come preoccupazione fondamentale la mentalizzazione sui concetti di vita economica e la creazione di una struttura per il rinnovamento della vita economica. Si cerca così di chiarire:

  • La fisionomia e la finalità del nostro sistema economico.
  • La natura e finalità del patrimonio della Congregazione.
  • Gli obblighi da lì derivanti.

 

In base a questi principi si stabilisce:

  • L’organizzazione delle Province.
  • Le strutture amministrative e le loro norme generali.
  • Cf. Documenti Capitolari 1969, Parte Quinta, Vita Economica dell’Istituto, pp.549-598.

2. Nella Regola di Vita, nella Parte Quinta sull’Amministrazione dei beni dell’Istituto appare con evidenza il cammino fatto lungo questi anni. Non si nota tanto la preoccupazione di mentalizzare, ma di affermazioni concrete che sono la codificazione dei principi che stanno essendo seguiti nella Congregazione a tutti i livelli. Ci sono delle scelte di fondo, degli orientamenti programmatici e, come nella parte direttoriale, anche delle norme economiche e organizzative che dovranno esser completate dal “direttorio per l’Economia”.

2.1. Le scelte di fondo comprendono: il collegamento tra la vita economica e la testimonianza di povertà nella comunitarietà; l’indirizzo di ogni operazione economica alle finalità missionarie della Congregazione; fiducia nella Provvidenza e spirito di servizio; consapevolezza che la fonte principale delle nostre entrate sono le offerte del popolo di Dio; evitare affarismi e capitalizzazione.

2.2. Gli orientamenti programmatici comprendono: corresponsabilità di tutti i membri della Congregazione e conseguente informazione; impegno personale nel proprio lavoro e nella ricerca dei mezzi; condivisione all’interno della Congregazione e con la Chiesa locale; autolimitazione dei mezzi economici; partecipazione comunitaria alle decisioni attraverso i Consigli di Comunità, le Assemblee degli Economi e i Segretariati e i Consigli dell’Economia.

L’inserto di Famiglia Comboniana di Novembre 2018,preparato da P. Claudio Lurati, Economo Generale, dal titolo «La povertà e la gestione carismatica e comunitaria dei beni materiali nella Regola di Vita», ci offre una visione completa e aggiornata, che riguarda la prassi dell’amministrazione dei beni in vigore nell’Istituto e il soffio vitale, al quale si ispira, che è quello del Carisma Comboniano.

Per tanto, nonostante che si appropri di norme e concetti giuridici, la Regola di Vita nella gestione dei beni ha una spiccata preoccupazione evangelica ed esperienziale.

3.Per le scelte di fondo vanno evidenziati:

  • Il numero 162.1, in cui si afferma che le persone sono i maggiori beni affidati alla Congregazione che di ognuna deve prendersi la massima cura, è una affermazione bellissima, capace di rivoluzionare i nostri criteri e giudizi di valore.
  • Il numero 162.2 ci invita alla fiducia nella Provvidenza seguendo l’esempio del Fondatore e attraverso l’intercessione di San Giuseppe.
  • Nel numero 164 troviamo concetti nuovi e significativi: comunione e autolimitazione, che evocano il modo di vivere delle prime comunità cristiane e che sono il miglior bastione di povertà. In questo spirito appare la determinazione relativa all’apporto per le spese della Direzione Generale da parte di tutti i membri di voti perpetui.
  • Il numero 167 fu abbastanza discusso; nella fase di elaborazione presenta in forma chiara e inequivocabile le forme di sussistenza dei missionari comboniani. Le entrate dell’Istituto provengono primariamente:
  • dalle donazioni del Popolo di Dio;
  • dal lavoro dei missionari e delle comunità.

Gli investimenti sono considerati complementari per provvedere alle necessità dell’Istituto e non per aumentare il capitale.

4. Questa Parte quinta sarebbe incompleta se non si appoggiasse basicamente soprattutto sulla Parte seconda, principalmente dal numero 27 al 32.

  • Il numero 27 definisce il nostro modo di essere poveri a somiglianza di Cristo che ci porta ad accettare con serenità la scarsità o la mancanza del necessario (27.1), a vivere la povertà anche mediante il lavoro giornaliero, serio e impegnato (27.2).
  • Nel numero 28 vengono espressi i concetti di fiducia e condivisione che sono nuovi e dei quali la parte quinta tira le conseguenze, che sfociano nell’attuale FCT.
  • Nel numero 29 si insiste molto sulla testimonianza comunitaria della povertà ai vari livelli e anima a forme comunitarie di povertà più radicali e permette esperienze speciali (29.3).
  • Nel numero 30.2 appare anche un concetto nuovo: la povertà muove il comboniano a impiegare mezzi poveri nell’opera di evangelizzazione e ad una crescente condivisione dei beni con la Chiesa locale
  • Il numero 31.2 sottolinea un aspetto fino ad ora abbastanza discusso: il testamento deve essere redatto in modo che sia valido secondo le leggi dello Stato alla cui nazionalità appartiene il missionario o di quello in cui si trovano i beni.

5. La Regola di Vita ci traccia in verità il cammino più certo perché possiamo seguire le orme di Gesù, che da ricco si fece povero per salvarci.

Dobbiamo essere grati allo Spirito del Signore e ai Capitolari per la Regola di Vita, la quale ci dà la possibilità concreta di vivere autenticamente lo spirito di povertà del Signore Gesù, guidati dal suo discepolo missionario, Daniele Comboni, che è “tutto povero”, “servo dei poveri negri nella povera Africa centrale”

III.

Icone da cui nascono i principi guida per una “gestione carismatica e comunitaria dei beni” nell’Istituto

Il soffio vitale che ci porta ad un’amministrazione carismatica dei bei dell’Istituto spira in modo particolare da alcune icone bibliche e dall’esperienza carismatica di san Daniele Comboni.

Le icone bibliche scelte sono:

1) Il Povero di Nazaret; 2) Maria di Nazaret, l’ancella del Signore; 3) I Dodici, in missione con equipaggiamento minimo; 4) La guarigione dello storpio; 5) La prima comunità di Gerusalemme e le sue insidie; 6) Il Cenacolo-comunità, nato dall’ispirazione di san Daniele Comboni; 7) San Daniele Comboni, “tutto povero” consacrato “servo…”

A.- Il Povero di Nazaret: identificati con Cristo povero: RdV 21; 27

Diceva Paolo VI ai Cardinali il 22 giugno 1974, a proposito dei sacerdoti che cercano la loro identità: «L'unica identità per noi è quella che abbiamo con Cristo. Lui è il nostro modello: Lui povero, umile, sacrificato, teso unicamente alla gloria del Padre e alla salvezza delle anime ».

Gesù in tutta la vita è stato sempre povero, umile, sacrificato: ma quando ha voluto cominciare ad annunciare la salvezza, ha voluto vivere più intensamente questo atteggiamento interiore, manifestandolo esteriormente in modo inequivocabile, perché i suoi discepoli lo comprendessero chiaramente.

Se prima il suo umile lavoro di Nazaret gli procurava lo stretto necessario per la vita, nel tempo della sua predicazione egli aveva perduto ogni sicurezza per il suo sostentamento, e non aveva dove posare il capo. Agli apostoli e discepoli, sia mentre «camminavano con lui» (Cv 6, 16), sia quando li mandava a predicare per preparargli la strada, prescriveva lo stesso stile di vita: « Vi mando come agnelli in mezzo ai lupi; non portate borsa né bisaccia né sandali» (Lc 10, 3-4). Gli apostoli anche dopo la resurrezione del Signore, seguirono lo stesso stile: «Non possiedo né argento né oro» dice Pietro allo storpio « ma quello che ho te lo do: in nome di Gesù Cristo il Nazareno, cammina» (At 3, 6).

Invece noi siamo spesso tentati e spinti «a cercare anzitutto un'azione umanamente efficace» (Paolo VI, Evang. Testificatio, n. 30). Siamo tentati, per poter meglio influire sugli altri, a metterci in una posizione di potenza umana, e non nella posizione di agnelli tra i lupi. Siamo tentati a gareggiare, nell'impiego dei mezzi umani, con i figli delle tenebre, con quelli che sono « nemici della croce di Cristo» (Fil 3, 18): e su questo piano non solo rimarremo sempre inferiori a colui che è « il principe di questo mondo» (Cv 12, 31), ma è sicuro che non raggiungeremo mai la salvezza degli uomini. Perché questa salvezza è nell'ordine della grazia, e si procura anzitutto con i mezzi soprannaturali, pur usando, quando è giusto, i mezzi umani, ma non per porre in essi la nostra fiducia, bensì perché il Signore vuole che anch'essi siano impiegati. Tutto infatti deve cooperare al bene dell'uomo.

Ma le armi efficaci con cui la Chiesa ha sempre portato agli uomini la salvezza, le armi segrete e infallibili con cui la Chiesa nella storia ha superato tutte le battaglie, contro coloro che la volevano distrutta, sono sempre state quelle adoperate dal suo fondatore e sposo Gesti Cristo. Così in coincidenza con i periodi più difficili della Chiesa, ci sono state le ricorrenti fioriture di santi, che vivendo più intensamente la parola di Dio si sono meglio identificati con Cristo e hanno lasciato che Egli vivesse in loro: e hanno indotto altri a fare altrettanto. Cosi sono nati molti ordini religiosi. Perché il nostro valore e la nostra efficacia non stanno tanto in quello che abbiamo o diciamo o facciamo, ma in quello che siamo (cfr Gaudium et spes, n. 35). E se siamo vuoti di tutto, ma riempiti di Dio e identificati con Cristo povero, umile e sacrificato, allora i frutti di salvezza sono sicuri, perché è Dio stesso che li produce.

Suscitando questi santi, Dio ha sempre sottolineato la necessità della povertà, specialmente in vista dell'evangelizzazione. Pensiamo al 1500: di fronte all'atteggiamento frequente nel clero, più preoccupato del beneficio che del suo compito di cura delle anime, sorgono i chierici regolari, che hanno per caratteristica la povertà e l'evangelizzazione. Alcuni inseriscono la povertà nella loro stessa denominazione (Chierici regolari poveri) altri la praticano in maniera così stretta, da rinunciare persino a chiedere l'elemosina, aspettando solo le offerte date spontaneamente dai fedeli (Teatini). S. Ignazio di Loyola dava moltissima importanza alla povertà, e in una sua lettera scriveva: « II contributo più sicuro che possiamo dare alla riforma della Chiesa universale, è di procedere quanto più è possibile sprovvisti di cose, secondo gli esempi del Signore nostro» (Monum. Ign. Epp. I 355).

Certe nostre vistose istituzioni, certe attuali forme dispendiose di apostolato potranno cadere. Non abbiamo paura; lasciamole cadere. Forse dobbiamo noi stessi farle cadere, per far luogo ad altre forme, che saranno più efficaci nella misura in cui ci aiuteranno ad avere meno fiducia nei mezzi umani, e più fede nell'azione di Dio. Perché « questa è la vittoria che vince il mondo, la nostra fede» (1 Gv 5, 4).

[Da: Adolfo Bachelet,  Economia e fede, Ave minima, pp. 35ss]

B.- Maria di Nazaret, l’ancella del Signore: RdV 24

1. Maria, donna povera

Maria ci si presenta anzitutto come una donna povera. Il personaggio storico di Maria che intravediamo attraverso le narrazioni evangeliche, non appartiene a nessun gruppo privilegiato del suo tempo.

Maria è donna del popolo, senza cultura speciale, senza occupazioni importanti, senza vanità, senza pretese ambiziose, che eccedano la sua condizione di donna.

Ella soltanto progettò, o forse meglio i suoi genitori, progettarono per lei, quando appena aveva tredici anni, il matrimonio con Giuseppe. E in più questo matrimonio non arrivò a compimento, così come era stato progettato.

Quando Maria dà alla luce il suo Figlio deve “avvolgerlo in fasce e porlo in una mangiatoia, perché per loro non c’era posto nell’alloggio” (Lc 2,7); la mangiatoia, in contrapposizione con l’alloggio, si converte nel segno offerto ai pastori per riconoscere il Messia (Lc 2,12-16). Senza dubbio è una situazione di povertà, che rivela la condizione popolare dei genitori di Gesù.

Maria ha perso poco a poco ciò che aveva e più apprezzava. Il suo sposo Giuseppe morì probabilmente prima della vita pubblica di Gesù.

Madre di figlio unico, di colui che era tutta la sua vita e suo unico tesoro, Gesù, se lo vede strappare dalla ignominiosa morte di croce. Offrì quello che più amava e che dava significato alla sua vita.

Maria fu donna di quel tempo, e perciò va collocata tra gli emarginati, tra i poveri reali ed effettivi.

2. Maria, povera di Jahvé

Nell’A.T. la povertà è considerata inizialmente in una prospettiva economica. È un male le cui cause sono la propria colpa (Pr 6,11; 24,30-34), i colpi della fortuna (1Re 17,1-16), e soprattutto la violenza dei ricchi e dei potenti. I profeti si distinguono nel denunciare questo tipo di povertà (Is 5,8; Ger 5,27; Am 5,11; Mi 2,11; 6,10ss.). Nei Salmi Jahvé è proclamato come difensore dei poveri: Sl 10,14; 17; 14,6; 68,6.

Dopo l’esilio, senza perdere la sua dimensione sociale, diviene un concetto religioso: viene a significare qualcosa come umiltà, pietà. Nascono i “poveri di Jahvé”, che non avevano spirito di autosufficienza né erano opportunisti; per questo motivo erano disprezzati frequentemente dai potenti, dai ricchi e in particolare dalle autorità religiose. I “poveri di Jahvé” sono quelle persone che trasformarono la loro condizione di povertà effettiva in esperienza religiosa: in fiducia, in speranza, in preghiera, in abbandono in Dio. Il “povero di Jahvé” designa l’uomo dell’A.T. che, libero di tutti i beni terreni, si affida a Dio solo; designa l’uomo che assume l’atteggiamento di umile sottomissione, di fiducia, di abbandono e di ricerca di Dio in mezzo alle prove dell’oppressione, con la convinzione che Dio prende a suo carico la difesa del povero e di tutti gli oppressi.

Sappiamo, in effetti, che il popolo di Israele dell’epoca di Maria era un popolo oppresso, senza libertà, un popolo di poveri che sperava ansiosamente un Liberatore, la venuta di un Restauratore del Regno.

La figura evangelica di Maria si inquadra perfettamente in questo insieme: povertà-oppressione-ingiustizie e nello stesso tempo desiderio-speranza-fiducia nella venuta del Messia.

Ella, povera reale, si sente visitata da Dio; da questo momento la sua povertà reale diviene consacrata e trasformata in povertà evangelica ed evangelizzatrice.

Maria è annuncio della gioiosa notizia della venuta del Regno del Figlio di Dio nel mondo dei poveri, diviene simbolo della gratuità del dono e dell’amore di Dio agli uomini.

Il Magnificat è la prova di tutto questo. Luca ce lo presenta come la personificazione del resto di Israele, come il simbolo del popolo dei poveri. Maria rappresenta l’Israele povero, sottomesso, umile, che tutto spera dal potente intervento di Jahvé. Maria sa e confessa che ha Dio dalla sua parte. Non confida nelle sue forze né nel potere rivoluzionario o violento degli uomini; unicamente confida nel “braccio di Dio che interviene con forza”.

«Il Magnificat è lo specchio dell’anima di Maria. In questo poema raggiunge il suo punto culminante la spiritualità dei poveri di Jahvé. È il cantico che annuncia il nuovo Vangelo di Cristo, è il preludio del Discorso della Montagna. Maria ci si manifesta qui vuota di sé, ponendo tutta la sua fiducia nella misericordia del Padre. Nel Magnificat si manifesta come modello “per coloro che non accettano le avverse circostanze della vita personale sociale, né sono vittime della “alienazione”, come si dice oggi, ma proclamano con lei che Dio è “vendicatore degli umili” e, se ne è il caso, “rovescia i potenti dal trono” » (Juan Pablo II, Homilía Zapopan, 4; Puebla 297).

E il Concilio Vat. II l’ha detto chiaramente: «Essa primeggia tra quegli umili e quei poveri del Signore che con fiducia attendono e ricevono da lui la salvezza» (LG 55).

3. Maria, solidale con i poveri

Maria fu solidale con i poveri. Ella, infatti, è nata povera, e la sua povertà fu consacrata dalla presenza di Dio, che la elesse come ella era; consacrazione che lei accettò con tutta la libertà del suo cuore. 

Maria fu solidale con i poveri passivamente, cioè per quello che patì. Maria patì con le donne della sua epoca, con gli abitanti della disprezzata Galilea, con gli Israeliti schiavi e colonizzati dai Romani. Maria fu solidale con tutte quelle donne che per motivi biologici o psicologici portavano su di sé l’umiliazione della loro sterilità e infecondità o della loro disprezzata verginità. Appartenne al gruppo sfruttato delle vedove di Israele.

Maria patì come tanti uomini e donne del nostro tempo; soffrì il dolore e l’umiliazione, l’oppressione e tutte le conseguenze della emigrazione; dovette sottomettersi al disaggio e all’insicurezza della vita dei poveri.

Fu in fine solidale con coloro che non comprendono l’agire di Dio e, tuttavia, sperano con fiducia (cfr. Lc 2,50; 2,19).

Maria fu anche attivamente solidale con i poveri.

Così ce la presenta il quarto Vangelo, Nell’episodio delle Nozze di Cana (Gv 2,1-11), nella frase “non hanno vino” è possibile captare la vicinanza di Maria alle necessità più gravi degli uomini. Nella scena si caratterizza l’agire di Maria davanti a Gesù in favore di tutti coloro che anelano un Salvatore e che si trovano in situazioni limite, di disperazione. Per mezzo della sua “presenza” presso la Croce di Gesù (Gv 19, 25), Maria si solidarizza attivamente con il Crocifisso e con i crocifissi, senza vergognarsi né impaurirsi.

Luca ci presenta Maria simpatizzando con i poveri e marginati pastori. Di essi si diffidava, perché a volte si dedicavano a rubare; neanche potevano essere testimoni in tribunale, come neppure i pubblicani. Ai pastori mancava ogni formazione religiosa che era l’unica che esisteva in Palestina; erano persone incolte, retrograde, poco pietose; entravano nella categoria dei “semplici” o “piccoli” (cfr. Mt 11,25). Questi arrivavano ad essere giudicati come “maledetti da Dio”: «Questa gente, che non conosce la Legge, è maledetta da Dio» (Gv 7,49). (cfr. J. Schmid, El Evangelio según Lucas).

Maria non si sente estranea ad essi, ma anzi scopre attraverso di essi il messaggio di Dio e “custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore” (Lc 2,19; cfr. Lc 2,8-20).

Maria mai è inserita in gruppi privilegiati, né con i Sacerdoti del Tempio, né con i principi, né con la gente potente. Le scene evangeliche la collocano tra il popolo semplice, tra i pastori, con i Maggi pagani, in mezzo a coloro che crocifiggono suo Figlio, nella comunità cristiana racchiusa nel cenacolo. 

Questa solidarietà con i poveri non permette di considerare Maria come una donna rivoluzionaria nel senso corrente del termine. Certamente ella sperimentava una grande impazienza interiore, che la faceva reclamare la liberazione dei poveri ma, come donna credente, metteva tutta la sua fiducia in Dio e non confidava nell’uomo incapace di operare una liberazione totale (Ger 17,5-7.8). Non sarà l’uomo, ma sarà solo Dio che scompiglierà i piani degli arroganti, rovescia dal trono i potenti, esalta gli umili, ricolma di beni gli affamati e rimanda a mani vuote i ricchi. Maria non confida in un messianismo a misura d’uomo, né nella forza della rivoluzione, nella quale “il braccio potente di Dio non interviene”. Maria mostra una fiducia illimitata in ogni intervento di Dio, del Dio che in mezzo a noi, con noi instaura il suo Regno. Questo significa individuare, senza rimandare a un “più in là” tutte le aspettative, dove si trova “qui e ora” l’autentico potenziale rivoluzionario: i poveri in spirito, gli umiliati e gli impoveriti, che confidano ciecamente in Jahavé, l’esercito dei non-violenti, la comunità delle Beatitudini.

Il Magnificat di Maria ci premette un rilettura della storia non dal protagonismo dei potenti, ma dalla forza dei deboli, di coloro che sacramentalizzano il Regno di Dio.

C.- I Dodici in missione con equipaggiamento leggero:Mc 3,14; Mc 6, 7-13:

«7Chiamò a sé i Dodici e prese a mandarli a due a due e dava loro potere sugli spiriti impuri. 8E ordinò loro di non prendere per il viaggio nient'altro che un bastone: né pane, né sacca, né denaro nella cintura; 9ma di calzare sandali e di non portare due tuniche. 10E diceva loro: "Dovunque entriate in una casa, rimanetevi finché non sarete partiti di lì. 11Se in qualche luogo non vi accogliessero e non vi ascoltassero, andatevene e scuotete la polvere sotto i vostri piedi come testimonianza per loro". 12Ed essi, partiti, proclamarono che la gente si convertisse, 13 scacciavano molti demoni, ungevano con olio molti infermi e li guarivano».

***

I Dodici erano stati scelti da Gesù perché "stessero con lui, e anche per mandarli a predicare e perché avessero il potere di scacciare i demoni" (Mc 3,14-15). Nei capitoli precedenti li vediamo stare con lui, ascoltare e imparare, ora Marco ci mostra la seconda dimensione del discepolo, quella missionaria. Per descrivere la missione degli apostoli, Marco usa le medesime parole con cui ha descritto la missione di Gesù: predicavano la conversione, guarivano i malati e scacciavano i demoni.

L'invio dei discepoli avviene "a due a due", sia in riferimento alla duplice testimonianza (Dt 17,6; 19,15; Nm 35,40), sia secondo il consiglio del saggio Qoelet (4,9-12: 9Meglio essere in due che uno solo, perché otterranno migliore compenso per la loro fatica. 10Infatti, se cadono, l'uno rialza l'altro. Guai invece a chi è solo: se cade, non ha nessuno che lo rialzi. 11Inoltre, se si dorme in due, si sta caldi; ma uno solo come fa a riscaldarsi? 12Se uno è aggredito, in due possono resistere: una corda a tre capi non si rompe tanto presto.) adottato poi anche dalla comunità cristiana di Gerusalemme (At 13,2: 2Mentre essi stavano celebrando il culto del Signore e digiunando, lo Spirito Santo disse: "Riservate per me Bàrnaba e Saulo per l'opera alla quale li ho chiamati").

Gli ordini che Gesù dà ai suoi inviati riguardano, anzitutto, la povertà e la rinuncia: senza alcun aiuto umano, i discepoli hanno come appoggio solo la fede in colui che li manda.

Queste parole condannano il trionfalismo e la ricchezza e impongono la povertà e la discrezione, L'apostolo non deve usare i mezzi del mondo (denaro, potere e forza) per conquistare l'adesione dei suoi ascoltatori. Il vero apostolo non compera nessuno e non si lascia comperare da nessuno: forse sarà venduto a poco prezzo come il suo Maestro (Mc 14,10-11).

La povertà è una condizione indispensabile per la missione: i missionari devono essere "truppe leggere". Questa povertà è fede, libertà e leggerezza. Un discepolo appesantito dai bagagli diventa sedentario, conservatore, incapace di cogliere la novità di Dio, abilissimo nel trovare mille ragioni di comodo. La povertà è fede concreta di chi non confida in se stesso e nei propri mezzi, ma nell'assistenza e nella provvidenza di chi l'ha mandato.

L'annuncio del vangelo deve sempre essere in povertà, perché proclama la croce che ha salvato il mondo. Più che ciò che dobbiamo dire, Gesù ci insegna ciò che dobbiamo essere. Ciò che siamo grida più forte di ciò che diciamo. Finché non siamo poveri, ogni cosa che diamo o che diciamo non è dono, ma solo esercizio di potere sugli altri.

Già nell'Antico Testamento, povertà, piccolezza e impotenza sono i mezzi che Dio sceglie per vincere (cfr 1Sam 2,1 -10; Es 3,11 ; 4,10; Gdc 7,2). Infatti "Dio ha scelto ciò che nel mondo è stolto per confondere i sapienti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è debole per confondere i forti. Dio ha scelto ciò che nel mondo è ignobile e disprezzato e ciò che è nulla per ridurre al nulla le cose che sono, perché nessun uomo possa gloriarsi davanti a Dio" (1Cor 1,27-29).

Questa lezione l'aveva imparata bene Pietro, quando compì il primo miracolo. Egli disse allo storpio: "Non possiedo né argento né oro, ma quello che ho te lo do: nel nome di Gesù Cristo, il Nazareno, cammina" (At 3,6). Se Pietro e Giovanni avessero avuto argento e oro, avrebbero fatto un'opera buona, forse avrebbero fondato un istituto per portatori di handicap, avrebbero dato dei soldi, ma non avrebbero pensato che dovevano dare Gesù, il salvatore.

La salvezza viene dalla croce, svuotamento che rivela Dio. Guai se la nostra potenza o sapienza la vanifica: "Cristo mi ha mandato a predicare il vangelo; non però con un discorso sapiente, perché non venga resa vana la croce di Cristo" (1Cor 1,17).

Gesù invia i suoi in povertà, come il Padre aveva mandato lui in povertà. I discepoli, mediante la missione, sono chiamati alla forma più alta di vita cristiana: sono pienamente associati al Figlio, che conoscendo l'amore del Padre, è spinto verso tutti i fratelli.

I Dodici possono annunciare agli altri la conversione mostrando di essere loro stessi convertiti perché sono e vivono come Gesù.

II vangelo parla anche della possibilità, tutt'altro che teorica, vista la sorte toccata a Gesù, che i discepoli non siano accolti e ascoltati. E' una sofferenza che il discepolo deve affrontare senza perdersi d'animo. A lui è stato affidato un compito, non garantito il successo.

Sulla attività dei Dodici, Marco non dà alcuna indicazione di tempo e di luogo; gli basta segnalare che essi realizzano esattamente ciò che aveva detto e fatto il Maestro: proclamare la conversione e operare esorcismi e guarigioni.

D.- La guarigione dello storpio:

Quello che ho te lo do: nel nome di Gesù Cristo, il Nazareno, cammina!:

At 3, 1-10; RdV 59

«1Pietro e Giovanni salivano al tempio per la preghiera delle tre del pomeriggio. 2Qui di solito veniva portato un uomo, storpio fin dalla nascita; lo ponevano ogni giorno presso la porta del tempio detta Bella, per chiedere l'elemosina a coloro che entravano nel tempio. 3Costui, vedendo Pietro e Giovanni che stavano per entrare nel tempio, li pregava per avere un'elemosina. 4Allora, fissando lo sguardo su di lui, Pietro insieme a Giovanni disse: "Guarda verso di noi". 5Ed egli si volse a guardarli, sperando di ricevere da loro qualche cosa. 6Pietro gli disse: "Non possiedo né argento né oro, ma quello che ho te lo do: nel nome di Gesù Cristo, il Nazareno, àlzati e cammina!". 7Lo prese per la mano destra e lo sollevò. Di colpo i suoi piedi e le caviglie si rinvigorirono 8e, balzato in piedi, si mise a camminare; ed entrò con loro nel tempio camminando, saltando e lodando Dio. 9Tutto il popolo lo vide camminare e lodare Dio 10e riconoscevano che era colui che sedeva a chiedere l'elemosina alla porta Bella del tempio, e furono ricolmi di meraviglia e stupore per quello che gli era accaduto».

***

Alcune annotazioni sul testo:

  • Alle tre del pomeriggio, nel momento della preghiera vespertina, Pietro invocando il Nome di Gesù salva un uomo: lo fa camminare, lo inserisce nella comunità, permettendogli di entrare nel tempio e rendendolo missionario della potenza di Cristo Risorto, suscitando in tale modo grande stupore nel popolo.
  • L'indicazione dell'ora della preghiera, mentre giustifica la venuta di Pietro al tempio, rivela la volontà dei cristiani di vivere in armonia con gli Ebrei.
  • Il mondo tradizionale giudaico e il mondo nuovo cristiano stanno di fronte all'uomo paralizzato con atteggiamenti e risultati diversi. Il mondo giudaico rimane esterno all'uomo, con l'elemosina che zittisce momentaneamente la coscienza ed offre solo un rimedio palliativo alle sue necessità. Il cristiano si interessa a tutto l’uomo: Pietro delude l'attesa immediata e guida la persona alla richiesta di un dono maggiore ed inaspettato.
  • La salvezza non è rinviata, ma donata subito: è l'oggi della salvezza, espresso con frequenza soprattutto nel Vangelo di Luca.
  • La causa della guarigione è il Nome di Gesù. Come Cristo operava nel Nome, cioè nella potenza, di Dio (cf Lc 11,20), così gli apostoli operano nel Nome di Gesù. La fede nel Nome di Gesù è il motivo del discorso seguente e l'opposizione del sinedrio.
  • La potenza del Nome di Gesù è la vera ricchezza della Chiesa, la quale per essere credibile dovrà sempre poter dire:  "Non ho né oro né argento…".
  • Nel Nome di Gesù si sentono uniti, complementari e non opposti, Pietro e Giovanni: essi rappresentano nella comunità l'elemento istituzionale e quello carismatico, la parte anziana e la parte giovane. La fede in Gesù e l'attenzione premurosa verso il prossimo bisognoso creano comunione ed unità che fa superare ogni divisione: di età, cultura, ruolo.
  • La complementarietà dei ruoli risalta anche dal fatto che alla posizione centrale di Pietro e di Giovanni segue la prevalente azione degli apostoli. Il gesto dei due discepoli provoca la detenzione di tutti gli apostoli, ma questi senza tentennare accettano di condividere con i due amici difficoltà e persecuzioni: "Fatti arrestare gli apostoli, li fecero gettare nella prigione pubblica" (5,18).
  • L'effetto del miracolo è duplice: permettere allo storpio ammalato ed emarginato di entrare nel tempio per lodare Dio ed esprimere pubblicamente la sua fede; suscitare nei molti presenti stupore e agitazione, un misto di ammirazione e reazione scomposta provocata dalla presenza del divino (cf 4,21; 11,18; 13,48; 21,20).
  • L'azione unitaria della comunità cristiana o di parte di essa, provoca sempre scandalo o stupore, inquieta le coscienze perché li scuote dal torpore e dalla mediocrità. Poveri in oro e argento, i due amici Pietro e Giovanni donano all'invalido emarginato qualcosa di grande: la dignità del suo essere uomo, la possibilità di tenersi sulle sue gambe e di esprimere la gioia di un gesto che l'ha restituito a se stesso. Pietro e Giovanni non si accontentano di fare la "elemosina" allo sfortunato, ma perdono tempo con lui e per lui, tessono con il mendicante un dialogo vitale, si interessano del suo problema fino a farsene carico. Non temendo di "contaminarsi" con quello storpio considerato un "senza Dio" nella cultura ebraica, gli tendono la mano e l'aiutano a stare in piedi con dignità. Il resto è opera della fede nella potenza del Nome di Gesù.

Questo testo degli Atti è citato e commentato dall'Episcopato latinoamericano nel Documento di Puebla, nel "Messaggio ai popoli dell'America Latina, Il Nostro contributo, n. 3.

«Ma, che cosa abbiamo da offrirvi in mezzo ai gravi e complessi problemi della nostra epoca?...

Come Pietro, davanti al paralitico che lo supplicava presso la porta del Tempio, vi diciamo, nel considerare l’enormità delle sfide di ordine strutturale della nostra realtà: «Non abbiamo né oro né argento da darvi, ma vi diamo ciò che abbiamo: in nome di Gesù di Nazareth, alzatevi e camminate. Ed il malato si alzò e proclamò le meraviglie del Signore.

In questo caso, la povertà di Pietro diventa ricchezza e la ricchezza di Pietro si chiama Gesù di Nazareth, morto e risuscitato, sempre presente per mezzo del suo Spirito Divino nel Collegio Apostolico e nelle prime comunità formatesi sotto la sua direzione. Il gesto di curare l’infermo significa che la potenza di Dio richiede agli uomini il massimo sforzo perché sorga e fruttifichi la sua opera d’amore attraverso tutti i mezzi disponibili: forze spirituali, conquiste della scienza e della tecnica a beneficio dell’uomo.

Che cosa abbiamo da offrirvi? Giovanni Paolo II, nel discorso inaugurale del suo Pontificato, ci risponde in modo incisivo ed ammirabile, presentando Cristo come risposta di salvezza universale:  "Non temete, spalancate le porte a Cristo. Aprite alla sua potenza salvifica le porte degli Stati, i sistemi economici e politici, i vasti campi della cultura, della civiltà e lo sviluppo" (Giovanni Paolo II, Omelia dell'inaugurazione del Pontificato, 22.10.1978).

Per noi, risiede qui la potenzialità delle semi di liberazione dell'uomo latinoamericano, la nostra speranza per costruire giorno per giorno la realtà del nostro destino più vero».

Il testo degli Atti e il commento dei vescovi può aiutarci a riflettere e a cogliere il nucleo della dinamica della tematica del Documento di Aparecida:

Chiamati all’incontro con Gesù Cammino, Verità e Vita,
che ci fa discepoli missionari, in comunità, per annunciare il Vangelo.

I diversi elementi che compongono la tematica dell'Assemblea, si specificano in tre coordinate fondamentali e articolate tra esse: chiamata alla santità e configurazione a Cristo (conversione), comunione nella Chiesa, missione a servizio della vita piena. Si tratta di tre atteggiamenti basici, che sono ordinati direttamente e intrinsecamente al gran tema dell’incontro con Gesù Cristo, come alla sua fonte e radice. Come lo dimostra chiaramente la parola di Dio, i tre atteggiamenti basilari enunciati nascono dall'incontro personale col Figlio di Dio fatto uomo. È Gesù che invita gli uomini e le donne di tutti i tempi a quel cambiamento di vita (metanoia: cf. Mc 1, 15), che è il primo passo per entrare in comunione (koinonia) con lo stesso Signore Gesù e con i suoi discepoli (cf. At 2,42). La comunione dei credenti in Cristo si orienta, finalmente, seguendo le orme del Servo di Dio, a vivere in solidarietà e servizio (diaconia) con tutti e specialmente coi più piccoli (cf. Mt 25,40).

Dato che l'incontro con Gesù Cristo è l'origine della conversione, della comunione e della missione, ognuna delle rispettive parti del testo darà particolare importanza agli effetti di questo incontro nella vita personale e comunitaria dei credenti:

  • solo attraverso la configurazione a Cristo per mezzo della conversione al Vangelo sono possibili la vera comunione e l'autentica missione;
  • la comunione con Cristo e con la sua Chiesa è, contemporaneamente, la base per una continua conversione personale ed il fondamento sul quale si realizza la missione;
  • la missione, in quanto annuncio del Vangelo a servizio della vita piena, evidenzia quale è il fine verso il quale convergono la conversione e la comunione, anche quella dei beni.

C.- La prima comunità di Gerusalemme: RV 50; 164

La comunità ideale che il Gesù storico ideò, si cristallizzò, dopo l’esperienza della Pasqua, nel modello della comunità degli Atti degli Apostoli. Secondo il modello di questa comunità prototipa si instaurarono, durante la storia della Chiesa, le comunità dei discepoli missionari.

Questa comunità era caratterizzata da quattro elementi, ciascuno dei quali apportava il suo contributo al bene comune, così che la sua armonia e la sua testimonianza nascevano dall’interazione di quei quattro elementi, cioè dall’ insegnamento apostolico (didaké), dalle nuove relazioni che si stabiliscono tra credenti (= koinonía= comunione fraterna) e dalla conseguente solidarietà nell’uso dei beni, dalla celebrazione eucaristica e dalla preghiera.

«42Erano perseveranti nell'insegnamento degli apostoli e nella comunione, nello spezzare il pane e nelle preghiere. 43Un senso di timore era in tutti, e prodigi e segni avvenivano per opera degli apostoli. 44Tutti i credenti stavano insieme e avevano ogni cosa in comune; 45vendevano le loro proprietà e sostanze e le dividevano con tutti, secondo il bisogno di ciascuno. 46Ogni giorno erano perseveranti insieme nel tempio e, spezzando il pane nelle case, prendevano cibo con letizia e semplicità di cuore, 47lodando Dio e godendo il favore di tutto il popolo. Intanto il Signore ogni giorno aggiungeva alla comunità quelli che erano salvati» (At 2,42- 47; 4, 32-35).

In questi versetti, l’autore traccia un quadro ideale della comunità: insegnamento apostolico (didaké), relazioni nuove che si stabiliscono tra credenti (= koinonía= comunione fraterna) e solidarietà nell’uso dei beni, celebrazione eucaristica e preghiere.

1. L’insegnamento degli Apostoli

L’insegnamento rappresenta il contributo degli Apostoli alla comunità. In essa ciascuno dà ciò che possiede. Gli Apostoli possiedono l’esperienza con Gesù e danno appunto questa esperienza come contributo al bene comune. Essi sono stati con Gesù per tre anni, dal Battesimo di Giovanni fino all’Ascensione, hanno ascoltato l’insegnamento di Gesù, hanno visto i suoi miracoli, hanno esperimentato i suoi sentimenti. Nell’Ultima Cena Giovanni ha posato il suo capo sul petto di Gesù. Per tanto, per essi niente era più facile che narrare tutto questo – tanto più che avevano ricevuto il mandato dallo stesso Gesù – per approfondire la conoscenza che i cristiani hanno di Gesù, che era necessariamente povera e sommaria, giacché consisteva solo nell’ascolto del Kerigma.

2. La Koinonia (comunione fraterna)

La parola “Koinonia” esprime il contributo che danno i cristiani alla comunità. Essa significa “comunione”. Con chi i cristiani sono in comunione? Anzitutto con la persona degli Apostoli, alla quale sono legati per l’importanza che essa ha nella Storia della Salvezza. È a essi, infatti, che Gesù ha parlato, e ad essi ha affidato la diffusione del suo messaggio. Da qui nasce il naturale amore e rispetto alla loro persona. Inoltre i cristiani sono in comunione con gli Apostoli con l’accettazione del loro insegnamento e con la manifestazione della gratitudine verso di essi per un dono così importante, qual è la conoscenza del Signore Gesù.

C’è ancora la comunione dei cristiani tra di essi; è una comunione di persone, cioè di intelligenze e di cuore, che pensano e amano le stesse cose, praticamente la persona di Gesù, conosciuta per mezzo del Apostoli, tanto che nel Libro degli Atti si legge: «La moltitudine di coloro che erano venuti alla fede aveva un cuor solo e un’anima sola» (4,32).

La comunione fraterna sfocia nella comunione dei beni, così che «44Tutti i credenti stavano insieme e avevano ogni cosa in comune; 45vendevano le loro proprietà e sostanze e le dividevano con tutti, secondo il bisogno di ciascuno» (At 2, 44-45).

3. La frazione del pane

È il contributo di Cristo alla comunità, senza dubbio il più importante, per il fatto che la Chiesa è fondata intorno a Lui e, per tanto, Egli vuole vivere in mezzo ai suoi. L’Eucaristia è l’atto centrale della comunione, quello nel quale tutti si incontrano. È essa che fa la Chiesa, perché la Chiesa è riunita intorno a Cristo e Cristo è presente nell’Eucaristia.

4. Le preghiere

È l’ultimo elemento della comunità che ci segnala il Libro degli Atti. Ed è comprensibile. Dove c’è Cristo presente, la preghiera non può non scaturire spontanea. La Chiesa delle origini è un Chiesa in preghiera, “con Maria, la madre di Gesù” (At 1,14).

Ecco gli elementi che formano la comunione nella Chiesa delle origini e che si realizzano nella comunità di Gerusalemme. C’è in essa una unione di intelligenze e di cuori che impressiona i pagani e che li spinge a domandarsi chi sono quegli uomini e donne tanto diversi da loro. È la testimonianza che attira nuovi discepoli alla nuova fede.

Questi sono gli elementi che formano la comunità e nella quale si realizza la comunione. Ogni comunità ha una fisonomia propria, nella quale questi elementi assumono il loro segno caratteristico.

5. Simpatia di fronte al popolo

Alla luce degli Atti degli Apostoli si può introdurre un altro elemento costitutivo e criterio di identità della comunità, cioè, la simpatia di fronte al popolo. C’è nella comunità di Gerusalemme una comunione di intelligenze e di cuori che impressiona quelli di fuori e che li porta a domandarsi chi siano quegli uomini e donne così diversi da essi. Si tratta della testimonianza e della simpatia di fronte al popolo, che attraggono nuovi discepoli alla nuova fede; è una conseguenza normale della natura universale del messaggio evangelico e, perciò, uno dei criteri per conoscere se uno appartiene alla cattolicità.

Questa simpatia di fronte al popolo è una delle costanti dell’avventura della Chiesa primitiva: At 2,47; 4, 21;.33.; 15,13.

Questo fatto o grazia può intendersi come la forza di Dio che accompagna il ministero degli apostoli con segni e prodigi: At 3,12; 4,30; 6,8; 11,23; 14,26; 15,40.

Ma può significare anche che nello sforzo per creare una vera fraternità intorno a Gesù, i credenti stavano molto attenti di non divenire un ghetto e conservare quindi una disponibilità all’incontro sereno e rispettoso con gli altri così che una opinione pubblica non ostile permettesse che fosse meglio accolta la loro testimonianza. È proprio questo ciò che raccomanda san Pietro ai cristiani dispersi e marginati: 1Pt 3,15-16.

6. Insidie contro la vita della comunità di Gerusalemme:

vivere l'esperienza cristiana con riserve mentali e con mentalità individualistica

La presentazione ideale della vita della Comunità di Gerusalemme è perturbata da almeno due casi tragici, in cui appaiono dei virus che attaccano la comunione fraterna. Si tratta della frode di Anania e Saffira, sfociata in un pesante castigo (At 5,1-11) e della situazione di indecisione e ambiguità del giovane Èutico, che gli stava diventando mortale (At 20, 7-12).

6.1. Il caso di Anania e di Saffira: RdV 165.1

Il castigo così rigoroso, abbattutosi su Anania e Saffira in seguito alle parole di Pietro, riempì di timore i presenti, e tutti quelli che ne ascoltavano il racconto (v 5).

Anche a distanza di tempo il clamoroso episodio attira la nostra attenzione e ci invita a riflettere per comprendere quale è stato il peccato commesso dai due coniugi nella operazione finanziaria che avevano compiuto: vendita di un podere e consegna parziale del ricavato alla comunità.

A prima vista non sembrerebbe che ci fosse tanta malizia: ma le parole di S. Pietro sono dure e chiare: « Satana si è impossessato del tuo cuore e hai mentito allo Spirito Santo» (v. 3). La colpa dunque non era stata quella di trattenere per sé una parte del prezzo riscosso: nessuno aveva tolto loro la libertà di conservare l'intera proprietà del campo, o una parte del suo valore (5, 4): la colpa era quella di aver mentito, e mentire a questa comunità cristiana che lo Spirito Santo aveva radunata come inizio del Regno di Dio e continuava ad animare e ad accrescere, era mentire allo stesso Spirito Santo.

Come mai erano arrivati a questo accecamento? Quali strade aveva trovato Satana per condurli al grave peccato? È sempre utile ripercorrere col pensiero queste vie, per scoprire quale è stato l'inizio della deviazione: è più facile non imboccare la strada sbagliata, che tornare su quella giusta quando uno se ne è allontanato. La Scrittura non ci precisa l'iter sul quale i due coniugi sono stati guidati da Satana, ma trattandosi di beni materiali possiamo forse interpretare la Scrittura facendo uso di quella chiave che S. Ignazio fornisce nella cosiddetta contemplazione dei due vessilli (Esercizi Spirituali, nn. 136-147), in cui cerca di illustrare la tattica del nemico che vuole allontanare l'anima da Cristo. Satana, vi è detto, promuove nell'anima buona un attaccamento ai beni materiali, ma senza proporre qualcosa di propriamente illecito: è questo attaccamento che pian piano confonderà le idee dell'uomo, aumenterà in lui la ricerca di se stesso e del suo onore, lo raffredderà nella sua ricerca di Dio, lo condurrà al peccato formale e grave.

Così può essere stato per Anania e Saffira; da una parte capivano che la logica della fede abbracciata spingeva a mettere i beni materiali in comune con i propri fratelli; dall'altra comprendevano che erano liberi di tenere qualcosa per sé, e sentivano che questo poteva loro far comodo. Ne avranno discusso insieme, arrivando alla decisione di vendere le loro proprietà, perché così li ispirava la loro fede e l'esempio degli altri. Ma poiché il mettere tutto in comune non era obbligatorio, decisero anche di trattenere qualcosa per sé: permetteva loro qualche maggior comodità, e costituiva una sicurezza e garanzia per l'avvenire. Avranno pensato anche che se questo modo di fare era legittimo, tanto valeva dichiararlo pubblicamente. Ma Satana, che da una parte sottolineava la piena liceità di questo comportamento nello stesso tempo cominciava a confondere le loro idee. Suggeriva che non c'era bisogno di pubbliche dichiarazioni. che figura avrebbero fatto in confronto con Giuseppe di Cipro soprannominato Barnaba, che aveva consegnato tutto il ricavato dalla vendita del suo campo (4, 36-37) e con tanti altri che avevano fatto lo stesso (2, 45 e 4, 34-35)? Dovevano anche pensare al loro onore! Proprio perché agivano in piena legittimità, non era necessario dar ragione della propria decisione! Potevano dunque lasciare la comunità all'oscuro di questo piccolo peculio. Non poteva mica questa comunità pretendere di togliere loro quello spazio privato che ogni persona umana può e deve mantenere per salvaguardare la propria libertà e la propria dignità!

In questa maniera andava offuscando la loro intelligenza e confondendo in loro l'immagine di questa comunità cristiana nella quale «la moltitudine dei credenti aveva un cuore solo e un'anima sola» (4, 32). Essa costituiva una koinoniao comunicazione vicendevole prima di tutto nella fede e nella preghiera che stringeva tutti nel tempio di Dio (2, 46) e nel comunicare col corpo e il sangue di Cristo (ivi):ed essendo così riuniti nel suo nome, Gesù era in mezzo a loro (cfr Mt 18, 20), animava la vita interiore ed esteriore di tutti, e in modo speciale realizzava, con l'opera dello Spirito Santo, quella unità che proviene dall'amore scambievole che cerca di riprodurre e continuare sulla terra l'amore reciproco del Padre e del Figlio (Gv 17, 20-26).

Nell'ambito di questa unità, la condivisione dei beni («nessuno diceva sua proprietà, quello che gli apparteneva, ma ogni cosa era fra loro comune»: At 4, 32) era espressione e frutto della unità degli animi e dei cuori; e la menzogna di Anania e Saffira veniva a infrangere questa unità operata dallo Spirito Santo.

***

Che i pensieri suggeriti da Satana siano stati esattamente questi, o anche diversi, è in fondo, questione secondaria. Il fatto indubitato, verificato non solo qui ma in mille altri episodi della Scrittura e della storia, è che l'attaccamento ai beni materiali (il quale può abbinarsi tanto al possesso che alla privazione della ricchezza) ostacola la dedizione totale a DIO, e induce al peccato.

Forse nelle nostre comunità possono verificarsi situazioni che hanno qualche somiglianza con quella di Anania e Saffira, Per i religiosi oggi è più frequente il caso di svolgere un lavoro personalmente retribuito, o di godere una pensione. D'altra parte viviamo in un mondo in cui la preoccupazione principale è il benessere per il presente e la sicurezza per l'avvenire. Ecco allora la tentazione di trattenere per sé qualcosa di quello che si riceve, invece di conferire tutto alla comunità: e naturalmente un individualismo di questo genere è la rovina dell'amore fraterno e della vita comunitaria.

In alcuni casi la tentazione può essere aggravata dal comportamento di qualche Superiore o di qualche Economo, che non è abbastanza sollecitonel provvedere paternamente a tutta la comunità e nel « distribuire a ciascuno secondo il bisogno» (At 4, 35), e quindi induce i singoli ad « arrangiarsi»: responsabilità gravissima in ordine a una autentica vita di comunità religiosa.

Qualche riflessione sull'episodio di Anania e Saffira potrà quindi aiutare alcuni di noi,sia tra i responsabili, sia tra i singoli membri delle comunità, per una revisione di vita in vista della costruzione di una autentica e piena Koinoniadi fede, di amore e di beni, per avvicinarci sempre meglio a quell'ideale di unità che Cristo ha espresso nel suo testamento, chiedendo al Padre: «Come tu, Padre, sei in me e ioin te, siano anch'essi in noi una cosa sola, perché il mondo creda che tu mi hai mandato» (Cv 17, 21) [cf. Adolfo Bachelet, Economia e fede, 54-58)

L’episodio, per tanto, stigmatizza l’individualismo e l’amore del denaro che spinge i due a voler ingannare gli Apostoli e, attraverso gli Apostoli, lo Spirito Santo, presente in mezzo ai fratelli, non accettando la legge della piena comunione che comporta condivisione di cuori, di beni e di vita. Le persone che prendono questi due veleni vengono ridotte in autentici cadaveri nella comunità; muoiono alla comunione per auto-asfissia, per auto-emarginazione. Alla fine alla comunità non resta che riconoscerne la perdita.

Vivere l'esperienza cristiana con riserve mentali e con mentalità individualistica (l’esclusività degli affetti porta a quella dei beni), conduce la comunità al fallimento. La comunione dello Spirito Santo (2Cor 13, 13) ha ricevuto una ferita forse irreparabile. Gli Atti non parlano più della comunità di Gerusalemme, dopo quel caso. Paolo si fa promotore delle collette in favore dei poveri di Gerusalemme, di una condivisione dei beni che lascia intatto sostanzialmente il sistema di vita che da sempre conosce ricchi e poveri (cf 2Cor 8, 1-15).

6.2. Il caso di Èutico, il pericolo di vivere un po’ dentro e un po’ fuori della comunità:

RdV 39;41

Il secondo caso è tragico ma a lieto fine. Si tratta della storia del giovane Èutico della comunità di Tròade. Paolo era arrivato a Tròade da Filippi. La sera prima di partire, la celebrazione della Cena del Signore si allungò fino alla mezzanotte. Un giovane seduto sulla finestra si addormentò, cadde nel vuoto dal terzo piano e fu raccolto morto.

È un incidente di per sé impressionante, che diviene molto importante per il suo significato formativo e per la sua applicazione alla vita comunitaria.

Il racconto è contrassegnato da evidenti contrasti: l’oscurità della notte fuori e la molta luce dentro la sala; la solitudine e il silenzio fuori e membri della comunità che ascoltano la Parola dentro… Èutico era probabilmente un giovane spericolato ed imprudente, superficiale ed irresponsabile, perché invece di sedersi con tutti gli altri, andò a sedersi sul davanzale della finestra al terzo piano. Di conseguenza non stava né dentro né fuori: una metà del suo corpo era illuminata dalle abbondanti luci della sala, mentre l’altra metà rimaneva nell’oscurità; con un orecchio ascoltava la Parola e con l’altro stava attento a ciò che succedeva fuori nella strada o nelle vicinanze. Era un po’ parte della comunità e un po’ non lo era

Passavano le ore e Paolo non finiva di raccontare le meraviglie di Dio. Èutico, proprio perché non gli interessava tanto la riunione, si annoiò e cominciò a dormicchiare, finché un sonno profondo lo invase e non era più cosciente di ciò che succedeva intorno a lui. Ascoltava sempre di meno la Parola semplicemente perché non stava né dentro né fuori. Il suo grave problema era l’indecisione e l’ambiguità: voleva due cose alla volta senza decidersi veramente per nessuna delle due.

Alla fine Èutico si addormentò del tutto sul filo della finestra e perse l’equilibrio cadendo pesantemente al suolo tre piani più sotto. È da notare che invece di cadere verso dentro dove si celebrava la Vita, cadde verso fuori, nel vuoto e nel buio: e fu la sua morte. Ovviamente Paolo interruppe la predicazione, mentre certamente si scossero anche quelli che in sala potevano essere mezzo assopiti…

Quando Èutico smise di ascoltare e porre attenzione alla parola di Dio, si addormentò: questo significa che quando non si ascolta la Parola di Dio non si comprende più la vita, la realtà che ci circonda.

Forse Èutico non era l’unico che dormicchiava quella notte, ma il suo problema si fece più acuto di quello degli altri perché aveva scelto di sedersi un po’ dentro e un po’ fuori. Non apparteneva alla comunità ma neppure si decideva a lasciarla. La sua mente e il suo cuore erano divisi: voleva due cose allo stesso tempo, dimenticando che Gesù dice chiaramente che non si possono servire due padroni (Mt 6, 24; Lc 16, 13). Chi vive in questo modo è come chi si siede nella penombra del davanzale della finestra, cioè nell’ambiguità: rischia la sua vita e prima o poi la perde: se non si ascolta la Parola con la totalità della vita, ci si addormenta e si cade inevitabilmente nel vuoto...

Il libro degli Atti dice che Paolo risuscitò Èutico. L’Apostolo accompagnato da quel giovane ritornato alla vita, salì nuovamente alla sala al terzo piano per continuare a celebrare le meraviglie del Signore. Il testo non dice dove sia andato poi a sedersi quel giovane, ma di una cosa possiamo stare certi: non andò sul davanzale di quella finestra; forse neanche si voltava a guardarla. Forse scelse il lato opposto, dove si ascoltava bene la Parola di Dio e si sentiva di più il calore della comunità. Altri forse avevano sonno, ma quel giovane no certamente.

Èutico, che significa “fortunato”, è stato davvero un giovane con molta fortuna. La notte in cui cadde dalla finestra c’era una comunità in preghiera e un animatore che aiutava a celebrare i valori della Vita. Se non fosse stato così, nessuno avrebbe ricordato più quell’incidente. Invece questo giovane è entrato nella storia della salvezza per lasciare un messaggio chiaro a tutti coloro che rischiano di addormentarsi sul davanzale della finestra dell’ambiguità e della indecisione personale nel dono di sé. Tuttavia non sempre c’è un Paolo a portata di mano che ci risuscita!

D. Il Cenacolo-comunità, nato dall’ispirazione di san Daniele Comboni

Il Capitolo '97, in continuità con gli ultimi Capitoli, ripropone all'Istituto di vivere con più intensità la dinamica del Cenacolo-comunità, rifacendosi all'ispirazione di san Daniele Comboni: AC '97, 19; 27-30; cf DC 1975, “La vita comunitaria nell'Istituto Comboniano”, pp. 47-66; AC '85, 22-30; AC '91, 28-33.

Dio ci con-voca alla vita di “Cenacolo di Apostoli” per mezzo dell'ispirazione di Daniele Comboni, che pensò il suo Istituto come “un nuovo piccolo Cenacolo di Apostoli”: cf Regole '71, Cap I (S 2647-2648).

Per questo nel Capitolo '75 i capitolari si dicono “convinti che la convivenza fraterna é un elemento connaturale e necessario del nostro carisma missionario”.(DC '75, Vita comunitaria nell'Ist. Comb., nº 96, p. 49).

Vivere la dinamica del Cenacolo-comunità significa che ogni missionario comboniano si impegna a rispondere alla chiamata a dar vita ad una piccola comunità, che non sia soltanto centro di attività ma anche “Cenacolo”, cioè famiglia, che irradia calore e luce, che sia servizio di animazione e testimonianza con la vita e la parola all'interno del gruppo, inviato a evangelizzare...

A volte ci limitiamo a condividere tra noi la presenza fisica; più spesso condividiamo idee e progetti ... ; ma é possibile esporre idee sulla salvezza portata da Gesù Cristo e intraprendere progetti ambiziosi di evangelizzazione e promozione umana senza che la presenza di Gesù sia irradiata chiaramente dalla nostra persona e dalla nostra comunità sulle persone e comunità a cui siamo inviati come missionari.

Quando nella comunità prevale un clima da “fabbrica” e la ricerca affannosa dell'efficienza e del protagonismo personale o di gruppo, la crescita continua e il rinnovamento delle persone trovano gravi ostacoli, che pesano poi negativamente sull'edificazione della Chiesa come “Famiglia di Dio” e sul nostro camminare con la gente.

Per essere “Cenacolo di Apostoli”, cioè segno di Cristo e del suo Regno e quindi Buona Notizia per il mondo, è indispensabile che la gente che ci circonda possa vedere ciò che Gesù sta facendo in ciascuno di noi, come il nostro “stare con Gesù” si trasforma in una vita di servizio e di donazione silenziosa, lontana da ogni genere di potere e di ricerca di successo umano: AC '97, 23; 27.

“Dare testimonianza non è fare propaganda o causare impatto. È fare mistero. È vivere in modo tale che la vita sia inspiegabile se non esiste Dio” (Card. Suhard).

Evangelizzare come “Cenacolo di Apostoli” significa che un gruppo di comboniani parla agli altri di ciò che significa Gesù Cristo nella loro vita; significa che un gruppo di missionari si lascia vivere da Gesù e vive Gesù, contemplando in modo particolare il Mistero del suo Cuore Trafitto, che dà la vita per le persone più abbandonate, divenendo così segno di questo stesso Cuore in favore dei più dimenticati ed oppressi. Questo gruppo con il suo modo di vivere, di parlare e di agire proclama il Dio della vita che lo ha inviato e diviene una “benedizione”, un dire bene di Gesù Cristo con lo stile di vita e l'azione: AC '97, 29;  cf AC '91, 13.1a; 13.2.

Allora il Cenacolo-comunità è già una Buona Notizia per tutta la gente: è segno della presenza di Cristo Salvatore e del suo Regno; è segno che è in atto l'edificazione della Chiesa come “Famiglia di Dio”, che sta crescendo la nuova umanità nata dallo Spirito; è un invito alla gente di venire e vedere: Gv 1, 14.38-39; 1Gv 1, 1-4; AC '97, 27-30; cf AC '91, 30.1.

Il Cenacolo-comunità trova nella Missione la ragione della sua esistenza; infatti ciò che unisce i suoi membri è:

  • la passione per Gesù Cristo, il Crocifisso-Risorto, contemplato attraverso il Mistero del suo Cuore, che “dona la sua vita per le pecore più abbandonate”, perché diventino soggetti e protagonisti della propria storia e della salvezza già avvenuta;
  • la donazione incondizionata per il Regno e per la Chiesa: quello che Cristo ha già operato sul Golgota, ora è necessario che la Chiesa lo manifesti;
  • il coinvolgimento di tutta la Chiesa nell'impegno missionario: AC '91, 13; 13.1; 30; 30.1.

Per cogliere il significato che ha per noi il Cenacolo-comunità, dobbiamo mettere in relazione questa Icona evangelica con l'illuminazione, in cui Comboni è stato afferrato dall'amore e dal dinamismo del Cuore di Cristo per gli ultimi e che è stata da lui incarnata nel Piano per la rigenerazione dell'Africa.

Il Cenacolo-comunità che Comboni propone come forma di vita per i suoi missionari é un passo concreto, una realizzazione in atto o una parabola in atto nel processo di rigenerazione delle situazioni "Nigrizia". Noi nasciamo alla vita di “Cenacolo di Apostoli”, quando quella illuminazione che folgorò nella mente del Comboni, arriva nella nostra mente e discende nel nostro cuore così che cominciamo a identificarci con essa:

“Dall'alto ‑ vera esperienza carismatica ‑ gli giunge l'illuminazione di Colui che guida la storia: Dio attraverso il suo Figlio incarnato, morto e risorto, ascolta il grido del povero ed entra con tutto il suo essere nella storia e nel dolore degli ultimi. Si sente spinto ad assumere questa stessa storia e questo dolore diventandone parte e facendo "causa comune", anche con il rischio della vita”: AC '91, 6.1;  cf 6; 6.1-6; AC '97, 15-30.

Questa illuminazione, destinata a incarnarsi nella nostra vita, ci genera alla vita comunitaria, ci riunisce in un “piccolo nuovo Cenacolo di Apostoli” (RV 36), centro d’irradiazione missionaria, mentre si va compiendo in noi stessi la Buona Notizia che annunciamo: AC '91, 6.4;  RV 58.

Accogliendo il dono della vita comunitaria, diveniamo testimoni e artefici di quel “progetto di comunione” che sta al vertice della storia dell'uomo secondo Dio (Religiosi e Promozione Umana 24; GS 19; EAf 63).

Tuttavia, la storia e l’esperienza di ognuno di noi ci dicono che le insidie contro la vita della comunità di Gerusalemme, sonno accovacciate anche alla porta del nostro «Cenacolo-comunità», nato dall’ispirazione di san Daniele Comboni.

E.-San Daniele Comboni, “tutto povero” consacrato “servo dei poveri negri nella povera Africa centrale”

Quando ci incontriamo con una persona che per qualche ragione si impone alla nostra attenzione, nasce subito in noi il desiderio di domandarle chi è, da dove viene, dove è diretto, oppure che cosa fa e come è arrivata ad essere la persona che è.

1. “Vengo da Limone…”

Ho immaginato di fare questa domanda a Comboni, e mi è sembrato di ricever una risposta in questi termini:

«Vengo da una località, a circa due chilometri dal centro di «Limone sul Garda», chiamata Tesöl, diminutivo di «tesa», letteralmente «luogo dove si tendono le reti per gli uccelli»; qui ho trascorso la mia fanciullezza e ho cominciato a preparare quelle reti che avrei teso verso altri orizzonti, perché chiamato a essere pescatori di uomini.

Quanto a Limone, il suo nome è comunemente connesso ai frutti di limoni che venivano coltivati nei “giardini” o “limonaie”, cioè in serre preparate in modo da proteggere gli agrumi dal rigore dell’inverno.

Quando venni alla luce il 15 marzo 1831, Limone era completamente diverso da come lo puoi vede oggi; era un paese povero di poche centinaia di abitanti, circa 500, isolato dal resto del mondo, non raggiungibile per comode vie di terra, ma solo attraverso sentieri sassosi che calavano dalle montagne retrostanti (la strada è giunta solo nel 1930); chi voleva raggiungere Limone in poco tempo doveva farlo in barca, talvolta rischiando i pericoli del lago in burrasca.

Le autorità di Venezia, che dal 1426 al 1797 estendeva il loro dominio fin qui, per secoli lo hanno riconosciuto come il paese più povero della Riviera. Tale rimase durante il periodo in cui Francesi e Austriaci si contesero e si alternarono nella dominazione della Riviera e dopo che l’impero Austro-Ungarico, nel 1815, vi si insediò stabilmente; tale era quando successivamente, nel 1859, cominciò ad appartenere al regno di Italia.

Per me, l’essere nato come suddito dell’impero Austro-Ungarico e divenuto poi cittadino italiano, è stata una circostanza favorevole, perché mi apriva ad orizzonti che si estendevano oltre l’angusto spazio in cui era rinchiuso Limone. A questo mi aiutava anche la visione del lago che, solcato continuamente da imbarcazioni di vario genere, mi invitava a guardare lontano e a sognare terre sconosciute….

La gente, tra il via vai dei dominatori, viveva protesa alla sopravvivenza, ma disposta a fare ogni sforzo per migliorare le proprie condizioni. Fu così che ha imparato l’arte della pesca, tramandandosi gelosamente ogni segreto da padre in figlio; con tenacia seppe strappare la terra alla montagna e si distinse per la coltivazione degli olivi e dei limoni. Inoltre seppe far fiorire attività varie di artigianato, manifatture e di piccole industrie come le cartiere. Era così Limone nell’Ottocento.

I Comboni vi giunsero casualmente verso il 1818, quando mio zio Giuseppe e mio papà Luigi migrarono da Bogliaco, frazione di Gargnano, che occupa una posizione centrale nella riviera bresciana, nell’Alto Garda, a sud di Limone. Si stabilirono nella limonaia del Tesöl, alle dipendenze di una ricca famiglia della zona. In seguito la proprietà del sito è passata ad altri padroni e lo zio Giuseppe prese altre strade. A servizio del nuovo proprietario della limonaia rimase mio papà, che divenne così il “giardiniere” del Tesöl, cioè contadino dedito alla coltivazione dei limoni e degli ulivi circostanti. Fu allora che sposò mia mamma, Domenica Pace, figlia di un lavoratore in una cartiera di Limone, anche lui immigrato di Magasa, paesino che faceva parte del Trentino e quindi dell’impero Austro-Ungarico. Fu un matrimonio tra emigrati, messi in movimento dalla povertà che poi li fece incontrare.

La limonaia del Tesöl era una come le altre, ma posta in zona montuosa, appoggiata alle rocce impressionanti di una montagna sovrastante. I miei genitori trovarono alloggio nella modesta cassetta, posta ai fianchi della stessa limonaia.

La casa dove sono nato, lontana dall'abitato, in una frazione isolata di un paese altrettanto isolato, è paragonabile alla grotta di Betlemme (S 111-113). In questa casa, circondata da luoghi agresti dominati da prati e da campi di olivi, mi sono inoltrato nell’avventura della vita, sostenuto dalle cure amorevoli di papà Luigi, “giardiniere”, e di mamma Domenica, “casalinga”, soprannominata Nina, aiutandoli nei loro lavori e giocando con gli amici.

Il richiamo a Betlemme non è dovuto alle sole condizioni materiali dell’abitazione; in casa mia, in effetti, si respirava l’aria evangelica della grotta dei pastori, e anche della casa di Nazaret. Con papà Luigi e mamma Nina legatissimi a me, il quarto di otto figli, morti tutti quasi in tenera età, formavamo una famiglia unita, ricca di fede e valori umani; vivevamo occupati nei vari lavori propri dei contadini, radicati nella confidenza in Dio e nella sua Provvidenza.

Papà Luigi era ben dentro la cultura contadina del tempo, amava la musica, tanto che fu uno dei fondatori della banda musicale del paese, e viveva una vita spirituale popolare molto superiore alla media della gente. Mia mamma era una “casalinga” che si distingueva per la sua delicatezza e la sua religiosità, che condivideva con mio padre.

La formazione spirituale ricevuta in casa è frutto di questa sintonia spirituale tra i miei genitori, che sfociava in un amore familiare fondato su una grande fede in Dio. Nei miei genitori questa fede diviene coinvolgimento nella vocazione missionaria del loro unico figlio, in me certezza della vocazione e unità di misura per verificare la mia fedeltà ad essa; l’esempio del loro sacrificio nel donare il figlio alle missioni diviene in me sprone a dedicarmi con altrettanta generosità ai fratelli dell’Africa.

Nonostante la distanza di due chilometri dalla chiesa parrocchiale, ero assiduo al catechismo, al canto del vespro e al servizio della messa come chierichetto.

Anche se la storia di Limone è una storia di povertà, la chiesa parrocchiale, dedicata a S. Benedetto, è fornita in sovrabbondanza e in qualità di tutto ciò che è necessario per la pratica e lo sviluppo della vita cristiana dei parrocchiani.

Avendo manifestato propensione allo studio, i miei genitori mi fecero dare lezioni private a pagamento, in seguito mi inviarono a Verona presso una famiglia di limonesi. Qui manifestai l’intenzione di farmi prete e fui iscritto, come esterno, al Seminario diocesano di Verona, ma la povertà dei miei genitori non mi permise di continuare. Allora mi venne incontro la mano della Provvidenza, aprendomi le porte dell’Istituto Mazza, che raccoglieva giovani poveri per prepararli alla scelta di una professione nel mondo, del sacerdozio o della vita religiosa.

Come vedi vengo da una storia di emigrati e di povertà familiare ed ambientale. E fu proprio questa mia situazione di povertà, vissuta con operosità e fiducia nella Provvidenza, che mi portò all’Istituto Mazza. Qui sentì il richiamo di altri più poveri di me, tanto che la povertà estrema della Nigrizia divenne la passione della mia vita.

Ma voglio riprendere la storia dei Comboni, arrivati come emigrati a Limone, perché ti fa capire meglio il significato della mia partenza per Verona e per l’Africa. Ti ho accennato che a un certo punto mio papà rimase come il “giardiniere” del Tesöl, mentre suo fratello Giuseppe prese altre strade.

Per comprendere questo evento all’interno del mio gruppo familiare, devo dirti che nell’Ottocento si tentò anche a Limone la via industriale. E ciò avvenne proprio ad opera delle famiglie Comboni che nel frattempo si erano ampliate in paese, e alcune di esse riuscirono a raggiungere una discreta fortuna. I Comboni infatti hanno impiantato una filanda, una fabbrica di cappelli di lana, una fabbrica di magnesia.

Provenendo da una situazione familiare disagevole, sarebbe stato logico e non mi sarebbe stato difficile tentare con i miei parenti la scalata al benessere economico e al successo sociale. Ma l’ambiente che respiravo in casa e la formazione che andavo ricevendo all’Istituto Mazza, mi hanno spinto a sviluppare le mie capacità umane e spirituali in altra direzione, aprendomi cioè alla vocazione missionaria in favore dell’Africa Centrale. Sono consapevole quindi di essere una evidente realizzazione della Parola di Dio, quando dice che a Lui niente è impossibile, così che quando decide di intervenire e trova un cuore disponibile avvengono nella storia cose nuove e grandi…

Ti faccio questo accenno per invitarti a riflettere alla luce della mia storia su quelle che voi chiamate sfide della nuova geografia vocazionale, per cui le comunità dell’Istituto saranno sempre più internazionali e multi-culturali con la possibilità che sorgano difficoltà di vario genere. La mia esperienza personale mi suggerisce di dirti che sarà l’incremento di una profonda vita spirituale a livello personale e comunitario che potrà smuovere dal di dentro la storia personale di ognuno verso un’identità condivisa pur nella diversità di modi di essere e di comportamenti, che dia vita ad un gruppo di persone, in grado di mettere in moto una vita in fraternità e un piano di azione evangelizzatrice nel mondo di oggi.

Infine ti invito a benedire e lodare con me il Signore, perché tutto quello che Egli fa è veramente buono! (S 7172).

Dio solo, infatti, poteva scorgere un paesino così inaccessibile e rintracciare in esso questo bambino povero, per sceglierlo come suo apostolo e rivestirlo dell’Ordine episcopale: nato nelle grotte del Tesöl, mi ha scelto per evangelizzare la grande Africa; il suo sguardo si è posato proprio su di me, figlio di poveri ed emigrati, per muovere i regnanti ad ascoltare gli oppressi; parrocchiano di una parrocchia insignificante, per illuminare Papa e Vescovi su problemi universali della Chiesa!

Confrontando le mie vicende missionarie con le mie umili origini di “un povero figlio di un giardiniere di Limone”, un senso di stupore ha sempre pervaso la mia anima; Dio mi ha sorpreso nei suoi disegni e mi muove a eterna riconoscenza (Cf. S 642; 981-982; 4680).

E non ti dimenticare che Dio sorprende ancora oggi. Egli sceglie giusto e prepara degnamente i suoi eletti, quando sotto la guida della Chiesa, imparano a fare emergere e a sviluppare le qualità umane e spirituali di cui sono dotate, per crescere come cristiani che sanno rispondere con dedizione totale nel quotidiano della vita alla vocazione ricevuta, di cui sono fermamente convinti.

Allora l’anelito missionario di questi eletti sarà straordinario, perché non scaturisce da forze e calcoli umani indirizzati alla pura ricerca di autoaffermazione, bensì da una fede illimitata, da una speranza aperta alle onnipotenti capacità di Dio, da un amore obbediente a Dio ed eroico verso i fratelli più bisognosi e abbandonati.

Allora faranno della loro vocazione una vita di spirito e di fede, che sarà lievito delle loro doti umane e dei loro valori culturali che portano come baglio appresso, e quindi delle loro scelte nel quotidiano della vita. Saranno così veri uomini di Dio e uomini per gli uomini, uomini coraggiosi e audaci nell'affrontare le sfide missionarie del loro tempo, mossi dalla pura vista del loro Dio, consapevoli che la vita di un missionario si regge “col tener sempre gli occhi fissi in Gesù Cristo” e che la sua azione deve avere carattere ecclesiale, risoluti a fare ciascuno la sua parte con fiducia grande che nella Chiesa opera lo Spirito Santo, nonostante e attraverso i limiti degli uomini».

2. L’Omelia di Khartoum:

Inno dell’amore sponsale di Comboni per la Nigrizia, vissuto in povertà ed obbedienza

L’apice del cammino della totale dedizione di Comboni ai popoli dell’Africa Centrale è segnato dall’Omelia di Khartoum (11 maggio 1873), pronunciata in occasione della presa di possesso della missione e rivolta a tutta la Nigrizia.

In essa traspare con chiarezza che nella vita di san Daniele Comboni c’è un intimo rapporto tra consacrazione-missione e professione dei consigli evangelici.

Infatti, la vita del Comboni è segnata da un itinerario spirituale che culmina nella consacrazione missionaria, cioè nel dono totale della propria vita per la Nigrizia. Questa dedizione totale alla causa missionaria nasce in lui come risposta alla certezza di essere stato chiamato da Dio (S 6885-86). Mosso da questa certezza, Comboni fa l’esperienza dell’amore di Dio Padre fino ad essere disposto a donare la propria vita come Cristo, Buon Pastore, trafitto sulla croce (cf RV 2-3; 46).

In questo itinerario è possibile cogliere il nesso profondo tra vocazione, consacrazione e missione e come la consacrazione missionaria è da lui vissuta come partecipazione nell’amore casto povero ed obbediente del Cuore di Gesù.

L’Omelia di Khartoum del 1873 può essere considerata come l’Inno che canta la partecipazione di Comboni a questo amore.

In essa, infatti, Comboni mette in luce come egli di fatto vive la consacrazione missionaria nella professione dei consigli evangelici in chiave missionaria, cioè qualificata dai suoi ideali missionari, incentrati sul Cuore di Gesù e la Nigrizia. La sollecitudine di Comboni per le sorti dell’Africa rivela la profondità del dono di sé a Dio, vissuto come partecipazione nell’amore casto, povero ed obbediente del Cuore di Gesù, “che ha palpitato anche per i poveri neri dell’Africa centrale” (S 5647). Non è difficile, per tanto, individuare nell’Omelia di Khartoum gli elementi di una formula di consacrazione missionaria, in cui Comboni fa suoi questi palpiti mediante la pratica dei consigli evangelici. Essa può essere considerata come l’Inno dell’amore sponsale di Comboni per la Nigrizia; un amore sponsale, vissuto in povertà ed obbedienza, così come l’ha imparato dal Cuore di Cristo. È un Inno che nasce dal cuore di Comboni, totalmente spoglio di se stesso e aperto a Dio e ai fratelli, che gli permette di far suoi i sentimenti del Cuore di Gesù per gli Africani e di dichiararsi di fronte ad essi “vostro per sempre”: S 3156‑3159.

Sponsalità (Castità)

“Il primo amore della mia giovinezza fu per voi… Lasciando quanto più caro avevo al mondo venni tra voi… Voi siete figli miei, vi abbraccio e vi stringo al cuore: io sono vostro Padre… Assicuratevi che l’anima mia vi corrisponde un amore illimitato per tutti i tempi e per tutte le persone… Io ritorno fra voi per non più cessare di essere vostro”.

La castità è vissuta da Comboni come totale donazione di sé alla Missione nell’Amore che abita il suo cuore, come un lasciarsi abitare dall’Amore irradiandolo sulle persone che Dio gli affida:

Da questa testimonianza si possono capire tante altre espressioni del suo zelo apostolico:

  • “Vorrei avere cento lingue e cento cuori per raccomandare la povera Africa, che è la parte del mondo meno nota, e più abbandonata” (S 1215).
  • “Io non ho che la vita per consacrare alla salute di quelle anime: ne vorrei avere mille per consumarle a tale scopo” (S 2271).
  • “Noi lavoriamo e soffriamo per amore di Dio e delle anime” (S 6855).
  • “La missione è l’unico desiderio della mia vita” (S 5061).
  • “La vita del missionario è carità, ma una carità anche paterna” (S 5859).
  • “Il Signore l’ho sempre servito e lo servo adesso, e lo servirò sempre fino alla morte in mezzo alle più gran croci e patimenti, e col sacrificio della mia vita” (S 6900).

Solidarietà (Povertà):

“Io ritorno fra voi per non più cessare d’essere vostro… Voi siete la mia parte e la mia eredità… Il vostro bene sarà il mio e le vostre pene le mie… Il più felice dei miei giorni sarà quello, in cui potrò dare la vita per voi”.

Comboni nella Omelia di Khartoum rivela una povertà vissuta anzitutto come solidarietà nella reciprocità con il suo popolo; unica ricchezza infatti di Comboni è il suo popolo; ciò che egli è e ciò che ha, appartiene al popolo ed il popolo appartiene a lui.

Allo stesso modo che la castità, anche la povertà è vissuta da Comboni come irradiazione dell’amore di Dio che arde dentro il suo gran cuore verso “i poveri neri” e diviene sua compagna inseparabile nel servizio missionario:

  • Egli fin dall’inizio della sua esperienza missionaria costata che i mazziani sono più poveri dei tedeschi e perciò hanno più speranza di riuscire nella missione: S 227 e 208.
  • Si dichiara povero anzi poverissimo per vocazione e necessità, perché sacrifica tutta la sua esistenza per soccorrere i suoi fratelli in Cristo: S 1769; 2320.
  • Per questo i mezzi di cui dispone sono a servizio della missione: “Non mi è permesso, in coscienza di spendere un soldo per il mio piacere”: S 1772.
  • In lui la povertà è anzitutto umiltà e spirito di sacrificio. Ricordando la sua preghiera in Terra Santa si definisce: Povero, poverissimo al cospetto del Signore: S 87. In seguito, salutando il padre dalla tribù dei Kich (20Novembre 1858) in risposta alla lettera in cui gli annunciava la morte della mamma, si dichiara “Vostro affez.mo e grat.mo figlio tutto povero D. Daniele Comboni Servo dei negri nella povera Africa Centrale”: S 437; Povero crocifisso, ma sempre allegro e contento: S 2026.
  • Povero per vocazione, Comboni possiede come unica ricchezza un gran cuore. Massaia ha colto come caratteristica peculiare della vita del Comboni il suo gran cuore, totalmente libero, in cui arde l’amore di Dio che si riversa sui “poveri negri”: “Ho sempre ammirato come ammiro attualmente, la vostra costanza nell’amore verso i poveri negri… Quanto bramerei abbracciarvi ancora una volta… Voi mi conoscete e perciò non vi aspettate da me cerimonie inutili. Sapete che non vi amo per la vostra bella figura, ma per il vostro gran cuore e per l’amore di Dio che vi arde dentro; e ciò vi basti”: Positio I, pp. CI-CII.
  • Abitato dall’amore di Dio e perciò libero da ogni ricchezza, da ogni paura e da ogni affetto, Comboni non può vivere che per l’Africa: “Fissate nella mente che Comboni non può vivere che per l’Africa: mi raccomando alla vostra protezione, fratellanza e amicizia. Bisogna che le opere di Dio incontrino difficoltà. Così portano i disegni adorabili della Provvidenza”: S 1185.
  • La povertà di Comboni è partecipazione e fiducia nel sacrificio glorioso di Gesù sul Golgota: “Solamente Colui, che col suo sacrificio glorioso sul Golgota volle che fosse estirpata per sempre dalla terra la schiavitù, egli che annunciò agli uomini la vera libertà, chiamando tutte le nazioni e ogni singolo essere umano alla figliolanza di Dio, al quale l’uomo rigenerato con la vera fede può dire Abba Pater, solamente Lui potrà liberare l’Africa dalla macchia della schiavitù”: S 1820.

Appartenenza (Obbedienza):

“Io prendo a far causa comune con ognuno di voi… non ignoro punto la gravezza del peso che mi indosso…. difendere gli oppressi… mi aiuterete a portare questo peso con gioia…”.

L’obbedienza è vissuta da Comboni fondamentalmente come obbedienza alla vocazione, cioè come fedeltà a Dio nel servire il popolo che Egli gli affida attraverso la Chiesa; un’obbedienza quindi che si traduce in attenzione, in appartenenza e quindi ascolto e obbedienza al popolo di Dio nelle sue necessità. Questa obbedienza al popolo di Dio lo fa essere risposta di Dio al Suo popolo.

Questo stile di obbedienza nasce da alcune convinzioni e atteggiamenti che segnano la vita del Comboni:

  • L’obbedienza che Comboni impara dal Cuore di Gesù, è obbedienza anzitutto alla Chiesa. Egli è convinto che riceve e vive la sua vocazione nella Chiesa e per mezzo della Chiesa, perciò si abbandona ai superiori, alla Santa Sede, a Propaganda Fide: “Io ho venduto la mia volontà, la mia vita, e tutto me stesso alla S. Sede, cioè, al Vicario di Cristo, all’E.mo Card. Prefetto di Propaganda ed ai loro venerati Rappresentanti, ed intendo lavorare unicamente, e direi ciecamente, sotto la loro sacra guida ed autorità, e mi rifiuterei anche a convertire, se lo potessi con la grazia di Dio, tutto il mondo, ove non lo fosse per comando ed autorità della S. Sede e dei suoi Rappresentanti, fonte unica di benedizione e di vita. Per me la divina Provvidenza è unicamente l’autorità della S. Sede, a cui fu detto: qui vos audit, me audit”: S 2635.
  • Questa obbedienza “cieca” in Comboni è fedeltà a se stesso, a ciò che egli è in virtù del suo “sì” alla vocazione ricevuta, è autenticità di vita a cui non può rinunciare, perciò: “Se il Papa, la Propaganda e tutti i Vescovi del mondo mi fossero contrari, abbasserei la testa per un anno, e poi presenterei un nuovo piano: ma desistere dal pensare all’Africa, mai, mai”: S 1071.
  • L’obbedienza che nasce in Comboni come fedeltà alla vocazione ricevuta e vissuta in comunione con l’autorità della Chiesa, è praticata all’insegna del sacrificio, dell’intelligenza e della creatività, che esigono un esercizio maturo della libertà personale: “La lacrimevole miseria dei poveri Negri pesa immensamente sul mio cuore, e non v’è sacrifizio ch’io non mi senta disposto ad abbracciare, per il loro bene. Se l’Em. V. non approverà un Piano, io ne farò un altro: se non accoglierà questo, ne apparecchierò un terzo, e così di seguito fino alla morte” (a Barnabò, S 1011).

3.La fiducia di Comboni in san Giuseppe,“tipo” dell’uomo credente, che incarna il mistero della Provvidenza divina: RdV 162

Nell’esperienza spirituale di Comboni, accanto a Gesù e Maria ha un posto di rilievo anche la figura di san Giuseppe.

Comboni è entrato in comunione con san Giuseppe fin dal periodo della sua formazione giovanile presso l’Istituto Mazza, dove entrò nel 1843. Nella Chiesa dell’Istituto dedicata a san Carlo, ha iniziato a contemplare quel quadro che don Mazza vi aveva posto per simboleggiare «le principali devozioni» che «voleva istillare ai giovani: in mezzo il Sacro Cuore di Gesù e il Cuore Immacolato di Maria con a fianco san Giuseppe. Forse nasce già da qui il fatto che negli Scritti di Comboni appare con frequenza il riferimento a S. Giuseppe in unione ai Cuori di Gesù e Maria.

Questo periodo è fondamentale per capire il modo con cui Comboni si rapporta con san Giuseppe. Nato, infatti, in una famiglia povera ed educato in un Istituto povero sotto lo sguardo di san Giuseppe, si è trovato a dover fondare la sua opera praticamente “dal nulla”. Trovandosi quasi solo ad organizzare un’opera colossale, divenne per lui ovvio, nella sua logica di fede, rivolgersi fiduciosamente a S. Giuseppe, sceglierlo quale Economo della Missione, rivolgendosi a lui con disinvolta confidenza ogni volta che si trova in necessità.

Per tanto, non è difficile notare che i testi, in cui Comboni esprime il suo rapporto con san Giuseppe, trovano la loro radice spirituale nella formazione religiosa ricevuta in Verona. In essi sviluppa il senso della Provvidenza inculcatogli nell’Istituto Mazza, trovando molto concretamente in san Giuseppe il celeste e sicuro strumento di essa. Questo dato è indispensabile per capire che il modo di esprimersi di Comboni su san Giuseppe è sempre complessivo, cioè non è mai limitato a interessi puramente materiali, ma nasce sempre da un rapporto fatto di “spirito e fede” e si estende al campo spirituale e missionario.

Questo rapporto si è approfondito dopo che Pio IX, durante il Concilio Vaticano I, l’8 dicembre 1870, ha proclamato S. Giuseppe Patrono della Chiesa universale.

Da questo atto del Magistero il particolare rapporto di Comboni con san Giuseppe prese maggior consistenza. Comboni, infatti, vedeva la Missione in funzione della Chiesa e, quindi per lui, se san Giuseppe era “Protettore della Chiesa universale”, lo era anche della Nigrizia.

Da questo momento Comboni comincia a venerarlo come “Protettore della Chiesa Cattolica e della Nigrizia”, e a maggior ragione lo conferma quale Economo della Missione, precisando così quella profonda fede nella Provvidenza che sempre da giovane l'aveva animato.

Per tanto, a partire dalla sua intensa devozione personale e in armonia con la tradizione ecclesiale per Comboni san Giuseppe è Protettore, Patrono, Patriarca, Papà della Nigrizia, Re dei galantuomini, ecc.

Verso la fine della vita, in una lettera inviata al Sembianti dal El-Obeid il 20/4/1881, parla della «poesia delle grandezze di san Giuseppe»:

«Mi dimenticai sempre di pregarla a ritirare da Mons. Stegagnini … le diverse copie delle due Operette sul S. Cuore e su S. Giuseppe che compose e mi regalarono e mi mandarono appena uscite alla luce le sorelle Girelli di Brescia. Di più bramerei che ciascun missionario e ciascuna Suora dell'Africa Centrale possedesse e si familiarizzasse bene con questi due stupendi libri (oltre il Kempis ed il Rodriguez) per conoscer bene le ricchezze del Cuore di Gesù Cristo e la poesia delle grandezze di S. Giuseppe.

Questi due tesori uniti alla fervorosa divozione della gran Madre di Dio, Immacolata moglie del grande Patrono della Chiesa Universale e della Nigrizia, sono un talismano sicuro a chi è occupato degli interessi dell'anime nell'Africa Centrale qui in mezzo alle anime d'ambo i sessi di questi paesi, e danno il coraggio ed accendono la carità di trattare familiarmente e con disinvoltura [le anime della Nigrizia] per convertirle a Cristo ed alla Madonna» (Al P. Sembianti, dal El-Obeid, 20/4/81, S 6652-6653).

Questo testo è molto significativo in quanto ci aiuta a capire in profondità il vissuto di Comboni nella sua relazione con san Giuseppe. Essendo poi scritto verso la fine della sua vita e riferito ai suoi missionari/e, assume quasi il significato di testamento spirituale per tutti i missionari comboniani di ogni tempo.

In particolare l’espressione «la poesia delle grandezze di san Giuseppe” ci fa capire che S. Giuseppe nella preghiera di Comboni è molto di più che “l'Economo celeste” della Missione, anche se questa espressione proviene già da un cuore mosso da “spirito e fede”; ci fa capire che sulla ripetitività delle formule di preghiera di domanda emerge in Comboni la profondità del suo affetto verso san Giuseppe, in un contesto di comunione, stima e fiducia, che lo porta a collocarlo tra “i tesori” della sua vita, accanto al Cuore di Gesù e al Cuore di Maria.

Per leggere in profondità l’affetto di Comboni nella sua comunione con questo tesoro che è S. Giuseppe, ci può aiutare il seguente testo di J. Benigne Bossuet, che sembra riecheggiare nelle parole di Comboni:

«Dio cercava un uomo secondo il suo cuore per mettergli nelle mani quello che aveva di più caro: voglio dire la persona del suo Figlio unico, l'integrità della sua santa Madre, la salvezza del genere umano, il segreto più geloso del suo consiglio, il tesoro del cielo e della terra. Non sceglie Gerusalemme e le altre città rinomate: si ferma su Nazaret; e in questo borgo sconosciuto cerca un uomo ancor più sconosciuto, un povero lavoratore, cioè Giuseppe, per affidargli una missione, della quale gli angeli si sarebbero sentiti onorati, perché noi comprendiamo che l'uomo secondo il cuore di Dio deve essere cercato nel cuore, e che sono le virtù sconosciute quelle che lo rendono degno di questa lode.

Se mai ci fu un uomo al quale Dio si è dato con piacere, costui è senza dubbio Giuseppe, che lo tiene nella sua casa e nelle sue mani, e che gli è presente in tutte le ore, maggiormente nel cuore che davanti agli occhi... La Chiesa non ha niente di più illustre, perché non ha niente di più nascosto».

Certamente Giuseppe emerge nel cuore di Comboni dalla “nube di testimoni” (cfr. Eb 12,1) come il “tipo” dell’uomo credente, che incarna il mistero della Provvidenza divina (S 314), la quale governa con il suo «patrocinio universale» l’intera Storia della Salvezza. Egli è l’uomo silenzioso, che medita, obbedisce e tace, in una totale disponibilità al disegno di Dio su di lui, che lo fa “modello” del missionario della Nigrizia, che Comboni descrive nel Cap. X delle Regole del 1871:

«La vita di un uomo, che in modo assoluto e perentorio viene a rompere tutte le relazioni col mondo e colle cose più care secondo natura, deve essere una vita di spirito, e di fede» (S 2698).

Il vissuto di Comboni si traduce nel non cercare « a Dio le ragioni della Missione da lui ricevuta, ma opera sulla sua parola, e su quella de' suoi Rappresentanti, come docile strumento della sua adorabile volontà» (S 2702).

Giuseppe, esaurito il ruolo di conoscere il mistero dell’Incarnazione e di attuarlo, inserendo Cristo nel popolo della salvezza, si eclissa. E il missionario «in ogni evento ripete con profonda convinzione e con viva esultanza: servi inutiles sumus; quod debuimus facere fecimus. Luc. XVII» (S 2702).

Comboni, dopo aver fatto sua la “filosofia della Croce” (S 2326), vedendo in essa la sua “sposa per sempre” (S 1710), dopo averne profondamente sentito il peso, mentre intorno a sé vi è il buio e l’isolamento morale più assoluto, proferisce parole che testimoniano l'autenticità del suo apostolico eroismo, fondato su una fede pura e su un amore ardente per l'Africa da salvare, che lo assimilano al Trafitto sulla Croce:

«Benché sia certo di soccombere fra breve a tante croci, che mi pare in coscienza di non meritare, pure sia sempre benedetto il mio Gesù, vero vindice dell'innocenza, e protettore degli afflitti; la Nigrizia si convertirà, e se nel mondo non avrò consolazione, l'avrò in cielo. Vi è Gesù, Maria, Giuseppe, e se vengono meno gli uomini non verrà meno Dio che salverà la Nigrizia» (A P. Sembianti da El Obeid, 9 luglio 1881, S 6815).

Avviene in Comboni proprio come avvenne per Giuseppe, il quale visse la sua vicenda terrena inabissato nell’adorazione di Dio, a cui si affidava totalmente, e insieme impegnato quotidianamente nel duro lavoro materiale, e prima che si compisse il mistero del “suo Figlio”, prima che Gesù consumasse la sua Missione sulla Croce, aveva già preso sopra di sé il peso di un destino e di una missione simile a quella di Gesù.

Comboni canta «la poesia delle grandezze di san Giuseppe”, anzitutto con la fiducia nella sua protezione; una fiducia spinta fino all’audacia ed espressa in termini pieni di entusiasmo:

«Lode e Gloria ai SS. Cuori di Gesù e di Maria, a S. Giuseppe…» (Dossologia finale del Piano, 1864, S 846)

«Il Vicariato dell'Africa Centrale, grazie alla poderosa assistenza dell'inclito Patriarca S. Giuseppe, che dell'Africa Centrale divenne il vero Economo, dopo che il Santo Padre lo proclamò Protettore della Chiesa Cattolica, non mancherà mai di sufficienti risorse» (Relazione al card. A. Franchi, Roma, 29 giugno 1876, S 4170).

«Ieri fu un giorno felice, perché ho potuto parlar chiaro a S.Giuseppe. Capisco che bisogna essere arditelli con questo benedetto Santo» (A mons. Luigi di Canossa da Vienna, 20 marzo 1871, S 2416).

«S. Giuseppe è stato, è e sarà sempre il Re dei galantuomini, ed un maestro di casa, ed un Economo di molto giudizio, ed anche di buon cuore» (Al card. Alessandro Barnabò da El Obeid, 12 ottobre 1873, S 3434).

«Viva S. Giuseppe, Protettore della Chiesa universale, ed economo della Nigrizia» (Al card. Alessandro Franchi da Khartoum, 26 giugno 1875, S 3849).

«S. Giuseppe è il vero papà della Nigrizia» (Al Card. A. Franchi 1876, S 4025).

«Tutta la nostra fiducia è riposta nel SS. Cuore di Gesù, in Nostra Signora del S. Cuore, in S. Giuseppe…» (A Leone XIII, 1878, S 5216)

Comboni canta ancora «la poesia delle grandezze di san Giuseppe”, perché trova in lui uno stile esemplare di «sequela di Cristo», il quale «da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà» (2Cor 8,9): «Oh! San Giuseppe fu povero per provvedere agli altri» (S 1516). E ancora: «Il mio economo, benché sia stato molto povero in vita sua, ora essendo l’arbitro dei tesori del Cielo, non ha mai mancato di aiutarmi» (S 3520).

È uno stile praticato da Comboni: sempre mendicante in terra per donare all’Africa “fede cattolica e civiltà cristiana» (S 6214), adesso – possiamo dire – pratica in cielo il proposito così vivacemente espresso al Canossa:

«Quando poi saremo in Paradiso…, allora colle nostre incessanti preghiere metteremo in Croce Gesù e Maria, … fino a che quanto prima sieno convertiti alla fede i cento milioni dell'infelice Nigrizia» (Al Card. Canossa, 1871, S 2459).

Per approfondire il tema:

  • Cfr. La Famiglia Comboniana in preghiera, Riflessioni su san Giuseppe, Allegato II, p. 579ss.

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A.- Tracce per la riflessione personale e la condivisione:

  • Ti senti coinvolto personalmente anche nella attività economica dell’Istituto?
  • Sei convinto dell’importanza e del valore dell’uso comunitario dei beni nel servizio missionario?
  • Come vivi la dimensione ascetica dell’economia?
  • Nella tua vita di discepolo missionario che atteggiamenti ti suggerisce il fatto che Gesù scelse per se la forma di vita di povertà, con la quale redense e santificò gli uomini e nello stesso tempo la propose con la sua parola ed il suo esempio agli Apostoli?
  • Che atteggiamenti di testimonianza ti ispira la professione del voto di povertà?
  • In che modo il voto di povertà influisce nelle tue relazioni con le persone e nella tua attività?
  • Nel tuo stile di vita cerchi la conformità con la scelta di povertà consacrata che hai fatto?  La professione di povertà ti fa sentire il bisogno di condividere i tuoi beni spirituali e materiali dentro e fuori della comunità?  Ti aiuta ad accettare serenamente i tuoi limiti e quelli degli altri?  Dai con gioia agli altri le tue cose e soprattutto te stesso?:  RV 27-28

B.- Traccia di studio e riflessione guardando al cammino della Congregazione e al tuo cammino personale di formazione, finito di recente o molti anni fa:

  • L’itinerario formativo prepara effettivamente per assumere le opzioni fondamentali indicate e gli orientamenti programmatici della Regola di Vita sull’uso e amministrazione dei beni?
  • Quali sono le reazioni dei nostri giovani di fronte alle realtà economiche della Congregazione e delle Missioni?
  • I punti essenziali indicati possono essere da loro percepiti? Se no, come li si può presentare?
  • Il “curriculum della formazione” prepara effettivamente a immedesimarsi nelle scelte fondamentali indicate e a seguire gli orientamenti programmatici?
  • In concreto come si educano i giovani alla corresponsabilità nella vita economica?

Credo comboniano

LA VITA MISSIONARIA COMBONIANA,
UNA STORIA DI AMORE A SERVIZIO DELLA MISSIONE:
dal cuore di Dio Padre attraverso il Cuore di Gesù al cuore dell’uomo

“La carità, dal cuore di Dio attraverso il cuore di Gesù Cristo, si effonde mediante il suo Spirito sul mondo, come amore che tutto rinnova”

(Benedetto XVI). (Discorso ai partecipanti all'Assemblea Plenaria della Congregazione per la Dottrina della Fede, 10 febbraio 200 6)

Crediamo nella nostra vita missionaria comboniana
che è una chiamata del e all’amore del Padre,
esperimentato nella comunione personale con Cristo:
e questo dono non è per noi motivo di orgoglio,
ma di rendimento di grazie (RV 20; 46);
non ci separa dagli altri cristiani,
con i quali condividiamo la stessa vocazione battesimale (RV 20.1),
né ci allontana dagli altri essere umani (RV 16),
ma ci manda in mezzo ad essi per portare il suo Nome,
e per testimoniare e proclamare l’esperienza
dell’Amore da cui siamo nati (RV 20; 46; 56)

Crediamo in Dio che ci chiama a seguire radicalmente Cristo (RV 21),
sulla scia del carisma di san Daniele Comboni (RV 1),
che si distinse per la sua dedizione totale alla causa missionaria (RV 2):

in questa sequela,
troviamo la ragione e lo slancio per il nostro impegno missionario
nel Mistero del Cuore trafitto di Gesù, Buon Pastore,
che ha dato la sua vita sulla croce per l’umanità (RV 3-4);
e in questo progetto di consacrazione missionaria,
integriamo la castità, povertà e obbedienza,
per essere più conformi a Cristo,
«il quale, vergine e povero,
redense e santificò gli uomini
con la sua obbedienza fino alla morte di croce» (RV 22).

La castità (sponsalità):
per dilatare il nostro cuore sulla misura del Cuore di Gesù,
che è venuto perché tutti abbiano vita e l’abbiano in abbondanza;
per sviluppare, uniti a Gesù vergine, un modo nuovo di amare,
che comporta la donazione di sé a Dio
e la dedizione totale alle persone “senza divisioni” e “senza frontiere”,
per una maggiore mobilità al servizio del Regno di Dio,
per diventare un segno vivente del Regno che verrà
e uno stimolo al popolo pellegrinante di Dio
a camminare verso la sua ultima meta (RV 25; 25.3).

La povertà (solidarietà):
uniti a Gesù povero,
senza attaccamenti al denaro, al potere, al prestigio, alle ideologie,
prendiamo come unica ricchezza il Signore Gesù,
nelle cui mani Dio Padre ha messo ogni potere;
mettiamo tutto ciò che siamo e che abbiamo
a servizio del piano dell’amore di Dio sull’umanità,
entriamo così nel mistero d’amore e di Redenzione del Cuore di Gesù,
per arricchire il mondo con lo svuotamento di noi stessi come e con Cristo;
seguiamo uno stile di vita semplice,
senza nessuna assicurazione fuorché Dio
e la forza del suo Spirito,
e viviamo in solidarietà con i poveri (RV 27-28).

L’obbedienza (appartenenza):
scegliamo di alimentarci dell’unico cibo di Gesù,
che è la volontà salvifica del Padre (RV 33);
e così mettere la nostra vita a servizio dell’umanità come “Cristo stesso
per la sua sottomissione al Padre, venne per servire i fratelli
e diede la sua vita in riscatto per molti” (PC 14a),
ed esperimentare il mistero della vita che nasce dalla morte (RV 35.3);
è un modo chiaro e coraggioso di identificarci con il fine dell’Istituto (RV 35)
e così di non assolutizzarci e prenderci con un certo umore, non troppo sul serio (RV 34), senza rinunciare alla nostra dignità di persone e figli di Dio,
e quindi alla nostra maturità umana, creatività e responsabilità (RV 35).

Crediamo in una vita guidata dallo Spirito Santo (RV 36; 46; 56):
per innalzare un segno profetico in questo mondo (RV 58; 62-63).
La nostra Regola di Vita, gli orientamenti dei Superiori,
non sono lettera che spenga lo Spirito,
ma indicazioni che impegnano la nostra fedeltà
e il nostro senso di responsabilità.
Nelle tradizioni dell’Istituto vediamo non un calco rigido,
ma un canale per dare corso alla vita.
Cerchiamo la fedeltà al Fondatore (RV 1; 1.3)
in un linguaggio e in uno stile di vita
che parlino al nostro tempo (RV 16).

Crediamo nella Chiesa,
che ci invia come missionari (RV 9; 22),
e nella quale l’Istituto è segno della fraterna solidarietà delle Chiese
nella comune responsabilità missionaria (RV 17).

Crediamo nelle nostre comunità di fratelli (RV 23),
comunità oranti (RV 46),
nelle quali la Vergine Maria, tipo della Chiesa,
è modello del cammino del discepolo missionario (RV 24; 47.3).

Crediamo nelle nostre comunità,
segno visibile dell’umanità nuova nata dallo Spirito,
annuncio concreto di Cristo (RV 36),
fondate sull’amore, nella ricerca comune della volontà di Dio (RV 38)
e nel riconoscimento della dignità, dei diritti e del valore di ciascuno (RV 42),
nelle quali lo Spirito Santo con i suoi doni
è quel vincolo che non abolisce le diversità,
ma le rende fattori di unità. (RV 18; 37).

Crediamo nelle nostre comunità,
piccolo cenacolo di Apostoli, aperto al mondo,
senza escludere nessuno (RV 16-19; 45).
Non siamo una casta privilegiata dentro la Chiesa,
anche noi siamo peccatori, bisognosi di continua conversione (RV 54; 99).
Senza pretese esclusiviste,
e profondamente presenti in questo mondo,
vogliamo fare dell’evangelizzazione la ragione della nostra vita (RV 56),
per annunciare al mondo il mistero di Gesù di Nazaret, Figlio di Dio (RV 59),
inserendoci e collaborando con il disegno dell’amore del Padre,
che vuol fare di Cristo il cuore del mondo
sotto la guida dello Spirito Santo (RV 3-4).
Amen.

Casavatore,
Novembre 2018