Roma, giovedì 6 ottobre 2011
A Subiaco il 6 ottobre si chiude il convegno «La congregazione sublacense. Inizi, ideali e attività missionaria». Secondo Gianpaolo Romanato, “partire per diffondere il messaggio cristiano fu la grande scoperta e la grande speranza della Chiesa nell’Ottocento”. Su Comboni dice: “In lui fu sempre chiarissima la consapevolezza che l’opera missionaria sarebbe stata tanto più efficace quanto più libera da fattori politici”. E ancora: “Comboni dirà che la presenza missionaria nella Nigrizia (come si definiva allora l’Africa) doveva durare fino a quando fosse nata una cattolicità locale, poi sarebbe dovuta cessare. È esattamente ciò che è avvenuto in Sudan, il territorio della sua missione, dove ormai esiste una gerarchia sudanese, alle dipendenze della quale operano i missionari comboniani. Salvare l’Africa con l’Africa fu il suo motto, che esprime appunto tale intenzione. Arrivare, cristianizzare, creare una Chiesa locale e poi venire via”. Pubblichiamo stralci della relazione di Romanato che appaiono nel quotidiano L’Osservatore Romano di oggi, a pagina 5. (Si veda il giornale allegato).

di GIANPAOLO ROMANATO
Le missioni furono la grande scoperta e la grande speranza della Chiesa ottocentesca. Scoperta perché la missione in età postrivoluzionaria, rivolta ai popoli nuovi di Africa, Oceania, Asia e delle due Americhe, non garantita dalle strutture del patronato statale in vigore nell’ancien régime, fu sostanzialmente diversa da quella del periodo prerivoluzionario. Speranza perché di fronte al nuovo nemico rappresentato dalla modernità e dall’organizzazione dello Stato liberale, la conquista di popolazioni sconosciute, mai toccate dal cristianesimo, apparve una nuova frontiera, un’imprevista possibilità di rifondazione del messaggio cristiano, una rivincita dopo le ripetute sconfitte patite in Europa.

Questa proiezione missionaria avvenne sotto l’egida della più rigida cultura controrivoluzionaria, a partire dal Papa che per primo se ne fece interprete e banditore, Gregorio XVI, al secolo Bartolomeo Cappellari, monaco camaldolese originario di Belluno, che prima dell’elezione era stato per cinque anni prefetto di Propaganda Fide. Egli, mentre impostò con le encicliche Mirari vos (1832) e Singulari nos (1834) le linee portanti di quella che per un cinquantennio sarebbe rimasta l’intransigenza cattolica antimoderna, avviò anche la rinascita delle missioni con una serie di iniziative che vanno dalla fondazione di quarantaquattro vicariati apostolici nelle terre nuove alla promulgazione dell’enciclica Probe nostis (1840), il manifesto della nuova missionarietà. La cosiddetta «primavera missionaria» ottocentesca nasce così da radici culturali opposte a quelle della modernità.

Che lo slancio della Chiesa verso i popoli nuovi derivasse da un desiderio di rivalsa nei confronti dell’ondata laicizzatrice liberale dilagante in Europa, emerge dalle parole stesse del Papa. L’enciclica iniziava, infatti, ricordando le «sventure» che opprimevano la Chiesa «da ogni parte», gli «errori» che ne minacciavano la sopravvivenza. Ma, «mentre per un verso dobbiamo piangere — scriveva il Papa — dall’altra parte dobbiamo rallegrarci dei frequenti trionfi delle missioni apostoliche», trionfi che dovrebbero suscitare «maggiore vergogna» in «coloro che la perseguitano». Questa contrapposizione diventerà uno dei fili conduttori della storia missionaria, conficcata fin dall’inizio nel più tipico filone intransigente, controrivoluzionario.

Ma non solo la cultura missionaria, bensì anche il personale che la realizzò provenne da una cultura fondamentalmente ultramontana, di scontro, estranea al mito ottocentesco della nazione, che fu invece uno dei grandi alvei in cui si sviluppò la rivoluzione della modernità, di cui il colonialismo ottocentesco fu una delle espressioni. È importante tenere presente questo sfondo intellettuale e teologico, che conferma, se ce n’è bisogno, la complessità e l’imprevedibilità della storia. Nel caso di cui ci stiamo occupando la novità non è figlia della rivoluzione ma della reazione, cioè di una cultura che normalmente non apre al futuro ma induce a rifugiarsi nel passato. L’elemento vincente della cultura missionaria fu, infatti, proprio la sua estraneità al mito della nazione.

I missionari che sciamarono per il mondo possedevano molto più il senso della Chiesa che il senso della patria. Si sentivano figli e difensori di una Chiesa perseguitata e costretta sulla difensiva dal liberalismo, dalle rivoluzioni nazionali. Ciò accentuò la loro estraneità rispetto alle idee politiche ottocentesche e rafforzò l’identificazione con l’universalismo cristiano. Le missioni non nascono italiane, francesi o tedesche, nascono cattoliche, figlie di una Chiesa ricompattata attorno a Roma e ormai distaccata dalle vecchie Chiese nazionali prerivoluzionarie, in rotta di collisione con quegli ideali di grandezza e di potenza che mossero le potenze europee a conquistare e ad annettere i continenti nuovi.

Queste considerazioni valgono in particolare per i missionari italiani, quelli più vicini, anche geograficamente, a Roma e al nuovo spirito della cattolicità. Il missionario italiano si sentì prevalentemente uomo di Chiesa, portatore di un disegno di evangelizzazione, come diremmo oggi, potenzialmente universale, non condizionato da interessi politici o nazionali. Negli istituti italiani sorti nel XIX secolo e dediti esclusivamente ad attività missionaria — dalle missioni africane di Verona fondate da Daniele Comboni al Pontificio Istituto Missioni Estere (Pime), dai saveriani ai missionari della Consolata — l’ideologia nazionale, o nazionalistica, è quasi inesistente. Predomina invece l’ansia apostolica, che diventa più forte e impellente quanto più le vicende politiche italiane sembrano riservare alla Chiesa in Italia un futuro incerto e difficile. Sono proprio queste difficoltà che rafforzano il loro senso di appartenenza alla Chiesa, al di sopra del sentimento patriottico, il desiderio di aprirle strade nuove presso popoli lontani, non ancora toccati dal cristianesimo, l’ansia di trovare una «missione vergine» dove il Vangelo non fosse ancora arrivato, e fosse possibile predicarlo senza contaminarlo con interessi politici, ideologici. Nelle «Regole» del Pime è detto che «l’Istituto fin dal principio mirò ad avere missioni proprie tra le popolazioni più derelitte e più barbare ». La speranza e l’ideale di questi istituti è quello di rifondare il cristianesimo il più lontano possibile dalla vecchia Europa, dalle sue divisioni e dai suoi interessi.

Analoga l’intenzione di Comboni, che imitò l’istituto lombardo pensando esclusivamente all’Africa come alla «più infelice e certo la più abbandonata parte del mondo ». In lui fu sempre chiarissima la consapevolezza che l’opera missionaria sarebbe stata tanto più efficace quanto più libera da fattori politici. La missione «deve essere cattolica, non già spagnola, o francese o tedesca o italiana», non si stancava di ripetere. Egli conosceva perfettamente le associazioni e gli istituti missionari europei, per averli visitati e frequentati, e lamentava che in Francia «lo spirito di Dio» fosse ancora troppo condizionato dallo «spirito di nazione». Ma neppure in Francia il condizionamento della nazionalità impedì di vedere chiaramente che le missioni dovevano tenersi lontane dalla politica degli Stati cui appartenevano i missionari, come scrisse con grande lucidità il superiore francese della missione in Eritrea al governatore Ferdinando Martini, quando si stava preparando l’espulsione di missionari transalpini dalla nostra colonia: «Per noi non esiste che una sola parola: la Missione Cattolica, siano i membri che la compongono francesi, italiani, tedeschi o inglesi».

L’intreccio fra missione e colonialismo è complesso. I due fenomeni sono paralleli, contemporanei e interdipendenti, tanto in età moderna quanto in età contemporanea. In età moderna i missionari giungono nelle Americhe e in Asia sulle navi dei colonizzatori, protetti dalle medesime leggi, imbrigliati nei vincoli del patronato statale. E la situazione non è diversa nelle aree del globo, in particolare il Nord America oggi canadese, sotto controllo francese. Ma tanto la Santa Sede quanto gli ordini religiosi impegnati nelle missioni non tardano a entrare in conflitto con il potere politico e a cercare spazi di autonomia.

Roma fonderà la potente congregazione di Propaganda Fide, nel 1622, proprio allo scopo di riportare, dovunque fosse possibile, le missioni sotto il controllo ecclesiastico, non senza cercare abili sotterfugi canonici come l’istituto dei vicari apostolici, vescovi non residenti e dipendenti da Roma, vescovi cioè in partibus, che rispondevano del loro operato alla sede apostolica e non all’autorità politica.

I vicari apostolici furono utilizzati in particolare nel tentativo di aggirare il patronato portoghese. Nel caso del patronato spagnolo il modo per sfuggire al vincolo statale consistette nell’avvio di esperimenti di evangelizzazione svincolati dalla giurisdizione della corona di Madrid, in territori posti fuori o ai margini dalla sua giurisdizione.

In questo secondo caso va ricordato l’esperimento delle Riduzioni fra i guaraní del Paraguay (ma in realtà allargato anche ad altre aree e popolazioni sudamericane). Le Riduzioni erano missioni totalmente sotto controllo della Compagnia di Gesù, sulle quali la corona di Spagna non aveva quasi nessun potere. Sappiamo però che queste crollarono quando Spagna e Portogallo riordinarono i confini e privarono le missioni degli spazi di autonomia di cui avevano goduto per un secolo e mezzo. Non sempre Propaganda Fide riuscì a realizzare gli intendimenti per cui era sorta, neppure con l’espediente dei vicari apostolici.

Per tutta l’età moderna, insomma, missione e colonizzazione vissero una difficile coabitazione, spesso conflittuale. In età contemporanea notiamo caratteristiche analoghe. Missioni e colonie vanno insieme, sia pure con sfasature non prive di importanza. In genere la missione precede la colonia e spesso si dirige in territori estranei o ai margini della colonizzazione: l’Oceania dove operò il Pime, la Patagonia dove si insediarono i salesiani.

Ma le coincidenze, nonostante queste sfasature, non devono impedirci di notare le diversità. I missionari imparano le lingue locali, operano non sovrapponendosi alle culture autoctone ma penetrandole dall’interno, favoriscono la nascita di clero e gerarchie locali, seguendo le direttive romane emanate fin dalla famosa Istruzione ai vicari apostolici del Tonchino del lontano 1659 — un documento pontificio lungimirante, più citato che conosciuto — ribadite in tutte le successive direttive pontificie e riprese dalla enciclica Maximum illud di Benedetto XV del 1919.

Mentre la colonia è una conquista di territori, spazi e risorse, un’operazione di potere, la missione è un tentativo di innesto del cristianesimo senza alterare le culture locali. Non sempre l’operazione fu portata avanti con la necessaria chiarezza, ma l’intenzione era questa. Comboni dirà che la presenza missionaria nella Nigrizia (come si definiva allora l’Africa) doveva durare fino a quando fosse nata una cattolicità locale, poi sarebbe dovuta cessare. È esattamente ciò che è avvenuto in Sudan, il territorio della sua missione, dove ormai esiste una gerarchia sudanese, alle dipendenze della quale operano i missionari comboniani. Salvare l’Africa con l’Africa fu il suo motto, che esprime appunto tale intenzione. Arrivare, cristianizzare, creare una Chiesa locale e poi venire via.

Se osserviamo a posteriori la storia del colonialismo europeo notiamo più chiaramente la differenza fra colonialismo e missione. Il colonialismo è esploso lasciando macerie che hanno devastato, e continuano a devastare, i continenti extra-europei. La missione non è esplosa, è sopravvissuta all’età coloniale, si è trasformata e ha dato vita alle cosiddette giovani Chiese, con clero e gerarchia indigeni. Oggi nel sacro collegio sono presenti decine di cardinali provenienti da Paesi africani o asiatici che furono colonie fino al secondo dopoguerra. Le missioni sono servite a dilatare il cattolicesimo su scala planetaria e a inculturarlo nei popoli nuovi.