«Io vivrò per l'Amore e l'Amore solo voglio per ricompensa. Dell'Amore e per l'Amore saranno i miei trionfi e anche le mie debolezze». Questo P. De Marchi aveva scritto sul suo libro dell'anima, e a questo programma fedelmente si attenne.
Egli fu sempre pronto a tutto, a tutti gli uffici, a tutti i lavori, in qualsiasi posto. Chi scorre il curriculum della sua vita non può non rimanere impressionato da tanti cambiamenti. «Eccellenza, ora può cambiarmi di posto, perché sono rimasto già due anni in questa stazione... Eccellenza, se vuole, vado io al tal posto, vedo che lei trova difficoltà a trovare uno». Erano queste le sue espressioni felici che traevano d'imbarazzo i suoi Superiori. Sempre così, fino alla morte, senza mai chiedere nulla, né rifiutare nulla.
Nato a Resana (Treviso) il 22 ottobre 1894, entrò in Congregazione il 16 agosto 1913, dopo i cinque anni del ginnasio nel seminario di Treviso. Fece la vestizione a Verona il 1° novembre 1913, ma essendo stato chiamato sotto le armi nel giugno 1915, poté fare la professione solo il 1° novembre 1919 a Savona. Fece i voti perpetui a Verona il 23 luglio 1921 e fu ordinato sacerdote a Chiari (Brescia) il 15 agosto 1921.
Fu per due anni addetto alla Scuola Apostolica di Brescia, e nel 1923 partì per l'Uganda. Dopo pochi mesi di permanenza a Gulu, passava due anni ad Angal e tre ad Arua, per tornare a Gulu per un anno come direttore della Scuola Artigiani, e per tre anni come Direttore della Scuola Normale, fino alla sua partenza per l'Italia nel 1933. Fu per tre anni Superiore Regionale del Bahr-el-Ghazal e, richiamato in Italia, fu Superiore della Scuola Apostolica di Riccione dal 1938 al 1940, e poi Rettore della chiesa fino al 1948, quando fu inviato in Inghilterra, perché potesse ritornare alla sua prima missione in Uganda.
Partito nel 1949, fu successivamente Superiore ad Arua, Terego, Angal, Nyapea e Kitgum.
A Kitgum il Signore l'attendeva per dargli il premio delle sue fatiche. Da un po' di tempo lo si vedeva qualche volta barcollare; guidando l'auto non teneva bene la strada; ma dal suo labbro non uscì mai una parola che accusasse indisposizione: voleva lavorare fino all'ultimo.
«Padre, non vada, il sole è troppo forte, brucia in queste ore», fu il filiale ammonimento dei confratelli; ma egli non volle ascoltare e andò a bruciare una fornace di mattoni, rimanendo sotto il sole per due o tre ore, proprio quando il sole è più cocente. Tornò a casa e accusò subito un malessere generale con capogiro. Si mise a letto, ma il mattino dopo le sue condizioni erano già gravi. Si chiamò il medico locale, si mandò a prendere il nostro dottore P. Ambrosoli, e si chiamò per telegrafo il medico di Gulu.
Dubitarono di un forte attacco ai reni, infezione al sangue, disfunzione del fegato, per cui i medici non diedero nessuna speranza. Il malato invece si riebbe, tanto che dopo una settimana poté essere trasportato a Kalongo per un miglior trattamento e assistenza da parte del dottore. Sembrava superasse la crisi, quando due forti emorragie richiesero il suo trasporto a Gulu per tentare una trasfusione di sangue, che non riuscì efficace, per cui fu portato all'ospedale di Kampala.
Vi rimase per tre settimane e, in seguito alla cura somministratagli, si riebbe benino e tutto fu preparato per il suo trasporto in Italia, dove si sperava il clima e cure di specialisti potessero ridargli la salute. Nel frattempo, era stato trasferito all'ospedale dei Padri Bianchi a Rubaga. Ma dopo pochi giorni la malattia riapparve in tutta la sua gravità: il fegato non funzionava più e, nonostante tutti tentativi, il male ebbe il sopravvento sulla sua robusta fibra.
P. De Marchi non aveva mai accusato dolori; mai si era fatto visitare dai medici. Solo durante le ultime quattro ore di vita si lamentò di un dolore al fegato. Assistito da un Padre e un Fratello per più giorni, entrò in agonia il primo maggio alle ore dodici circa; alle sei pomeridiane spirava avendo al suo capezzale Sua Eccellenza Mons. Cesana, sei Padri, quattro Fratelli e cinque Suore. Fu sepolto nel cimitero di Nsambya.
Il 16 aprile 1958, quando si era ripreso alquanto e sperava ancora di poter fare il viaggio in Italia, scriveva al Rev.mo Superiore Generale con mano tremante: «Ringrazio Monsignore e tutti i confratelli; non potevano trattarmi con maggior carità. Più volte nel forte della malattia ho espresso in pubblico il contento di morire in missione e di appartenere alla Congregazione dei Figli del Sacro Cuore». p. Giuseppe Santi
Da Bollettino, n. 48, giugno1958, pp. 1400-1401