Leggendo le "carte" che riguardano Fratel Sebastiano, si ha l'impressione di imbattersi in uno di quegli umili fraticelli, apparentemente incapaci di cose grandi, che poi hanno riempito la letteratura ascetica della storia cristiana, con le loro stupende imprese.
"Non è proprio un gran valore", scriveva padre Uberti presentando Fratel Todesco al Generale per i Voti. Subito aggiungeva, però: "Tuttavia mostra ed ha sempre mostrato buona volontà sia quanto alla vita religiosa, sia allo zelo missionario e sia all'amore al lavoro".
Fratel Todesco era entrato in noviziato a Venegono nel settembre del 1925, a 19 anni di età. Non aveva fatto il militare perché privo di un occhio: l'aveva perduto maneggiando un residuato di guerra.
Il Parroco, in data 20 settembre 1922 - quindi tre anni prima dell'entrata in Istituto del Fratello - aveva detto di lui: "Il sottoscritto è lieto di poter dichiarare che il giovane Todesco Sebastiano, fu Sebastiano, ha sempre tenuto ottima condotta sotto ogni rapporto. È di buona indole e mostra inclinazione alla stato religioso-missionario".
Mancano i documenti per conoscere il motivo di un'attesa di 3 anni tra la domanda di entrata e l'accettazione. Molto probabilmente si avevano delle perplessità per via di quell'occhio in meno, oppure Sebastiano dovette dedicarsi alla famiglia in seguito alla morte del papà.
Il duro lavoro dei campi non gli permise una profonda preparazione culturale. L'attestato di compimento del corso elementare inferiore, conseguito al suo paese tra gli anni 1916-17, porta la votazione di 51 ottantesimi.
Entrò quindi in noviziato munito quasi esclusivamente di una gran dose dì semplicità, di buona volontà, di amore a Dio e alle anime, e di semplicità. Nient’altro. Ma per chi ha fede questo è tutto, e ne avanza. "Pieno di buona volontà, si sforza di fare quel poco che può. Buono, puro, osservante della regola.
In condotta va bene. Non sa mentire e sembra non abbia attitudini speciali. Ha fatto per sei mesi il falegname, ora fa il calzolaio. Carattere sincero, buono, ma rozzo e addormentato. Di fronte alle osservazioni, che sente molto perché è sensibile, si porta bene - cosi il padre maestro. Poi la stoccata finale: non si vede bene di quanta utilità possa essere un giorno".
Ad omnia
Nonostante questa sentenza, qualche santo (è proprio il caso di dirlo) ha fatto sì che Sebastiano fosse ammesso ai Voti che pronunciò a Venegono il 9 settembre 1927. Il suo destino, però era segnato: fratello ad omnia. Infatti lo troviamo nelle scuole apostoliche di Thiene e di Padova, con qualche strappo in Casa Madre a Verona, sempre come cuoco, ortolano, calzolaio, portinaio, sagrestano... Sembrava che non riuscisse a fare altro. Nella sua umiltà e semplicità, gli pareva che con tutte quelle mansioni i superiori lo sopravalutassero... "Se fossi rimasto al mio paese - ebbe a dire un giorno - più che zappare la terra non sarei riuscito a fare".
I ragazzi che vedevano quel Fratello, normalmente silenzioso, che quando non era al lavoro si trovava in chiesa a pregare, imparavano che cosa vuol dire essere missionari.
Un superiore (per motivi di carità tacciamo il nome) che si sentiva chiamato da Dio a provare la virtù dei confratelli, cominciò a punzecchiarlo. Fratel Todesco non era una patata fredda come poteva sembrare a prima vista. Anzi, era piuttosto irascibile. Se si dominava lo faceva "per essere più somigliante a Gesù Cristo". Ma un giorno non ne poté più, e con fermezza disse al superiore il fatto suo. Poi concluse: "Lei prova la virtù degli altri, ma forse non si accorge che in questo modo sta mettendo in serio pericolo la sua virtù e forse anche l'anima". Non sappiamo la reazione immediata del superiore, ma in una specie di diarietto, Fratel Todesco scrisse: "M'allontanò per insubordinazione". La cosa era seria perché i Voti perpetui erano prossimi. Nella domanda, infatti, Fratel Sebastiano cominciò timidamente: "Non so come incominciare tanto sono commosso...". Poi conclude: "Padre, le domando di fare i Voti perpetui. Ora ho esposto il mio ardente desiderio. Così me ne sto nelle sue mani come un bambino. Disponga di me secondo il suo gusto che con questo sono certo che farò la volontà di Dio...". Il padre Generale, conoscendo "quel" superiore e anche Fratel Todesco, lo ammise volentieri ai Voti perpetui. Era il 9 settembre 1933.
In Africa
Ancora 4 anni in Italia e poi, nel 1937, partenza per l'Africa. Fratel Todesco avrebbe desiderato andare nel cuore del Continente, invece dovette accontentarsi dell'Egitto, ad Asswan. Anche qui si dedicò con generosità a quei servizi umili, ma tanto importanti, direi essenziali, per il buon andamento di una comunità e per la manutenzione ordinaria della casa. Questi lavori fanno del Fratello un uomo prezioso, indispensabile, richiesto e ricercato per mettere una toppa ai mille inconvenienti che capitano.
Fratel Todesco non riusciva mai a dire di no a nessuno perché la disponibilità era una delle sue caratteristiche fondamentali. Per cui era sempre in movimento, tanto che il superiore scrisse sulla sua cartella personale: "È un po' esagerato nell'attacco al lavoro".
A metterlo a riposo arrivò l'internamento. "19 giugno 1939: internato fino al 19 maggio 1945", scrisse sul suo mini-diario. L'internamento non fu tempo di ozio. Con i confratelli che erano con lui nel "campo" cercò di realizzare una intensa vita comunitaria. Allungò il tempo della preghiera e, come San Francesco, cercò di predicare con il buon esempio. E Dio sa quanto c'era di bisogno di buoni esempi in quell'ambiente.
Terminata la guerra, ritornò alla missione di Asswan fino al settembre del 1949. Il diarietto annota a questo punto: "Poi espulso dai santi Superiori senza sapere il perché... Poi a Verona come lavapiatti, a Thiene campagnolo, falegname, calzolaio...".
La battuta sull'espulsione lascia un po' la bocca amara, a prima vista. Ma considerata nel contesto, trova una valida spiegazione. Todesco si era affezionato alla sua missione. Aveva anche imparato un po' di arabo per cui se la cavava con la gente. Egli, volentieri, non sarebbe più tornato in Italia. Ormai, però, erano passati 12 anni dalla sua partenza per la missione. Anni ancor più duri per via dell'internamento. Doveva, dunque, venire in Italia per aggiornarsi un po'.
C'era anche un'altra cosa che procurava sofferenza al nostro Fratello che come è già stato rilevato, sotto la scorza un po' ruvida aveva un cuore sensibilissimo: il suo temperamento incline ad una sottile malinconia. "Soffre parecchio - scrive padre Seri - perché gli sembra di essere incompreso, di non godere nessuna fiducia da parte dei confratelli. Ma questa sofferenza è certamente una prova che il Signore permette per raffinarlo, perché tutti gli vogliamo un gran bene e, senza di lui, la casa non funzionerebbe come funziona. Ciò che mi consola e conforta - prosegue padre Seri - è vedere come il buon Fratello è rassegnato ed offre tutto al Signore ricavando da questa sua croce tanto merito".
Questa affermazione del Padre trova riscontro nel diarietto del Fratello: "Anche nostro Signore è stato mal compreso, e così, finito il mio dovere, mi nascondo nelle sue piaghe e vivo felice. Al mattino e alla sera mi metto sotto il manto della Mamma Celeste e cerco di voler bene a tutti". Queste espressioni ci commuovono profondamente e ci fanno vedere il continuo cammino nella virtù di questo Fratello il quale, sentendo il peso di una croce che in realtà non esisteva (anche se qualche incomprensione è realmente esistita), ne approfitta per nascondersi nelle piaghe di Cristo e sotto il manto della Madonna.
L'epopea brasiliana
Nel 1951 Fratel Sebastiano Todesco venne inviato a Viseu in Portogallo, apparentemente per le solite cose "ad omnia". In realtà il Signore lo stava preparando a quella che per lui sarebbe diventata la realizzazione del suo anelito missionario.
Il 3 luglio 1951 il cardinal Piazza comunicava al padre Generale dei comboniani il desiderio del Papa di mandare comboniani in Brasile come missionari. L'8 maggio 1952 partiva dal seminario di Viseu il primo scaglione di missionari comboniani. Erano i padri Parodi, Cosner, Gasperetti e Vian con i Fratelli Franceschi e Todesco. Portavano con sé la benedizione del Generale e una lampada offerta da padre Angelo La Salandra quale segno della loro missione.
Dopo una tappa a Fatima, i sei s'imbarcarono sul transatlantico "Vera Cruz" che faceva il suo viaggio inaugurale. Il 19 maggio giunsero nella Baja di Rio. Padre Carlesi (oggi vescovo di Balsas) era là che li attendeva. Egli infatti era andato in Brasile per cercare aiuti economici per i seminaristi missionari di Viseu.
L'11 giugno un aereo militare trasportò gratuitamente Fratel Todesco e tre confratelli sacerdoti (Parodi, Carlesi e Vian) da Rio a Carolina in 8 ore di volo. Da Carolina, i missionari proseguirono in camion verso Balsas. "Viaggiammo tutta la notte - scrive il cronista - seduti sopra sacchi di semi di cocco. Alle 3 del mattino giungemmo a Riachao. Siccome era la festa del Corpus Domini, volevamo celebrare la messa nella chiesa parrocchiale, ma non fu possibile perché oltre le porte e le finestre, mancavano anche i paramenti e il resto.
Con lo stesso mezzo dì trasporto, giungemmo a Balsas alle ore 11 del 12 giugno. Un viaggio di 13 ore per coprire 250 chilometri. Che razza di strade. Sabbia, bosco, fiumi, scossoni, sassi, salti e... canti. L'entrata a Balsas fu trionfale. A 30 chilometri dalla città incontrammo il Prefetto e le autorità con molto popolo acclamante che ci accolse allo sparo dei mortaretti. La nostra missione è grande come il Piemonte, la Liguria e la Lombardia messe insieme, con 80.000 abitanti".
Cominciare da zero
Fratel Todesco e compagni, dunque, approdarono a Balsas, una cittadina che allora contava 5.000 anime. Il 10 per cento della popolazione era costituito da benestanti, il restante 90 per cento da poveri. In tutto quel vasto territorio c'era un unico sacerdote che accolse i nuovi venuti con vero entusiasmo.
"Ci troviamo in un pezzo d'America - scrisse padre Parodi - che, a dire il vero, all'Africa tira molto vicino".
La gente vide nei nuovi venuti, oltre che dei ministri di Dio, dei veri amici che li avrebbero aiutati ad uscire dalla miseria morale e fisica in cui si trovava.
I primi tempi furono durissimi. "Il menù della nostra cucina è costituito da riso, fagioli e carne secca (quando c'è), senza pane, senza vino, senza verdura. Come frutta abbondano le banane, i manghi, le arance. Il clima, a 7 gradi dall'Equatore, si fa presto ad immaginarlo: un caldo da morire anche nei mesi invernali che qui sono giugno e luglio. Mezzi di comunicazione non ne esistono. La posta arriva ogni 4 mesi. Per muoversi si usa la barca o il mulo". Così padre Parodi.
Mentre i confratelli sacerdoti si dedicavano alle visite ai malati, alle conferenze agli adulti e al catechismo ai bambini, Fratel Todesco cominciò a dissodare un pezzo dì terra per ricavarne un orto. La sua lunga pratica di ortolano gli veniva buona. Il 98 per cento del terreno era costituito da sabbia, per cui occorrevano fertilizzanti. E mancavano. Fratel Todesco non si spaventò. Con pazienza, con perseveranza, rubando un po' di humus qua e là, mescolando ed annaffiando, ricavò un orto che era un piccolo paradiso terrestre, con grande consolazione dei confratelli che finalmente potevano mangiare "da cristiani".
Intanto cominciarono i lavori per la costruzione degli edifici. "Dopo qualche ora dal nostro arrivo - annota il cronista - eravamo tutti falegnami, fabbri, cuochi, sarti". Fratel Todesco si occupò anche della segheria che avrebbe dato lavoro alla gente e che avrebbe approntato il legname per le opere dell'immensa parrocchia. Il legname non mancava perché la zona è ricca di boschi. Il fiume Balsas, poi, era la via più comoda per il trasporto dei tronchi su enormi zatteroni chiamati anch'essi "balsas".
Contemporaneamente alla segheria cominciò a funzionare una fornace per le tegole e i mattoni. Silenzioso, costante, paziente, cocciuto, Fratel Todesco dirigeva un nutrito gruppo di operai. Non era un uomo espansivo, tuttavia tutti gli volevano bene e parlavano volentieri con lui anche dei loro problemi familiari. Egli li ascoltava e poi diceva quello che il cuore gli ispirava. Erano parole semplici, di incoraggiamento, di invito a confidare nella Provvidenza che non abbandona mai chi spera in essa. Il suo esempio di uomo di preghiera e di lavoro era una predica efficace e di facile ascolto.
Così sorsero varie opere: l'ospedale, il collegio San Pio X, la cattedrale e un'infinità di piccole scuole nel sertão.
Per 27 anni
Fratel Tedesco prese parte da protagonista nella fondazione della parrocchia di Loreto. Seguendo le cronache del Bollettino, balzano agli occhi i sacrifici di questo Fratello e degli altri missionari.
Fu poi nell'Alto Parnaiba, a Mangabeiras, a Riachao, ma soprattutto a Balsas. Ognuno di questi nomi meriterebbe un capitolo a parte.
I suoi 27 anni di vita brasiliana furono interrotti da una sola vacanza in Italia, dall'agosto del 1960 al dicembre del 1961. La salute perdeva colpi; specialmente il cuore risentiva delle lunghe camminate, delle giornate estenuanti e anche -diciamolo pure - dello sforzo per controllare il suo carattere piuttosto impetuoso che mal si addiceva alla calma imperturbabile dei suoi operai. Eppure ci riuscì, con la grazia di Dio e con uno sforzo costante.
Dal 1962 in poi, per motivi di salute, tornò ad essere il Fratello ad omnia di un tempo, dando un prezioso contributo nelle varie comunità che intanto erano sorte.
Lasciatemi solo
Ma ecco che nel 1979 dovette rimpatriare quasi d'urgenza. Una paresi l'aveva colpito. Ricoverato al Centro Assistenza Malati di Verona, si riprese tanto che già macinava nella testa l'idea del ritorno in Brasile. Ormai, però, la sua giornata lavorativa era finita.
Dice l'infermiere: "Due o tre polmoniti all'anno non gliele levava nessuno. Ogni volta pareva che se ne andasse, poi il vecchietto, sembrava che strizzasse l'occhio alla morte come per dirle: 'Te l'ho fatta anche questa volta'. Alla fine divenne cieco e sordo". Non se la prese.
Accettò tutto con serenità conducendo la sua vita di ammalato normale, cercando di dare meno lavoro possibile agli infermieri.
Due giorni prima della morte disse: "Lasciatemi in pace". E dopo aver ricevuto i Sacramenti, si chiuse in un silenzio assoluto. "Non siamo riusciti a capire - dice l'infermiere - se era stato colpito da una paralisi alla lingua (cosa che il medico esclude) o se veramente volesse chiudere definitivamente con gli uomini e i loro affari, per intendersela esclusivamente con Dio. Questa seconda ipotesi è la più probabile. Dal complesso, si capiva che era lucido e consapevole del suo stato di gravita. Non fece lamenti, non fece smorfie; prese tutto serenamente, direi gioiosamente. A dargli il colpo definitivo arrivò un infarto che seguiva a complicazioni polmonari. È morto come un soldato che sa di aver combattuto per una causa giusta".
Il 12 agosto chiuse l'unico occhio che aveva, ma tutti coloro che sono vissuti con lui sono sicuri che li ha aperti tutti e due per gustare la visione beatifica di Dio.
Un confratello che lo ha conosciuto in Brasile e in Italia ha detto: "Lascia tra il popolo una testimonianza assai valida di fedeltà ai consigli evangelici, praticati fino all'eroismo, tra mille difficoltà e anche incomprensioni. Il saldo della sua vita è altamente positivo: in un vaso fragile e rude seppe coltivare tutti i valori della vita religiosa e missionaria, con fedeltà e dedizione a tutta prova. Questo è anche il messaggio che ci lascia".
È stato sepolto a Verona, il pomeriggio del 14 agosto 1985. P. Lorenzo Gaiga
Da Mccj Bulletin n. 148, gennaio 1986, pp. 52-56