Lunedì 24 settembre 2018
I superiori delle circoscrizioni comboniane che partecipano all’Assemblea intercapitolare, in corso di svolgimento a Roma dal 9 al 29 settembre, hanno dedicato la mattinata di venerdì 21 settembre alla riflessione sul tema dell’interculturalità, come richiesto dal Capitolo Generale del 2015 al nº 47. “A me sembra che finora nel nostro Istituto – ha detto P. Palmiro Mileto, comboniano – ci sia incertezza e discontinuità nell’affrontare questa tematica, nonostante interventi mirati di alcuni documenti e alcuni interventi dei superiori maggiori, per esempio nelle assemblee della formazione. La possibile spiegazione di questa incertezza e discontinuità ci sembra di poterla ravvisare in un deficit di politica organica che inserisca, dal punto di vista educativo, la dimensione interculturale come parte integrante nel curriculum del processo formativo”. Pubblichiamo qui alcuni appunti presi dall’intervento di P. Mileto, esperto di interculturalità.

TEMA
Camminare la diversità:
la vita consacrata nella sfida della multiappartenenza etnico-culturale
nel mondo in globalizzazione

“Dio ha infinite esistenze quante le persone con cui entra in relazione.
I mondi sono infiniti quante le persone che lo abitano”.

(G. ARIANO)

Nel nostro mondo globalizzato, le diversità vengono messe quotidianamente a confronto. Ciò costituisce pure l’esperienza dei nostri Istituti, che si espandono a raggio internazionale. Tuttavia, essi provano il bisogno di imparare a viverla secondo nuove modalità, più disponibili, aperte. Perché i consacrati del terzo millennio, intenti a seguire il Vangelo, avranno il “volto delle tante culture e dei tanti popoli nei quali il carisma è accolto e radicato” (Cfr. RdV n. 37).

Al pari del contesto esterno, le comunità della vita consacrata sono attraversate dalla diversità e si interrogano sul come gestirla/viverla in modo creativo e funzionale ad intra e ad extra.

Una modalità di vivere la multidiversità che sia foriera di nuova umanità. Che sia paradigmatica di un mondo nuovo.

Il tema si è sviluppato secondo il seguenti schema:

  • Uno sguardo generale sul nostro mondo
  • Breve soggiorno sulla nozione di Interculturalità
  • La problematica della diversità negli Istituti multiculturali
  • La problematica multiculturale nel nostro Istituto
  • Un dibattito che guarda al futuro
P. Palmiro Mileto, comboniano e esperto di interculturalità.

MONDO/CARATTERISTICHE

Il nostro mondo da cosa è caratterizzato?

Una prima caratteristica è la rapidità. Essa, possiamo dire, assurge a cifra del nostro attuale mondo. La rapidità ha “ucciso” la distanza spazio-temporale, modificando in profondità le categorie di vicino-lontano facendole perdere il loro primitivo significato. Spazio e Tempo diventano SpazioTempo, e vengono quasi a coincidere.

Seconda caratteristica. Il mondo che noi abitiamo è un mondo interconnesso e interdipendente: è l’interconnessione e interdipendenza globale. Il problema è che l’interdipendenza per alcuni con forte potere contrattuale è indipendenza, per altri è dipendenza. Il nostro è un mondo asimmetricamente interdipendente.

Terza caratteristica: la complessità. Mondo interconnesso, interdipendente in modo asimmetrico, il nostro  è un mondo anche fortemente complesso. Dire complesso

significa alludere a uno scenario fortemente mosso, magmatico, non più dominabile da una logica unitaria e sottoposto a cambiamento accelerato (L. CAIMI).

Quarta caratteristica del nostro mondo odierno sono le migrazioni. Le migrazioni ci sono sempre state nel percorso dell’umanità. L’uomo, ricordiamolo, è anche homo migrans. La cifra delle migrazioni del nostro tempo, però, è del tutto particolare.

Quinta caratteristica è la fragilità e la vulnerabilità, l’incertezza soprattutto a causa della globalità dei rischi. Il nostro è un mondo a rischio: guerre, rischio nucleare, crisi ecologica, impoverimento dei popoli, terrorismo personalizzato, ecc. sono là a ricordarcelo costantemente. (U. BECK)

La consapevolezza dei rischi, genera paura ed insicurezza, che è un’altra caratteristica del nostro mondo. Paura ed insicurezza nel presente come per il futuro. La compressione dello spazio e del tempo rende sbiaditi i confini. Tutto diventa liquido, evanescente, inconsistente. (cfr Z. BAUMANN).

Per la sua interconnessione e interdipendenza il mondo a rischio, nei suoi macroproblemi, è gestibile solo in modo globale.

Da qui la necessità di una visione del mondo come comunità di popoli che insieme guardano al futuro secondo il principio di responsabilità.

Il nostro mondo, è caratterizzato ancora da un processo che lo attraversa da cima a fondo: il processo di globalizzazione. Tale processo viene da lontano, percorre la storia, ma oggi presenta una novità che gli è peculiare: rapidità, intensità e ampiezza nel suo dispiegarsi.

Il processo di globalizzazione ha innescato profonde trasformazioni:

  • a livello sociale,
  • nelle persone,
  • ridisegnando il modo di vivere delle persone

Scrive Giddens:

É sbagliato pensare che la globalizzazione riguardi solo i grandi sistemi, come l’ordine finanziario mondiale: essa non tocca solo ciò che sta “fuori” […] ma è anche un fenomeno interno, che influisce sugli aspetti intimi e personali della nostra vita; non è un incidente nelle nostre vite di sempre. È il cambiamento delle condizioni stesse della nostra esistenza. È il modo in cui oggi viviamo.

Il nostro è un mondo avvolto nelle maglie della rete a cui nulla sfugge e tutto è in diretta.

Viviamo il mondo in diretta

Il processo di globalizzazione «sta ristrutturando il nostro modo di vivere, e in maniera molto profonda. La globalizzazione influenza non solo gli avvenimenti su scala mondiale, ma anche la vita quotidiana». GIDDENS)

Nello spazio globale  interconnesso agiscono attori di tipo diverso che riconfigurano la qualità delle loro attività e delle loro relazioni.

La globalizzazione ha i suoi attori come:

  • Stati nazionali
  • grandi Corporazioni transnazionali
  • Organismi internazionali
  • le ONG e le loro reti
  • Campioni dello sport e stars
  • Finanza Internazionale
  • Organizzazione criminali come le MAFIE…

MONDO/GLOBALIZAZIONE

Sotto il profilo degli attori,  la globalizzazione rappresenta un campo di forze in atto che sono in interazione. Essi possono agire in direzione opposte, oppure opposte e conflittuali insieme. I diversi attori determinano il processo di globalizzazione perché «sono gli attori che fanno la globalizzazione, in funzione delle loro ideologie, delle loro decisioni, delle loro strategie» (DOLFUS).

La nozione di attori che agiscono in funzione delle loro ideologie, ci dice che la globalizzazione non è un processo monolitico e deterministico nei suoi effetti, ma è invece un processo pluridirezionale e la multidimensionalità.

La globalizzazione è un fenomeno pluridirezionale: quid?

Vuol dire che la globalizzazione in sé stessa non è né buona né cattiva, tutto dipende dalla direzione che gli attori le danno a partire dal proprio quadro valoriale di riferimento. La nozione di attore mette in gioco l’esercizio della libertà con la sua dimensione etica.

La globalizzazione è multidimensionale, significa affermare che il fenomeno, a dispetto della sua apparente unitarietà, raccoglie, invece, una varietà di dinamiche e di processi come:

  • Le comunicazioni
  • La tecnologia
  • L’economia
  • La politica
  • L’ambiente
  • Il rischio globale
  • La solidarietà
  • Le religioni
  • La cultura

Tutte queste dimensioni costituiscono altrettante sfide.

GLOBALIZAZIONE/CULTURA

Seguendo l’immagine del Pianeta avvolto nella rete, emerge che il processo di globalizzazione rende sempre più evanescenti i confini tra le società, e le culture si attraversano sempre di più e sempre più intensivamente. Non solo con il contatto fisico degli individui che viaggiano, ma anche con la rete.

Sotto questo profilo oggi si parla di “traffico delle culture”, la cultura ormai si configura sempre più come «una struttura di significato che viaggia su reti di comunicazione non localizzate in singoli territori» (U. HANNERTZ).

Questo non vuol dire che il territorio sia scomparso, ma semplicemente che il locus, per quanto piccolo possa essere, è ormai sempre più il ricettore del globus. E che in parte la cultura si extra-territorializza (U. FABIETTI).

Rispetto al fenomeno delle società che diventano sempre più multietniche/culturali, c’è chi parla di omogeneizzazione e perdita della ricchezza della diversità umana espressa nelle culture.

Il timore omogeneizzazione culturale: di quale immagine di cultura è debitore?

Questo timore è debitore di una concezione di cultura tipica dell’antropologia del XIX e XX secolo secondo la quale ogni gruppo umano locale “possiede” una determinata cultura.

La globalizzazione ha il pregio, se così possiamo dire, di introdurci ad un concetto di cultura diciamo più esteso. Viene chiamato cultura 2. Nella prospettiva di questo concetto la cultura diventa «un fenomeno essenzialmente translocale» (M. SANTERINI).

In questa visione la cultura non si declina al singolare = monoculturalismo, ma sempre al plurale e le culture non sono limitate = prigioniere di uno spazio o territorio. Esse sono invece «come molteplicità senza omogeneità», ciò che non significa che una cultura sia senza luogo ma che il luogo in cui si trova e si sviluppa è aperto all’esterno.

Il concetto di cultura 2 è in grado di connetterci a ciò che vi è di globale nel territorio in cui si trova, facendoci partecipare ad eventi e contrasti del mondo. Non si può pensare di vivere in un luogo “separato” dal resto del mondo.

«Pensare la cultura come qualcosa di legato a un luogo, a un popolo, a una società che si sforzerebbe di riprodurla identica e di assorbire gli elementi estranei neutralizzandoli non è più utile» (U. FABIETTI).

Insomma, non esistono culture pure, ma solo culture meticciate, ibride, miste. Si parla di connessioni.

La prospettiva di cultura 2 ci dice che non è più possibile, specialmente nel contesto di mondo in globalizzazione, leggere le culture in senso propriocentrico. “separare” le culture non è possibile.

Il nostro mondo si è certamente “ristretto” e i consumi e le culture occidentali danno l’impressione di aver reso il mondo più omogeneo. Ma questa può essere solo un’impressione.

L’11 settembre 2011 e tutti gli attentati che hanno seguito ci inducono ad essere critici sulla teoria della “omogeneizzazione” del mondo.

Nel mondo “ristretto” l’uomo delle antenne è sempre più l’uomo delle radici che radicalizza sempre più le proprie appartenenze. L’antropologo francese J.L. Amselle avverte questa radicalizzazione finisce con il «rinchiudere ogni gruppo in una sorta di essenzialismo culturale con il risultato di incoraggiare il sorgere di conflitti tra le culture» col conseguente irrigidimento delle rispettive identità culturali che generano nuovi fondamentalismi.

Oggi stiamo assistendo, infatti, al ritorno di un comportamento e di un pensiero razzista che fomenta nuove forme di apartheid tra le culture, tra i cittadini del Paese ospitante e gli stranieri.

Guardiamo alcune immagini…

A guardare queste immagini sembrerebbe che lo “scontro di civiltà” sia inevitabile. Ma non è davvero così? PARE DI NO!

I soggetti portatori di culture diverse non sono destinati a scontrarsi ineluttabilmente, e il razzismo non fa parte della natura umana. Le neuroscienze ci dicono, invece, che noi siamo predisposti all’empatia, ci dicono che abbiamo all’origine un meccanismo di riconoscimento dell’alterità come fossimo noi stessi.

Noi ci riflettiamo, ci rispecchiamo nell’altro, ci riconosciamo nell’altro (cfr. neuroni a specchio). Certo, ciò non vuol dire che siamo naturalmente buoni, e la violenza nella storia e nel mondo è lì per ricordarcelo.

Quello che le neuroscienze ci dicono soltanto è che l’ostilità non è nel nostro corredo genetico, mentre lo è l’empatia, la struttura dialogica che ci costituisce (cfr. C. Camilleri)

Allora le neuroscienze ci dicono che:

Noi potenzialmente ci riconosciamo tutti come membri di un’unica famiglia umana anche se poi, la rivalità, la violenza ci allontanano. Noi siamo liberi, in qualche modo di scegliere se riconoscerci nell’altro oppure respingerlo, rifiutarlo. E su questo potenziale che è fondamentale impostare l’educazione. L’educazione è uno spazio di libertà.

L’attuale mondo è diventato un villaggio, malgrado il suo restringimento, continua però a restare solcato da conflitti, guerre, fondamentalismi e polarizzazioni.

In questo contesto diventa sempre più di fondamentale importanza appropriarci del senso di appartenenza alla comune famiglia umana, ancor prima che della specifica appartenenza territoriale, coltivando la coscienza di un’identità e cittadinanza planetaria di noi tutti.

E’ fondamentale comprendere la rispettiva identità etnico/culturale non in opposizione, ma secondo modalità d’intreccio con le culture altre.

Da qui l’importanza di un’educazione volta a far riscoprire che prima di tutto si è uomini/donne e poi altro.

L’alterità si innesta sull’identità di specie, in questo senso si è universali/particolari, globali e locali, dunque glo-cali.

Il dialogo interculturale può essere lo strumento per porsi come una creativa gestione della pluralità culturale, costruendo ponti ed identità solidali, nella consapevolezza che «il dialogo tra le culture non è solo una necessità etica, ma anche un presupposto irrinunciabile per l’evoluzione ulteriore e la sopravvivenza dell’umanità» (E. Morin).

Dicevamo prima che il processo di globalizzazione è un processo che ha i suoi attori.

Anche gli Istituti religiosi, missionari soprattutto, in questo processo sono attori.

In quanto attori al pari di altri, possono imprimere a questo processo un passo che vada nella direzione di una globalizzazione dal volto umano agendo proprio in quanto attori sull’incontro fecondo col diverso attraverso il dialogo interculturale, essere ponte tra le culture, spazio di nuovo umanesimo.

Gli Istituti religiosi a partire loro microcosmo multiculturale possono essere profezia della città interculturale.

INTERCULTURALE

P. Andrés Miguel Pedro, provinciale della Spagna, e P. Palmiro Mileto.

                   Inter-cultura:

Chi dice interculturale dice necessariamente, se egli dà tutto il senso al prefisso inter

  • interazione,
  • scambio,
  • apertura,
  • reciprocità,
  • solidarietà obbiettiva.

Dice anche, dando il suo pieno senso al termine cultura, riconoscimento dei:

  • valori,
  •  modi di vita,
  •  rappresentazioni simboliche 

alle quali si riferiscono gli esseri umani, individui o società, nelle loro relazioni con l’altro e nella loro comprensione del mondo.

L’opzione interculturale è nell’ordine del processo e dell’azione. Essa afferma la realtà di una interazione positiva tra le differenti componenti della società multiculturale e costituisce, nello stesso tempo oltre che un riferimento, un metodo e una prospettiva. (M. RAY).

La scelta dell’interculturale si concepisce come una proposta di convivialità e di interazione tra le culture, facendo scaturire dalla semplice coabitazione delle tante culture il desiderio di costruire nuove modalità di convivenza che siano creative.

In questa cornice, l’interculturale si configura come ricerca di creatività nel rispetto delle altre culture andando al di là delle semplici giustapposizioni.

Essa è un progetto politico che supera, appunto, la giustapposizione di culture e la semplicistica rivalorizzazione dei valori dei gruppi etnici, essa mira, invece, ad una nuova sintesi valorizzando, in questa prospettiva, le pluralità esistenti.

L’opzione interculturale non è allora «semplice coabitazione tra culture, ma ricerca congiunta di trasformazione, principio di azione che dice connessione, scambio, relazione», in questa prospettiva diventa, «strategia e metodo, il cui obbiettivo è la società interculturale [diciamo città interculturale] per la costruzione della quale concorrono tutti i gruppi» (G. Maffioletti).

Il prefisso inter, allora non rimanda né alla semplice convivenza, né ad una casuale mescolanza o confusione, esso esprime piuttosto un progetto di nuova sintesi di culture che pur restando fedeli alle proprie radici, interfecondano ed elaborano modelli originali,  mettendo in evidenza l’aspetto dinamico, come processo e azione, di interazione e di reciprocità che avviene in realtà tra persone piuttosto che tra culture.

Non dimentichiamo che ad incontrarsi non sono le culture ma le persone concrete.

L’intercultura, infatti, non insiste tanto sulle culture ma piuttosto sul prefisso inter cioè su quello spazio che costituisce il territorio dell’incontro e dell’interazione con altri soggetti. Le culture non esistono se non incarnate nelle persone. Sono le persone in carne ed ossa il coefficiente socio-antropologico delle culture.

La prospettiva interculturale vede la società multiculturale non come problema, ma piuttosto come

  • «una sfida»,
  • una «provocazione»

offrendo l’occasione di orientare e finalizzare l’evoluzione di una società, verso l’intercultura intesa come meta verso cui si tende nell’educazione per costruire le condizioni ottimali che favoriscano

  • la comunicazione,
  • la pacifica convivenza,
  •  e l’interfecondazione culturale

tra persone e gruppi che sono  tra di loro diversi, […] coinvolgendo in questo obbiettivo l’intero universo sociale (Hiang-Chu A. Chang – M. Checchin).

L’interculturalità si presenta come « un programma:

  • di lavoro
  • di elaborazione del dato multiculturale che viene direttamente dal bisogno e dalla volontà di avviare il dialogo tra le [persone portatrici di] culture a confronto, per riuscire nella loro fecondazione reciproca»
  • con l’obbiettivo di aprire le menti ad «una nuova modalità di conoscere»,

 

  •  di porsi nel mondo e di stare insieme; (V. Orlando).
  • di «promuovere, sostenere, incentivare uno stile di vita il più possibile connotato da un comportamento di cooperazione capace di superare separazioni e conflitti» (L. Santelli Beccegato).

Il prefisso inter evidenzia, dunque, l’apertura, l’interazione, lo scambio, la reciprocità, a partire dalla conoscenza, dialogo, confronto fecondo tra le diverse culture.

Per questo si parla di passaggio dal multiculturale all’interculturale. Inoltre appare facilmente constatabile che l’interculturalità è un movimento di reciprocità.

Da questo punto di vista  «il prefisso inter sta a indicare la matrice fondativa della ‘reciprocità’ interculturale» e riconosce la centralità della relazione, come fattore fondamentale nel processo dell’educazione all’interculturalità. (P. Minerva).

Nella società multiculturale l’educazione interculturale diviene l’orizzonte di tutto il processo formativo, nel quale si mira a connettere

  • identità e differenza,
  • locale e globale,
  • specificità delle proprie radici e capacità di contaminazione ed ibridazione.

L’approccio educativo interculturale si presenta come un metodo che è capace di attivare un processo educativo in una prospettiva di convivialità delle differenze con il suo «richiamo alla comune umanità e la postulazione di valori comuni  che impediscono la risoluzione della diversità in estraneità, consentendo di attribuire valori costruttivi al dialogo tra le culture». (A. Nanni)

L’interazione inter-culturale punta a stimolare i soggetti in azione ad aprirsi al decentramento e alla circolarità dei punti di vista, che è poi una delle strategie dell’educazione all’interculturalità.

L’interazione punta a «formare ed educare ad una mente multiculturale – o più precisamente – ad una forma mentis interculturale, versatile, aperta all’ascolto e all’incontro, complessa, dialogica, in grado di esprimere nuove forme culturali più fluide e composite» (L. Luatti).

L’educazione all’interculturalità fa maturare la consapevolezza che siamo parte di un tutto che è la Terra-Patria di noi tutti.

Da qui l’importanza di una educazione alla terrestrità. Ciò implica la riscoperta delle specificità di ognuno in una prospettiva di formare il cittadino planetario.

Sotto questo profilo, come afferma il filosofo camerunese M. Nkafu: «l’interculturalità afferisce alla formazione del cittadino planetario entro una logica d’unità».

Una forma di conclusione:

ISTITUTI RELIGIOSI/DIVERSITA’

La problematica

L’allargamento e lo sviluppo demografico di un Istituto religioso attraverso l’accoglienza di candidati provenienti da altri universi culturali necessariamente incide sull’andamento dell’Istituto stesso che prima era caratterizzato da un volto monoculturale.

Nel passato, con una popolazione monoculturale la comprensione del carisma, la dinamica comunitaria, la formazione dei candidati ai valori e agli ideali del gruppo mediante il processo di formazione/educazione (o ri-socializzazione dei soggetti) rispetto alla cultura non ponevano particolari problemi alla convivenza interna dei religiosi.

Lo sviluppo della dinamica demografica in senso multietnico/culturale problematizza tutto quello che prima andava “quasi da sé”, ponendo la sfida a livello di dialogo tra le diversità/differenze culturali in termini di nuove identità  da assumere senza negare la propria natura e le proprie radici.

Per il carisma si pone anche la sfida e l’esigenza della fedeltà e del suo sviluppo a partire dalle diversità culturali: è il problema/sfida dell’inculturazione.

Nodi Istituti plurali

In sintesi si può dire che i nodi sono riconducibili a due:

  • a livello della convivenza quotidiana nel senso che la dinamica fatta di differenze sfida l’integrazione e coesione del gruppo (cfr P. Del Core);
  • a livello dell’identità carismatica dell’Istituto che richiede una rilettura del carisma in un contesto plurale e quindi la sua inculturazione seconda, o forse più precisamente: inter-culturazione.

La sfida emergente dalla dimensione plurale degli Istituti esprimentesi nella multietnicità e multiculturalità della nuova popolazione, interroga la formazione di base e quella permanente degli stessi.

Questo significa che il processo di ri-socializzazione dei candidati e membri del gruppo diventa la sfida dell’interculturalità: il passaggio dal multiculturale all’interculturale. Per cui l’Istituto religioso è interpellato a ripensarsi in una prospettiva di interculturalità.

P. Leocir Passini generale dei camilliani alla 89esima Assemblea semestrale dell’Usg (2017) diceva: «Se le nostre comunità non diventano interculturali, non sopravvivranno».

E’ una affermazione forte che gli Istituti religiosi hanno tutto l’interesse a in seria considerazione. Nel vissuto comunitario multiculturale, le dinamiche che entrano in gioco nelle relazioni interpersonali sono tante e possono prendere diverse direzioni. Il gioco delle rispettive immagini che si hanno gli uni degli altri e che si sono formati sulla base di informazioni ricevute attraverso letture, racconti, mezzi di comunicazione, avrà una parte considerevole nelle relazioni interne. E’ nell’economia di queste relazioni che si mettono in movimento (in maniera conscia o inconscia) stereotipi e pregiudizi.

            Stereotipo.

1. «In psicologia sociale: idea fissa associata ad una categoria. Esempio:

cupidigia associata agli ebrei; violenza associata agli arabi; pigrizia associata ai “neri”, ecc..

2. Modo di categorizzazione rigido e persistente di questo o quel gruppo umano» (P-A. Taguieff).

Pregiudizio.

1. «Opinione preconcetta […] che può essere favorevole o sfavorevole alla categoria presa di mira.

2. Attitudine negativa, sfavorevole, o persino ostile, e carica di affettività, nei confronti di individui etichettati sotto una determinata categoria.

3. Credenza rigida che si fonda su un’impropria generalizzazione e su un errore di giudizio che consiste nell’attribuire tratti stereotipi a diversi gruppi umani (razze, etnie, nazioni, ecc» (P-A. Taguieff).

A livello di convivenza interna la sfida è di passare dalla multiculturalità all’interculturalità. L’interculturalità, a differenza della multiculturalità, non è un fatto spontaneo. Essa è, invece, un progetto educativo intenzionale e trova la sua collocazione in un orizzonte progettuale. Non si è quindi davanti a un dato o un evento ma di fronte ad una progettualità che si proietta in avanti.

Per cui si ha: interculturalità = processo + progetto.

L’interculturalità va, allora, provocata e progettata, e si comprende come uno sguardo di sintesi, di riconoscimento dell’identità dell’altro, di educazione antirazzista.

E’ superamento del monoculturalismo (ideologia), e riduzione di pregiudizi e stereotipi.

Lo strumento per costruire la comunità interculturale è l’educazione all’interculturalità.

Una definizione operazionale di educazione all’interculturalità:

L’educazione interculturale è 1) un processo 2) multidimensionale 3) di interazione 4) tra soggetti 5) di identità culturali diverse 6) che attraverso l’incontro (interculturale) 7) vivono un’esperienza profonda e complessa 8) di conflitto/accoglienza 9) come preziosa opportunità di crescita 10) della cultura personale di ciascuno 11) nella prospettiva di cambiare tutto quello che è di ostacolo 12) alla costruzione comune di una nuova convivenza civile; 13) il conseguimento di questi obbiettivi esige […] 14) il rifacimento dei libri di testo 15) la riqualificazione degli educatori.

Nella dinamica formativa (di ri-socializzazione) dei membri, si tratta, in prospettiva, di integrare le differenze in un gioco aperto e creativo, dove la specificità di queste non si annulla, ma piuttosto si dispiega arricchendosi di nuovi apporti e visioni provenienti da altri sistemi di significato.

Ridefinizione dell’Identità

Di fronte ad ogni nuova situazione, la formazione è chiamata ad aiutare il soggetto in questione a ridefinirsi nella sua identità, nella sua appartenenza. L’entrata in un nuovo gruppo costituisce per il soggetto un nuova situazione di vita in cui c’è un’ulteriore ridefinizione della propria identità.

All’interno del processo di ri-socializzazione in prospettiva interculturale, diventa indispensabile ripensare l’identità in maniera pluralista e dinamica, dal momento che essa condiziona il modo con cui le persone e i gruppi si pensano, si definiscono nelle loro somiglianze/differenze con altri individui e gruppi, e si relazionano. Infatti l’identità si trova:

all’incrocio di numerose relazioni e influenze legate alle appartenenze familiari e sociali, all’ambiente […]. Ogni identità  è frutto di una storia, di una memoria individuale e collettiva e allo stesso tempo di una pluralità di relazioni e incontri con la diversità (di genere, età, status, classe, etnia, religione, cultura, carisma, formazione, mentalità.

In questo senso, dobbiamo pensare a un’identità non più statica e predeterminata, ma “provvisoria” e in divenire, cioè un’identità in cambiamento (P. Del Core).

L’identità, dunque, è nomade, plurale, multipla.

Con Pellerey ci domandiamo: «E’ possibile promuovere la convivenza all’interno della persona di una pluralità di appartenenze? Non rischia di creare scissioni dentro l’individuo?».

Lo psicologo Scilligo, a questo proposito, ci informa che «secondo studi condotti in ambito neurologico, sembra, ed anzi è assodato, che il cervello è geneticamente predisposto alla complessità umana».

Infatti in «situazione di multiculturalità i soggetti sviluppano identità ibride integrando le esperienze culturali diverse, come la psicologia della formazione del sé spiega, senza provocare scollamenti e scissioni psicologiche». In questo senso Carmel Camilleri parla di struttura molle che si adatta alle novità che sopravvengono, e di struttura dialogica dell’io.

All’identità, dice Del Core, si pensa «come alla consapevolezza di essere se stessi, pur attraverso le molteplici trasformazioni che si sperimentano nel tempo e nelle diverse situazioni o relazioni sociali, o anche a quell’esperienza vissuta globale e coerente di se stessi che dà senso e unità interiore».

Contesto plurale/Sfida identità carismatica

L’internazionalizzazione e l’interculturalità sono l’espressione di una mondialità che si è sempre più dilatata. Questa mondialità più dilatata diventa un appello e un compito non solo per le società civili, ma anche per la vita consacrata. In questo contesto, la comunità religiosa può divenire profezia e segno di comunione, come afferma il Capitolo del 2003 (n. 25).

A quali condizioni? A condizione che sia capace di:

  • vivere e testimoniare l’utopia di una cultura e identità planetarie,
  • la possibilità dell’incontro e
  • del dialogo tra nazioni e culture diverse in una pacifica convivenza di popoli e di religioni.

Ogni comunità che accetta la sfida dell’interculturalità diventa così paradigma di comunione, dove è possibile coniugare insieme:

  • specificità e universalità,
  • mondialità e localismo,
  • identità e alterità,
  • uguaglianza e differenza,
  • unità e diversità (P. Del Core).

Del Core ci offre già l’impostazione di alcuni livelli su cui lavorare nell’educazione all’interculturalità in un Istituto plurale. Il cammino per trasformarsi in segno e strumento è infatti un cammino che richiede dotazione di strumenti specifici, competenze ed abilità formative in prospettiva interculturale, sapendo che la sola buona volontà non è sufficiente.

La continuità del carisma nel tempo è legata al processo di ri-socializzazione dei candidati di un Istituto religioso, che li forma attraverso le generazioni. Tale processo approda all’identificazione e al senso di appartenenza.

Tutto ciò «suppone, soprattutto nell’ambito della formazione di base e permanente, apprendere ad elaborare continuamente la propria identità carismatica, mediante processi di maturazione e di ri-appropriazione nei diversi contesti culturali» (C. Maccise).

Identità carismatica quid?

L’identità carismatica indica:

un’identità che è strutturata intorno ad un carisma della famiglia religiosa di cui si fa parte, ed allo stesso tempo indica anche l’insieme di quei valori vocazionali, di quei sistemi di significato, norme e tradizioni che caratterizzano il carisma di un determinato Istituto (P. Del Core).

Carisma e spirito di un Istituto sono sempre inculturati (nascono inculturati) e vanno inculturati (inculturazione seconda). Infatti, data la dinamicità della cultura «L’esperienza carismatica e spirituale vissuta dal Fondatore non è allo stato puro, ma inscritta in forme culturali tipiche della società e della Chiesa del tempo» (M. Midali).

Affermare ciò vuol dire asserire che i contesti culturali dove una determinata esperienza carismatica è nata restano in buona parte

contingenti, ed in quanto tali sono destinate a lasciare il posto ad altre forme culturali nella misura in cui le prime non favoriscono più il dinamismo carismatico, e ne sono invece un ostacolo. Ciò solleva il problema dell’inculturazione del carisma e dello spirito dell’Istituto per renderlo significativo e credibile nelle diversità degli ambienti, etnie e culture (M. Midali).

L’inculturazione si pone pertanto, come superamento delle contingenze storiche-culturali in favore di nuove assunzioni di forme culturali più adeguate secondo i Segni dei tempi.

La Commissione Teologica Unione Superiori Generali (CTSUG) agli inizi degli anni 2000, faceva notare che, da alcuni anni, il carisma degli Istituti si radicava in nuovi contesti e dunque tra popoli e culture diverse.

Se così stanno le cose, diventa allora importante cogliere il «“momento favorevole” per iniziare l’inculturazione del carisma».

La CTUSG sottolineava che certamente «l’elemento fondante della vita consacrata è la sequela di Gesù così come appare nel Vangelo»; resta vero comunque che «la “memoria Jesu”, nel contesto delle diverse culture, rende necessario ripensare all’eredità ricevuta» (n. 57). Per saper «accogliere il carisma che solo sotto nuove forme potrà rinascere» (n. 32).

Il ripensamento dell’eredità ricevuta «nell’impatto con ambiti culturali diversi possono venire alla luce aspetti inediti contenuti in nuce nello stesso embrione, che attendevano il terreno favorevole per estrinsecarsi» (G. Loparco).

Per la loro natura ‘Cattolica’ gli Istituti religiosi

hanno nel loro DNA la “globalizzazione” del carisma. Con l’internazionalità dei membri, incastonata nelle origini o maturata nel tempo, affiora inevitabilmente il problema dell’inculturazione. E’ il rapporto tra inculturazione ed episteme dell’Istituto, la matrice storicamente configurata eppure non imbrigliata in un solo modello di attuazione (G. Loparco).

Il carisma è intrinsecamente metastorico e transculturale. La fedeltà dinamica diventa tradizione vivente, poiché la «tradizione autentica è il passato vivente nel presente» (L. Loparco).

Superando così ogni mummificazione del carisma.

La CTUSG evidenzia come « il dono ricevuto delle nuove generazioni che entrano a far parte della famiglia dell’Istituto» (n. 4.3), sfida l’Istituto a livello:

  • della spiritualità
  • del carisma,
  • del governo,
  • della comunità,
  • della formazione

Un Istituto di vita consacrata è un evento carismatico, aperto a possibili rifondazioni ad opera dello Spirito, ricorda la CTUSG. La rifondazione, infatti, è caratteristica di tutte le epoche, perché in tutte le epoche lo Spirito ha agito in modo simile in processi di adattamento, rivitalizzazione, rinascita e riforma.

La rifondazione del carisma in nuove culture, comunque, non è scontata, avverte la CTUSG, ma fa nascere «tensioni, difficoltà nel discernimento e disaccordi all’interno dell’Istituto» (n. 5), e con l’aumento della diversità le difficoltà a trovare un accordo si fanno sentire di più facendo insorgere anche «conflitti, tensioni, critiche […], la paura che si possa perdere l’identità» (n. 55).

E’ in queste circostanze, tra l’altro, che viene messa alla prova e a rischio anche la coesione e l’unità del gruppo come la CTUSG fa ancora notare:

non è raro che nasca lo sconcerto quando individui o gruppi […] sottolineano un aspetto della loro identità più che un altro, quando affermano, ad esempio, la loro identità locale su quella generale, l’identità secolare o nazionale su quella religiosa ecc. Non è raro poi che l’appartenenza alla Congregazione si mostri, nelle nuove generazioni, come “appartenenza debole” e non unica» (n 59).

La CTUSG qui fa un inciso: e cioè il timore che «il passaporto unisca più del carisma» (n. 59).

Volendo con questo inciso porre l’attenzione su una tensione che può nascere tra appartenenza primitiva (i miei) ed appartenenza carismatica attuale (l’Istituto) con il rischio della formazione di sottogruppi sulla base delle appartenenze primitive in uno schema relazionale di maggioranza/minoranza, noi/loro che potrà influenzare le relazioni intracomunitarie in un senso conflittuale non positivo.

A questo punto possiamo chiederci: quali sono gli interrogativi che la dimensione multietnico/culturale pone agli Istituti religiosi?

A me sembra che, partendo da quanto abbiamo detto finora, ci siano:

Questioni che vertono intorno alla problematiche del vissuto quotidiano comunitario che suscitano alcune domande del tipo:

In che maniera è vissuta la situazione d’internazionalità e d’interculturalità nelle comunità religiose? Quali sono le difficoltà o i problemi più frequenti nelle comunità, ormai sempre più multiculturali e multietniche? Come la comunità vive al quotidiano nel suo interno la realtà multiculturale?

In altre parole:

Come porre e articolare il discorso interculturale in un Istituto religioso nelle rispettive comunità? In che maniera elaborare l’appartenenza/identità multietnico/culturale in prospettiva interculturale? come elaborare i conflitti?

Questioni che concernono la problematica relativa all’identità culturale e quella carismatica:

Le vocazioni provenienti dai differenti contesti culturali, come assumono la propria identità culturale lungo il cammino di formazione dell’identità carismatica dell’Istituto scelto? Come gestire creativamente la multiculturalità dei membri perché questa sia realmente ‘formativa’, perché aiuti cioè a far maturare ‘identità’ capaci di assumere la propria cultura e di integrarsi con altre culture arricchendosi dell’apporto proveniente dall’incontro con la diversità?

E quindi:

Come avviare nella formazione un processo di identità multipla, plurale? Come formare in contesti multiculturali identità solide, assertive, ben integrate, solidali scongiurando il permanere di una identità rigida e chiusa?

Come fare emergere quelle dimensioni nascoste o latenti del carisma che ora nello spazio multiculturale della comunità si rendono intelligibili?

E’ la pluriformità del carisma.

E ancora:

Come riformulare i contenuti nelle comunità formative plurali?

Si tratta di fare traduzioni culturali, più che letterali, rivisitando all’interno delle rispettive cornici culturali le categorie di trasmissione fin qua utilizzate.

Nel processo della ri-socializzazione alla vita religiosa dell’Istituto di ingresso, si gioca la capacità creativa di una formazione/educazione che sappia rispondere alle sfide che tutte le domande che ci siamo fatte pongono.

Le comunità religiose sempre più multiculturali sono chiamate a mettersi nella dinamica della conversione dell’uno all’altro da parte dei suoi membri. L’inter-culturale infatti comporta anche una vera e propria ascesi. Sarà fondamentale, allora, formarsi/formare tutti e ciascuno all’ascolto dell’altro, dove «l’altro diventa - in qualche modo - il criterio delle mie azioni».

Si tratta di educare alla comprensione personale e planetaria, promuovendo «la “coscienza della comune appartenenza (umanità) e dell’interdipendenza reciproca (tra persone, nazioni e anche con la natura)» (E. Morin).

La formazione di base e permanente dovrà dotarsi di strumenti pedagogici appropriati che accompagnino e favoriscano il passaggio dalla convivenza multiculturale all’interculturalità come convivialità delle differenze.

ISTITUTO/MULTI

I superiori delle circoscrizioni comboniane che partecipano all’Assemblea intercapitolare.

Portando lo sguardo sul nostro Istituto ci chiediamo: quando la dimensione multietnico/culturale ha cominciato a porsi come questione?

in vista del Capitolo del 1997 il CG uscente ha commissionato una ricerca nella popolazione comboniana con l’obbiettivo di raccogliere dati utili da presentare in aula capitolare.  In questa ricerca emergeva come dato statisticamente significativo che la multiculturalità è vista dal 94.5% degli intervistati come uno dei problemi urgenti della congregazione. Si tratta della quasi totalità dei membri dell’Istituto.

A questa preoccupazione/inquietudine il nuovo CG risponde con la pubblicazione della Lettera sull’Interculturalità pubblicata il 6 gennaio del 1999. E’ con la pubblicazione della Lettera che, in maniera ufficiale, dunque, viene posta la questione della multiculturalità.

La multiculturalità come questione era, comunque, già presente tra i membri dell’Istituto, come i dati della ricerca hanno messo in luce. La Lettera non fa altro che tematizzare la questione in maniera ufficiale.

Guardiamo la Lettera

La Lettera si apre descrivendo la struttura demografica dell’Istituto e con essa le dimensioni del fenomeno multietnico/culturale:

Il nostro Istituto è oggi più che mai una realtà internazionale e interculturale. Se prestiamo attenzione alle percentuali globali, la bilancia si inclina ancora in maniera decisiva a favore dei membri di origine europea.

 Parlando in cifre approssimative, il 75 per cento di essi è europeo, di cui il 50 per cento italiano. Soltanto il 25 per cento proviene da altri continenti.

 Ma se prendiamo in considerazione i membri di voti temporanei degli scolasticati e CIF, la proporzione si inverte completamente.

I membri non europei superano l'80 per cento: 43% africani, 34% americani, 5% asiatici.

 E non si tratta di un fatto passeggero e occasionale, perché la bassa percentuale di europei tende ad accentuarsi (n. 5).

Le assi intorno ai quali la Lettera si sviluppa

Dopo l’introduzione, la Lettera sviluppa il suo contenuto centrale lungo quattro assi.

  • Primo asse. Illustra il tema dell’interculturalità dal punto di vista della Bibbia e si intitola: Prospettiva biblica. E’ in questa prima parte, soprattutto, che viene definito il concetto di interculturalità nelle sue dimensioni.
  • Secondo asse. Il vissuto comunitario dell’interculturalità. Questa parte vuole offrire alcune osservazioni che «aiutino a trovare la giusta disposizione d’animo per vivere l’interculturalità in forma creativa e arricchente» (n. 11).
  • Terzo asse. L’interculturalità viene approcciata dal punto di vista della storia dell’Istituto sotto il titolo: La tradizione comboniana.
  • Quarto asse. Si china sui temi particolari del nostro Istituto.

Primo asse

La Lettera si apre con una affermazione di fatto: il nostro Istituto è oggi più che mai una realtà internazionale e interculturale (n.5). Questo fenomeno della multiculturalità, dice la Lettera,

  • non è arrivato all’improvviso[…]
  • non è stato imposto dal di fuori
  • [e non] l’abbiamo vissuto “passivamente”.

Al contrario

  • è un segno dei tempi
  • accolto come dono di Dio
  • e sviluppato attraverso una serie di opzioni coscienti, assunte lungo la storia dell’Istituto

(n. 6).

E continua

neanche i più sensibili avrebbero potuto vedere con assoluta chiarezza le conseguenze del cambiamento che stava per venire […]. Adesso però è arrivato il tempo di affrontare la sfida (n. 7).

La Lettera mette in rapporto con l’internazionalità e l’interculturalità due fattori importanti:

Un primo fattore è il tempo. La differenza culturale è presente nel nostro Istituto fin dai suoi primordi,  arriva alle attuali dimensioni attraverso un processo storico.

Al fattore temporale si collega l’immagine di Segno dei tempi connesso al concetto di Dono di Dio: questa è vista come dono che viene dall’alto e i tempi sono ormai maturi per accogliere il dono dell’interculturalità.

Un secondo fattore è l’opzione. L’interculturalità è frutto di una serie di opzioni coscienti. Oltre ad essere dono di Dio, l’interculturalità è frutto, dunque, di razionalità delle scelte intenzionalmente orientate.

Queste osservazioni fanno emergere due caratteri: il carattere teologico - dono di Dio -, ed il carattere antropologico: opzioni coscienti.

In quanto segno dei tempi l’interculturalità è vista come:

[…] compito,[e] sfida alla quale bisogna dedicare attenzione ed energie (n. 9).

Come si configura l’interculturalità secondo la Lettera?

Il documento formula chiaramente l’auspicio che è allo stesso tempo una prospettiva di vita plurale comune:

L’interculturalità […] vorremmo […] che non fosse intesa come il semplice fatto di mettere assieme membri di varie nazioni e culture, come fossero granelli di un rosario, ma come occasione per un arricchimento e una maturazione personale per un migliore e più evangelico sviluppo della comunicazione missionaria e comboniana (n. 10).

L’interculturalità, quindi, non si confonde e non si limita ad una mera coabitazione tra i membri dalle diverse origini culturali, ma invece si qualifica come occasione di arricchimento, maturazione ecc. E’ la dimensione dinamica del concetto.

Infine l’interculturalità viene i inquadrata come compito e sfida per l’Istituto. Il concetto di sfida è ormai un concetto che viene ripreso ogni volta che nell’Istituto si parla di multiculturalità o interculturalità.

Concetto interculturalità nell’introduzione della Lettera

Dimensioni:

    • segno dei tempi
    • dono di Dio
    • arricchimento
    • compito
    • sfida
    • maturazione (personale)
    • sviluppo (comunicazione del Vangelo)

Fattori connessi al concetto:

    • opzione cosciente
    • tempo compiuto per affrontare la sfida

Interculturalità: Dono di Dio e Opzione cosciente

Interculturalità: Compito e Sfida

La Lettera sviluppa la sua comprensione dell’interculturalità ricorrendo ad alcune icone prese dal mondo biblico: l’icona del cammino, l’icona Babele/Pentecoste, l’icona dei Magi (nn. 12-23)

Da queste icone la Lettera ricava ulteriori dimensioni del concetto di interculturalità e atteggiamenti che favoriscono o frenano questo processo.

Tabella sintetica concetto interculturalità e atteggiamenti che la ostacolano o la favoriscono nella realizzazione

Dimensioni del concetto dell’interculturalità

Atteggiamenti che frenano l’interculturalità

Atteggiamenti che favoriscono l’interculturalità

Termini utilizzati per qualificare l’interculturalità

    • segno dei tempi
    • dono di Dio
    • opzione cosciente
    • compito
    • sfida
    • arricchimento
    • maturazione personale
    • cammino e simili (esodo, andare verso l’altro)
    • ricerca dell’altro
    • unità
    • mutua comprensione
    • integrazione interculturale (complementarietà del differente)
    • incontro
    • nuova umanità/umanesimo
    • chiusura in se stessi
    • razzismo
    • rivalità
    • discordia
    • apertura
    • accoglienza
    • ricerca dell’incontro
    • spogliamento di sé
    • fenomeno
    • fatto
    • problema

 

Secondo asse:
vissuto comunitario

In questa parte la Lettera porta a conoscenza gli atteggiamenti riscontrati nella dinamica comunitaria e di Istituto e che ostacolano l’esperienza di interculturalità.

Atteggiamenti nel vissuto comunitario che ostacolano l’interculturalità (nn. 47-49):

    • complesso superiorità: disprezzo, compassione, conoscenza fredda, mancanza di empatia
    • complesso inferiorità: autodifesa, aggressività, rigidità  culturale, dipendenza, assimilazione

Nel rilevare questi due atteggiamenti frenanti è interessante notare la relazione che viene fatta tra conoscenza fredda e mancanza di empatia.

L’assenza di empatia non permette una conoscenza feconda, ma solo dall’esterno. Si potrebbe dire che è una conoscenza su (qualcuno/qualcosa) e non una conoscenza da (qualcuno/qualcosa).

Da questa ulteriore osservazione, allora, un percorso educativo dovrà mettere l’attenzione sull’apprendimento dell’educare all’empatia per una conoscenza calda e che fa entrare nel mondo dell’altro.

Le neuroscienze ci dicono che noi siamo naturalmente portati all’empatia.

Una difficoltà ulteriore per l’esperienza dell’interculturalità viene indicata nei pregiudizi, sui quali la Lettera si sofferma lungamente (nn. 51-53):

I pregiudizi agiscono come lenti deformanti che impediscono una conoscenza reale delle persone. E’ necessario essere molto coscienti dei propri meccanismi per togliersi queste lenti e guardare l’altro con oggettività (n. 53).

Anche qui è interessante la relazione che viene sottolineata tra pregiudizi e conoscenza dell’altro. Il pregiudizio non schiude alla conoscenza dell’altro, ma lo cataloga secondo alcuni schemi preconcetti e ne deforma la sua consistenza oggettiva. Lo dà pe scontato.

Il pregiudizio impedisce, rende disfunzionale una comunicazione autentica con l’altro reale, e proietta il vissuto della relazione solo sull’immagine che si ha dell’altro.

Schema Maggioranza/Minoranza I

Dal vissuto comunitario multiculturale emerge un altro schema di relazioni che si stabilisce tra i membri: si tratta dello schema Maggioranza/Minoranza.

Secondo la Lettera questo schema ha ragioni storiche che attengono allo sviluppo di ogni Istituto:

l’inevitabile predomino della cultura del gruppo originario, che spesso è anche il maggioritario. Questo fatto crea una dinamica particolare nel dialogo interculturale. Da una parte, il gruppo maggioritario tende a perpetuare tale egemonia, pensando – a volte per semplice inerzia – che i gruppi minoritari non hanno assimilato sufficientemente lo spirito del carisma o non siano ancora in grado di assumere le dovute responsabilità (n. 58).

L’atteggiamento di guardare i nuovi come ancora non pronti ad assumere responsabilità, in qualche modo ‘indebolisce’ i “nuovi” alla partecipazione del processo decisionale e gestionale mettendoli ai margini della dinamica comunitaria.

Schema Maggioranza/minoranza II

Questo è un primo scenario, ma è possibile un secondo scenario alternativo, capace di ribaltare le posizioni qualora si trovasse all’interno della comunità una minoranza che non si rassegna in silenzio ma che, invece è energica, combattiva.

In questo caso può capitare che la minoranza manipolando il concetto di vittima ingiustamente oppressa, imponga sempre il suo punto di vista. Si passerà allora dalla dittatura della maggioranza alla dittatura della minoranza (n. 58).

Dallo schema maggioranza/minoranza emergono fattori ulteriori che ostacolano l’interculturalità:

  • dominio
  • sfiducia nell’altro
  • vittimismo

La Lettera è stata scritta venti anni fa’, ma questi “sguardi” a partire dallo schema Maggioranza/Minoranza non vuol dire che siano superati. Possono restare nei “non detti”.

Schema Maggioranza/minoranza III

Se questi sono gli scenari possibili in una comunità internazionale i cui membri sono portatori di culture diverse, scenari in cui c’è la contrapposizione delle culture in base alla variabile Maggioranza/Minoranza, la Lettera cosa indica come strumento di soluzione del problema?

La soluzione corretta non è la logica dei “vincitori” e neppure il silenzio pro bono pacis di una o di tutte le parti, che non lascia soddisfatto nessuno, e che genera un sordo clima di tensione e di reciproca diffidenza.

L’unica via è il dialogo aperto e generoso nel quale ogni gruppo si sforza di andare incontro alla sensibilità e alle aspirazioni dell’altro, in spirito di condivisione e di comunione, nel rispetto della verità (n. 59).

Ci deve essere il coraggio del confronto.

La categoria dei vincitori non è possibile. Quando è una una parte del gruppo che “vince” è  tutto il gruppo che perde. Perde nella sua coesione con rischio di disintegrazione o separazione (cfr divisione Istituto anni ‘20).

Schema Maggioranza/minoranza IV

Costruire rapporti interculturali positivi e arricchenti richiede:

 un processo permanente di conversione “Kenosis” (spogliamento) e “metanoia” (conversione) sono pietre angolari dell’interculturalità. C’è bisogno dell’acquisizione di virtù come la fiducia in se stesso e nell’altro, il riconoscimento dei propri limiti, […] (n. 60).

Sotto questo profilo, afferma ancora la Lettera:

la vita di una comunità interculturale diviene profezia e testimonianza di comunione - e dunque - un segno controcorrente in una società divisa tra una globalizzazione economico-culturale e una violenta rinascita di nazionalismi o fondamentalismi. E’ la prova evidente che è possibile un’umanità alternativa (n. 62).

Ecco allora il compito e la sfida di una comunità interculturale.

Tabella riassuntiva

Atteggiamenti che favoriscono l’interculturalità

Qualità comunità interculturale

    • la fiducia (in sé e negli altri)
    • senso dei limiti (propri)
    • conversione come spogliamento di sé
    • dialogo aperto e generoso
    • profezia
    • testimonianza di comunione
    • segno umanità alternativa/nuova

Lo strumento indicato per evitare la logica vincitori/vinti viene reperito nel dialogo aperto e generoso. Sarà questo strumento che permetterà di costruire la comunità interculturale.

Il dialogo aperto verso rapporti “positivi ed arricchenti”, richiede un set di atteggiamenti da assumere nelle relazioni:

Spogliamento di sé, fiducia in se stesso e nell’altro, riconoscimento dei propri limiti.

La comunità interculturale (che vive all’interno delle relazioni dei membri atteggiamenti di dialogo-fiducia e conversione) è, a sua volta, nell’ambiente dove è posta: profezia, testimonianza di comunione, segno di un’umanità nuova.

Terzo asse:
legame tra internazionalità-interculturalità-identità comboniana

Afferma la Lettera:

Noi comboniani non dovremmo avere dubbi circa la nostra opzione interculturale, giacché siamo nati internazionali. – Perché – così ci pensò Daniele Comboni […].

A dodici anni dalla sua fondazione, l’Istituto annoverava già membri di 12 nazionalità e quattro continenti (nn. 24-25).

La Lettera stabilisce un legame logico e conseguenziale tra internazionalità e interculturalità.

Essendo nati internazionali, la diversità fa parte del codice genetico dell’Istituto comboniano, gli è coessenziale, perché i comboniani sono stati pensati proprio con questa caratteristica dal loro Fondatore.

L’opzione per l’interculturalità è un fatto fisiologico, naturale, nel senso che segue la propria natura di origine.

In altre parole l’Istituto o è interculturale o non è l’Istituto voluto da Comboni.

Ciò che l’opzione internazionale implica:

Optare per comunità internazionali significa assumere la sfida dell’interculturalità. Questa diventa una nota essenziale della nostra maniera concreta di vivere la vocazione missionaria, fino al punto che la capacità di vivere in comunità internazionali deve essere promossa e verificata fin dalle prime fasi della formazione ed è criterio di discernimento per l’ammissione dei candidati ai voti (n. 34; cfr AC ’97, 148;  RV 160, 426).

Opzione per l’internazionalità delle comunità ed assunzione della sfida dell’interculturalità vanno di pari passo: non è possibile avere comunità internazionali senza raccogliere la sfida dell’interculturalità.

Anzi, assumere questa sfida è sinonimo di vivere concretamente, nella realtà, la propria vocazione missionaria.

Viene fatto quindi il collegamento tra assunzione della sfida dell’interculturalità e vissuto autentico della vocazione missionaria.

Legame interculturalità/identità

La riprova del legame che c’è tra vocazione ed interculturalità si trova anche nel fatto che la capacità di vivere in comunità internazionali da parte dei candidati diventa criterio di discernimento della vocazione stessa.

Ciò significa che l’interculturalità sarà presente nel processo formativo, e di questo diventa elemento discriminante tra ammissione ai voti e ri-orientamento del candidato a secondo che questi manifesti capacità o meno di vivere in comunità internazionali.

Per quanto riguarda il rapporto tra internazionalità-interculturalità-identità, possiamo pertanto concludere che la Lettera vede l’interculturalità come coessenziale all’identità comboniana. Questa si connota come un’identità interculturale.

All’interno del legame tra identità e interculturalità, la Lettera si pone a riguardo alcuni interrogativi:

l’interculturalità ci obbliga a porci delle domande fondamentali come: quale è l’essenza irrinunciabile della nostra identità comboniana? Come può essere mantenuta e ricreata nella pluralità di culture? Quali elementi del carisma del nostro Fondatore dovrebbero essere accentuati nella realtà missionaria del mondo attuale? Ecc. (n. 9).

Sono interrogativi che come abbiamo visto sono comuni agli Istituti religiosi multiculturali e hanno l’intento di attivare una ricerca e riflessione sul tema.

Qual è il fine ultimo di questa educazione all’interculturalità? Anche qui la Lettera è chiara:

Il fine ultimo dell’educazione all’interculturalità non è né l’arricchimento della persona, la creazione di una comunità varia e umanamente attraente […], ma il servizio al Regno (n. 95).

Per la Lettera l’interculturalità è legata al servizio del Regno, è qui che sta il suo fine ultimo.

Fine che è coerente con la matrice cognitiva che la Lettera ha: l’interculturalità è dono di Dio e Segno dei tempi.

L’ultimo Simposio di Limone aveva come tema: Missione e interculturalità. La prassi interculturale come sfida missionaria.

Nel 2009 i Missionari della Consolata hanno tenuto un convegno a conclusione del biennio dell’interculturalità avente come titolo: L’interculturalità: nuovo paradigma della Missione.

Alla fine la Lettera termina con delle appendici che vengono affidate alla riflessione delle comunità nei loro incontri.

Le appendici sono quasi un voler avviare un processo di interculturalità conseguentemente a quanto affermato al n. 46: «Nessuno nasce interculturale; tutti nasciamo ‘culturati’ e diventiamo interculturali».

L’interculturalità, dunque, non si trova in natura, va provocata e progettata attraverso un processo educativo che va in questa prospettiva per «diventare» interculturali. Persone con una mens interculturale.

Ed ecco che viene chiamato in gioco il nostro processo di educazione/formazione.

Come i Capitoli Post-Lettera vedono la questione interculturalità

Capitolo 2003 I

In un mondo fortemente marcato dalla globalizzazione, dove il successo del singolo viene spesso esaltato a scapito di tutti, la comunità comboniana diventa segno di quel villaggio globale che si vuole costruire. In essa l’internazionalità e l’interculturalità vengono vissute come dono e ricchezza, non come problema o minaccia. Comboni voleva che la sua opera fosse “cattolica e non spagnola o francese o tedesca o italiana” (AC n. 82).

[le comunità interculturali sono] profezia in atto per l’umanità, segno di comunione e di riconciliazione in una umanità dilaniata da conflitti e divisioni [promuovendo] la globalizzazione della solidarietà […] (AC nn. 25-26).

Ritroviamo qui la riaffermazione del pensiero della Lettera in buona sostanza, con qualche specifica in più.

Capitolo 2003 II

Interculturali non si nasce, si diventa. E sotto questo profilo il Capitolo esprime tutta la sua preoccupazione quando afferma:

«Constatiamo (…) l’emergere e il permanere di atteggiamenti ed espressioni di giudizio negativo nei riguardi di confratelli di diverse provenienza etniche e culturali» (n. 73.5)

E con realismo continua:

«Diamo per scontata [ma quanto scontata?] la capacità di vivere ed affrontare ambienti e comunità interculturali in maniera serena e positiva.

Ci chiediamo se siamo sufficientemente aiutati a leggere la nostra cultura e storia con i suoi limiti, come pure a leggere le altre in chiave di complementarietà, rispetto e ricchezza» (n. 74.7).

Come aveva già precedentemente sostenuto,  c’è un bisogno:

Maturare nella capacità di vivere l’interculturalità come dono (n. 52.5).

In questi passi degli AC 2003 è visibile tutta la problematicità e la problematizzazione con la sua criticità della multiculturalità nell’Istituto.

Lettera Intercapitolare 2006 I

La Lettera di indizione dell’Intercapitolare 2006 problematizza ancora di più la fatica di vivere le relazioni tra le diversità multiculturali nell’Istituto.

Dopo aver affermato il dato di fatto che «ci ritroviamo in una nuova geografia vocazionale e con essa arriva il dono dell’interculturalità» (n. 5), passa ad una constatazione che ha dell’amaro quando dice:

Vi sono confratelli (…) che si abbandonano troppo facilmente a dietrologie e vittimismi. Il passato diventa campo di scontro e recriminazioni, se non anche, a volte, una memoria da usare ‘contro’.

Ciò genera chiusura reciproca ed ostilità; in tale clima, il riferimento alla propria cultura, allora, viene usato non come momento per costruire ed arricchirsi reciprocamente, quanto piuttosto per recriminare diritti, (…) e giustificare atteggiamenti a volte discutibili”.

Lettera Intercapitolare 2006 II

La Lettera Intercapitolare continua dicendo che:

Dobbiamo preoccuparci perché tutto ciò non aiuta a radicare il carisma nella cultura né a fare appartenere la cultura al carisma.

Non si crea, cioè, identificazione e senso di appartenenza.

E’ un campo da analizzare con cura per favorire e valorizzare l’attenzione alla persona e alla identità culturale, la bellezza e l’arricchimento della creatività dei nuovi confratelli.

E’ importante, allo stesso tempo, evidenziare anche la ‘zizzania’ seminata da chi, in vari modi, vorrebbe utilizzare la cultura per non mettersi in discussione, o, peggio, per poter fare i propri comodi” (n. 6).

L’attuale sistema formativo davanti alla diversità culturale come si situa? Secondo questo documento

«Il sistema formativo non riesce a dare una risposta alle problematiche che l’insieme delle diverse culture presenta […]» (n. 10).

Il sistema formativo è il punto strategico dal quale deve partire la dinamica di incontro pur nei momenti di scontro tra le culture che abita ormai l’Istituto.

Capitolo 2009

Questo Capitolo evidenzia che:

«La società di oggi cammina verso una cultura sempre più globalizzata, caratterizzata da una pluralità di visioni e da un relativismo che ci obbligano a rivedere alcune nostre certezze e da un ‘’pensiero debole’’ che rende più difficile assumere un impegno vocazionale a vita » (n. 3.1). 

La tematica diversità culturale nel Capitolo 2015 I

Il Capitolo 2015 si è lungamente attardato sulla tematica multiculturale:

Il mondo è oggi un grande villaggio. Ci sentiamo geograficamente più vicini gli uni gli altri e sperimentiamo la bellezza delle nostre differenze che ci arricchiscono e ci aprono alla solidarietà (n 7).

Abbiamo sempre più coscienza della ricchezza spirituale e culturale delle minoranze scartate (n 3).

La multiculturalità del nostro Istituto è cresciuta molto e questa è per noi opportunità e sfida (n 15).

Capitolo 2015 II

AC n 47.1 La multiculturalità è una grazia che fa parte del “nostro patrimonio carismatico” del nostro Istituto fin dalla sua fondazione (cfr RV 18).

RdV

L’Istituto, composto da membri provenienti da differenti paesi e culture, è espressione di amicizia e solidarietà fraterna e segno della cattolicità della Chiesa: dà testimonianza concreta di quella comunione nello Spirito che caratterizza il popolo di Dio e che non abolisce le diversità, ma le rende fattori di unità (n 18).

Il missionario acquista atteggiamento e apertura internazionali solo gradualmente. Mediante uno sforzo personale e un adeguato tirocinio, diventa capace di confrontare e condividere le prospettive e le esperienze che derivano dalla diversità delle culture e di comprendere e rispettare gli altri nella loro diversità (18.1).

L’Istituto si sforza di facilitare lo scambio di idee, esperienze e valori tra le Chiese locali, particolarmente con l’impiego di personale di differenti nazioni (18.2).

Capitolo 2015 III

Fotografia dell’Istituto: la popolazione dell’Istituto oggi è più di ieri multiculturale, molti sono i paesi di provenienza dei suoi membri.

47.2  […]L’interazione fra queste [culture] diventa cammino che  arricchisce:

                      - le persone,

- le comunità

 -e il nostro servizio missionario (interculturalità).

Capitolo 2015 IV

47.3 Davanti alla multiculturalità dell’Istituto si configurano due tipi di reazioni:

                        a. Alcuni la vivono con:

                                   - ansia

                                   - frustrazione

                                   - indifferenza

                                   - superficialità

b. Altri invece colgono la multiculturalità come:

                        - grazia

                        - crescita nella

                                   . identità comb.

                                   . qualità relazioni

                                   . profezia missione

Capitolo 2015 IVa

47.4 L’invito che gli AC fanno si pone a due livelli.

a.  Abbandonare:      

- complessi

- pregiudizi

- sospetto

- paura

di fronte alla differenza che l’altro incarna.

b. Siamo chiamati a:

                                               - aprirci fiducia reciproca

                                               - conoscenza reciproca (cultura altro)

                                               - rispetto

                                               - valorizzazione differenze

Capitolo 2015 VI

I fattori che aiutano ad affrontare le tensioni del gruppo

                                               a. presa di coscienza e condivisione reciproche ricchezze

                                               b. relativizzazione rispettive visioni:

                                                           -culturali

                                                           -religiose

                                                           -metodologiche

                                                          

Capitolo 2015 VII

47.5 Forze disgregatrici e forze di comunione.

a. Forze disgregatrici:

- Queste possono scaturire dalle differenze [poniamoci qui la domanda “quando” la differenza può minare l’unità del gruppo].

b. Forze di comunione:

                                   - vocazione

                                   - carisma

La capacità di comunione nella differenza diventa profezia e perciò capacità di costruire una umanità nuova.

47.6 Luogo dove le dinamiche interculturale si vivono è la comunità locale che le vive nella:

                                   - preghiera condivisa

                                   - incontri comunitari

                                   - iniziative su tema interculturalità

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Capitolo 2015 VIII

 Guardando da vicino nel Capitolo 2015 ritroviamo tutto quello che abbiamo incontrato nella Lettera e negli altri documenti:

  • l’interculturalità come dono,
  • la comunità interculturale che diventa segno di profezia,
  • di comunione,
  •  il con-vivere delle diversità che è ricchezza.

Così il Capitolo riprende pure e ridice ciò che ostacola, e frena il processo di incontro.

Capitolo 2015 IX

Per il percorso di interazione tra le diversità etnico-culturale che compongono l’Istituto, gli AC tracciano quattro livelli.

Qui entriamo in un programma di lavoro

  1. Segretariato generale formazione. Al segretariato viene dato il compito di preparare sussidi con contenuti e metodologie avvalendosi di esperti nel campo. I sussidi nell’articolazione del percorso devono valorizzare le ricchezze del patrimonio spirituale e culturale dell’Istituto.
  2. Al CG viene affidato il compito di offrire un anno di FP sul tema interculturalità (2019)
  3. Il terzo livello richiede ai superiori di circoscrizioni di offrire ai superiori locali una formazione specifica sull’interculturalità al fine di diventare animatori di comunità in prospettiva interculturale.
  4. Il quarto livello domanda alla comunità locale di impostare attraverso la Carta di comunità, il ritmo della vita comunitaria sempre in prospettiva interculturale.

Il Capitolo conclude dicendo che «la responsabilità di questo cammino è di ogni membro della comunità, in particolare del superiore locale e di circoscrizione».

Qual è la prima esigenza per attivare una autentica dinamica di educazione all’interculturalità?

Occorre preparare i formatori/educatori di base e permanente all’interculturalità per poter essere a loro volta enzima interculturale sia nel contesto della formazione di base che della formazione permanente.

Si tratta cioè, di acquisire quelli che sono gli skills di mediatori culturali.

Acquisire abilità e competenze interculturali attraverso un processo di formazione all’interculturalità.

P. Tesfaye intervenendo nel corso della 89ª assemblea semestrale dell’Usg del 2017, afferma in modo chiaro che «a volte non abbiamo formatori/educatori con sufficiente esperienza e conoscenza dei background culturali dei nostri candidati».

Risiede qui il quid della questione multiculturale/interculturale del nostro Istituto come degli altri Istituti: la formazione delle risorse umane.

Conclusione

A me sembra che finora nel nostro Istituto ci sia incertezza e discontinuità nell’affrontare questa tematica, nonostante interventi mirati di alcuni documenti e da alcuni interventi dei superiori maggiori, per esempio nelle assemblee della formazione.

La possibile spiegazione di questa incertezza e discontinuità ci sembra di poterla ravvisare in un deficit di politica organica che inserisca, dal punto di vista educativo, la dimensione interculturale come parte integrante nel curriculum del processo formativo. Se da una parte la necessità di preparare i candidati alla vita comunitaria multiculturale costituisce una costante, dall’altra, dal punto di vista di agito formativo, questa costante non appare sufficientemente tradotta in prassi. Lo stesso dicasi per la formazione permanente.

Dalla mia ricerca, che a suo tempo feci su questo tema, emerge che nei Centri di formazione esiste senza dubbio, una sensibilità alla diversità culturale, una disponibilità, almeno a livello teorico, mentale di incontrarsi col diverso; dall’altro lato, però, gli indicatori di deficit dicono che i Centri non sono ancora effettivamente in una dinamica interculturale ma multiculturale.

Si ravvisa un incipit  di interculturalità che potremmo chiamare processo di primo livello.

Il passaggio dalla multiculturalità all’interculturalità richiederà (oltre all’opzione fondamentale già fatta in questa prospettiva) la necessità di adottare politiche formative che vadano in questo senso, la prima delle quali, dovrà essere la specializzazione delle risorse umane impiegate nella formazione di base e permanente in apprendimenti e competenze interculturali.

Chiudiamo riprendendo quanto diceva P. Leocir Passini: «Se le nostre comunità non diventano interculturali, non sopravvivranno».