Giovedì 2 marzo 2017
Rinnovando l'invito per il prossimo incontro de “I giovedì della Missione” sul tema “Migrazioni, Africa ed Europa a confronto” con Franco Valenti e P. Efrem Tresoldi, pubblichiamo qui la relazione dell'incontro di giovedì 9 febbraio “I ministeri in una chiesa missionaria” con Mauro Castagnaro. "La Chiesa non è un’associazione, ma il corpo di Cristo. Il Signore Gesù ha voluto che il suo messaggio sia inculturato e che in questa comunità della Chiesa ci fossero vari compiti, ministeri", ha detto P. Sandro Cadei, comboniano. Nella foto: Fr. Humberto Rua, missionario comboniano, in Costa Rica.
“I MINISTERI IN UNA CHIESA MISSONARIA”
Mauro Castagnaro c/o Missionari Comboniani
Brescia
Introduzione Padre Sandro Cadei, comboniano
Abbiamo parlato negli incontri precedenti del dialogo, dell’ecumenismo e della Chiesa che si fa attraente. Stasera si parlerà dei ministeri in una Chiesa missionaria. La Chiesa non è un’associazione, ma il corpo di Cristo. Il Signore Gesù ha voluto che il suo messaggio sia inculturato e che in questa comunità della Chiesa ci fossero vari compiti, ministeri. Lascio ora la parola a P. Menin che ci spiegherà quale è la situazione attuale per essere Chiesa.
P. Mario Menin (direttore di Missione Oggi)
Buonasera! Benvenuti, benvenute a questo nostro terzo appuntamento. Appunto, come è stato detto, tratteremo il tema dei ministeri in una Chiesa missionaria. Abbiamo già fatto un po’ di cammino. Nel primo incontro, vi ricordate, abbiamo trattato del tema in senso generale, il significato di cristianesimo attraente. Vi ricordate anche la critica al titolo, mossa dalla sorella canossiana, Madre Eliana, che subito ci ha detto: io questo titolo non lo accetto così acriticamente, perché per essere cristiani attraenti bisogna prima essere attratti da Gesù Cristo, bisogna lasciarsi attirare da Gesù Cristo. Allora, forse, si può essere anche attraenti. Questo voleva dire anche un ritorno alla sorgente. Vi ricordate, poi, quello che ci ha detto don Fabio Corazzina, il quale si è interrogato sul perché c’è un certo tipo di gente che è attirata dalle nostre comunità cristiane, gente anche con problemi, disagi, … Perché la gente “più normale” fatica ad essere attirata dalle nostre comunità?
Nel secondo incontro abbiamo avuto con noi Paolo Naso e Giuseppe Morotti, un valdese ed un cattolico, ed Anne Zell, la pastora della Chiesa valdese che li ha introdotti. Il tema era “Religioni, laicità e trasformazioni sociali”. Abbiamo sentito, soprattutto da Paolo Naso, come il cristianesimo, attraverso la Riforma Protestante, è stato anche un fattore di grande trasformazione sociale. Vi ricordate i sei punti? Non sto qui a ripeterveli, ma mi sembrano interessanti. In pochi minuti ci ha tracciato il senso della Riforma Protestante, attraverso quell’aggettivo “solus, sola” (“Sola Gratia”, “Sola Fide”, “Solus Christus”, “Sola Scriptura”, “Soli Deo Gloria”) e “Sacerdozio universale dei credenti”. Dobbiamo approfittare di questo sesto punto, cioè il sacerdozio universale dei credenti, per agganciare anche il tema di questo nostro incontro, la ministerialità di tutti i battezzati.
Il Concilio Vaticano II, 52 anni fa, nonostante la riscoperta della categoria popolo di Dio, Chiesa come popolo di Dio, ha però continuato a pensare ancora la struttura della Chiesa in termini binari: gerarchia e laicato, laicato e gerarchia. Oggi questo binomio va ripensato, soprattutto a partire dalla novità dei ministeri laicali. Il nostro titolo non usa questo aggettivo laicali, ma “I ministeri in una Chiesa missionaria”, ma, diciamo, lo comprende. I ministeri laicali sono un polo di grande trasformazione anche del concetto di Chiesa.
È da riconoscere, infatti, questo polo dei ministeri laicali, come un segno dei tempi, opera dello Spirito Santo, soprattutto a partire dall’esperienza delle Chiese missionarie. Noi partiremo anche dal racconto di alcune esperienze ministeriali proprio delle Chiese del Sud, delle Chiese cosiddette missionarie. Un segno dei tempi, opera dello Spirito Santo, e non solo come conseguenza della mancanza di clero, anche se possiamo dire che quest’ultima, cioè la mancanza di clero, la carenza di clero, ha condizionato e favorito l’emergere di questo polo nuovo, terzo polo, tra gerarchia e laicato, i ministeri laicali.
Si tratta di vedere come, nella pratica concreta della Chiesa, soprattutto di una Chiesa missionaria, stia sorgendo un nuovo polo ministeriale, formato da laici, da donne, da uomini, da giovani, che si mettono a disposizione della Chiesa per compiti pastorali, non solo per chiudere ed aprire la porta (che comunque è già una cosa molto importante), ma per aprire e mantenere aperta la porta di una Chiesa, di una comunità cristiana, anche per ministeri interni alla comunità, a partire da un riconoscimento ufficiale da parte del proprio vescovo. Vedremo queste esperienze anche in alcune Chiese. Il dualismo storico tra i responsabili del ministero apostolico e l’insieme della comunità, dualismo che sembra risalire allo stesso Nuovo Testamento e si esprimerà poi nel binomio chierici – laici, laici – chierici.
Chi sono i chierici? Quelli che non sono laici. Periodicamente ha dato vita nella Chiesa ad un terzo polo, quindi è bene sempre considerare il tema della ministerialità, dei ministeri ordinari e dei ministeri laicali oggi, anche sempre con uno sguardo storico. Periodicamente diciamo che nella vita della Chiesa è nato un terzo polo, quello dei ministeri laicali. Vediamo come. Dalla relazione binaria tra Gesù e le moltitudini è nato il gruppo dei discepoli. Gesù e le moltitudini. In tempo di crisi la Chiesa ha fatto sorgere il Gruppo dei Sette, che noi chiamiamo diaconi, ma non nel senso attuale. Il Gruppo dei Sette, tra gli Apostoli e la comunità. Se nella comunità è accaduto lo stesso con il gruppo dei compagni di Paolo e dei ministri locali, ci sarà una ragione.
I compagni di Paolo, i ministri locali e la comunità. I ministri locali, secondo le necessità di quella comunità, ecco il terzo polo. Se nei secoli IV e V a Roma si può parlare di diaconi, è perché costituivano un terzo polo. Se lungo la storia bi millenaria della Chiesa appare ogni tanto il polo profetico della vita religiosa (attraverso i monaci – che non sono chierici, spesso sono dei laici -, gli ordini mendicanti, gli ordini apostolici), come non vedere oggi nei ministeri laicali, soprattutto nelle Chiese cosiddette missionarie, un fenomeno simile, con profonde ripercussioni anche sull’immagine della Chiesa come tale? Uomini, a partire dall’esperienza del Brasile, ma direi soprattutto donne, si dispongono ad un servizio pastorale, senza esigere il ministero ordinato, perché sono già impegnati, lo sanno, sono già impegnate nella vita familiare, nella vita matrimoniale.
All’interno del tradizionale binomio chierici – laici c’è chi, anche in America Latina, vorrebbe discutere l’ordinazione presbiterale delle donne, l’ordinazione di uomini sposati. Sono state portate delle proposte anche dal Vaticano II. Sono questioni importanti, senz’altro, ma secondarie rispetto al più imponente fenomeno dei ministeri laicali di uomini e donne, che apre a nuove prospettive ecclesiali, prima che pastorali. È un nuovo paradigma della Chiesa. Io direi che se riconosciuto all’interno della Chiesa, il polo dei ministeri laicali può avere delle ripercussioni profonde anche sulla struttura della parrocchia, perché spinge ad un ripensamento profondo del compito dello stesso parroco, del modello del parroco tridentino, che ancora è in vigore sostanzialmente. Non siamo ancora stati capaci di trovare un altro modello di parroco sostitutivo a quello tridentino. Già nel documento di Puebla troviamo alcune prospettive che preconizzano la trasformazione della parrocchia in una rete di gruppi, di comunità, in un centro di coordinamento, di animazione, … Ci sono alcuni numeri interessanti soprattutto nel documento di Puebla.
In questo nuovo paradigma ecclesiale (dopo do senz’altro la parola al vero relatore, Mauro Castagnaro), il parroco diventa un coordinatore di comunità o di parrocchie unificate, aiutato da una equipe di religiosi, di religiose, seminaristi, laici, … Le comunità minori saranno coordinate da equipe di laici con diversi ministeri, non ordinati. In questa prospettiva, al posto del parroco tradizionale, si potrebbe avere (e si ha in America Latina) un parroco cosiddetto episcopale (dove episcopale non ha niente a che vedere con il vescovo come noi lo concepiamo oggi), incaricato di coordinare tutti i ministeri di quell’area pastorale. Con la funzione di animare l’insieme delle comunità, in tutte le loro dimensioni, favorendo l’unità delle comunità, piccole, grandi (pensate all’Amazzonia, con dei fiumi, quante comunità). Ciascuno di noi in questo momento, soprattutto i missionari qui presenti, può pensare a realtà o ambienti pastorali diversi.
In tal caso la visita del parroco cosiddetto episcopale non sarebbe (come si dice solitamente in America Latina) una semplice “desobriga” (cioè il prete arriva e celebra tutti i sacramenti in una sola volta, poi se ne va). Rischiamo di diventare dei “desobrigadores” anche qui e quindi il prete che va e celebra l’Eucarestia e poi se ne va e ritorna dopo un mese o un anno in certe zone. Questo parroco episcopale sarebbe invece incaricato dell’animazione di tutta la vita comunitaria, della verifica del lavoro, dell’animazione dei laici, della formazione delle pastorali sociali, … Quindi, in questo nuovo paradigma, il parroco episcopale e la vita consacrata stessa acquisterebbero una importanza particolare anche al fine di evitare la clericalizzazione e la chiusura delle comunità su loro stesse.
In questo nuovo modello di Chiesa è gioco forza pensare, ripensare la questione del potere del ministero ordinato e qui tocchiamo la questione che ha toccato anche il Concilio Vaticano II. Il sacerdozio ministeriale conferisce un potere sacro per il servizio dei fedeli, agendo “in persona Christi”, capo e pastore, ma sempre all’interno della Chiesa come popolo di Dio, ci dice il Concilio. Questo potere non si discute, ma va riconosciuta la forma di esercitarlo. Il parroco non può essere detentore unico ed esclusivo. Forse sta qui la maggiore difficoltà: pensare un nuovo modo di esercitare il potere. Se vogliamo prendere seriamente in considerazione il nuovo modo di essere Chiesa, con i nuovi ministeri laicali, nelle nuove unità pastorali formate da diverse comunità, proprio dobbiamo ripensare la gestione dell’esercizio del potere. E vado verso la conclusione di questa introduzione: la vita precede sempre le norme, soprattutto nelle Chiese missionarie.
La vitalità che io personalmente ho constatato nella Chiesa in Brasile (ma si potrebbe anche parlare della Chiesa in Africa, in Asia, …). Per esempio, stavo leggendo a Mauro, prima di venire qui, un piccolo passaggio dei cristiani clandestini, nascosti, in Giappone, nell’epoca della persecuzione. Lo vedete bene anche nel film “Silence” (2006) di Scorsese (tratto dal romanzo storico “Silence” dello scrittore giapponese Sh?saku End?, che ripropone appunto le persecuzioni subite dai cristiani durante il periodo Tokugawa nella prima metà del XVII secolo in Giappone), che vede protagonisti tre padri gesuiti perseguitati in Giappone a causa della loro fede cristiana.
Faccio uno spot pubblicitario per sabato prossimo, quando presenteremo il libro “Cercare Dio nella palude” di Tiziano Tosolini. “Nonostante le persecuzioni e gli impedimenti alla libertà religiosa, i cristiani nascosti stabilirono una loro gerarchia religiosa”. Non avevano più i missionari, i preti, o ne avevano pochi. “E quindi avevano il Chokata (incaricato del calendario per l’osservanza dei giorni di precetto), il Mesukata (incaricato invece di amministrare i battesimi) …”. Avevano i loro ministeri in una congiuntura di persecuzione. Pensiamo anche alla Chiesa coreana, pensiamo anche alla Cina in alcuni momenti.
Si può girare il mondo e si vede come la Chiesa, anche nelle situazioni più tenebrose (penso alla Chiesa in Cina durante la persecuzione maoista) si riorganizza, come si riorganizzano anche i ministeri. Stavo leggendo proprio in questi giorni alcune pagine sul vescovo dei briganti, così chiamato, Mons. Luigi Calza, morto nel 1944 di stenti in Cina e come i cristiani si organizzavano, mentre tutti i Padri ed i missionari occidentali venivano spediti nei campi di concentramento, rimanevano da soli.
La vita precede sempre le norme. Io ho constatato appunto questa vitalità nella Chiesa missionaria (soprattutto in Brasile dove sono stato), in rapporto al moltiplicarsi di comunità, di ministeri laicali, che non hanno la copertura del codice di diritto canonico, perché il codice di diritto canonico (anche il nuovo, quello del 1983) permette per eccezione qualche cosa. Però io non me la sto prendendo con il diritto canonico, perché la natura del diritto canonico è quella di inseguire e poi regolare l’esperienza di una Chiesa.
In Brasile, anche in Italia, le eccezioni sono diventate ormai regola. Se da un lato non dobbiamo aver fretta a legiferare, creando regole che ostacolano la creatività (perché quando fai una regola rischi di ostacolare la creatività), dall’altro, approfittando delle brecce aperte dal diritto canonico, si può esercitare il potere legittimo della Chiesa locale, per prendere alcune decisioni a livello di diocesi, di Conferenze episcopali, regionali, … Mi sembra che Papa Francesco su questo stia chiedendo alle Conferenze Episcopali di prendersi la propria responsabilità, attraverso quel principio della decentralizzazione, di modo che un vescovo, le Conferenze Episcopali, le macroregioni, le Conferenze regionali si prendano le loro responsabilità, anche sotto l’aspetto della creatività ministeriale.
Se l’aspetto giuridico non deve prevalere su quello esistenziale, c’è però la necessità di decidere, perché il riconoscimento di nuovi ministeri e della maturità ecclesiale dei laici non dipenda solo dall’arbitrio di alcuni vescovi o parroci più avanti. È successo un caso, in una diocesi del Brasile, che un vescovo aveva impostato tutta l’azione pastorale sulle diaconie dei diaconi. Il vescovo che l’ha seguito ha smontato tutto questo sistema diaconale, di diaconie, ed ha rimesso i presbiteri al loro posto, i quali non aspettavano altro che di ritornare. Per cui il diritto canonico è importante anche per garantire continuità a certe esperienze.
I documenti e le esperienze della Chiesa missionaria ci sfidano ad ampliare le basi della partecipazione dei laici, perché possano esercitare più pienamente i loro poteri in seno alla comunità ed un legittimo protagonismo anche nella vita pubblica. Formare ministri adeguati alle necessità delle nostre comunità, specialmente il ministero dell’animazione e della presidenza della comunità, esercitato da laici, uomini o donne che siano servi del popolo di Dio, aperti al dialogo, al lavoro di squadra, che non siano dei chierichetti, che non siano degli ammalati di clericalismo. Oggi è una grande sfida pastorale ed ecclesiale anche per la Chiesa italiana.
Presento Mauro Castagnaro, che adesso ci farà fare un viaggio, lo seguiremo in giro per il mondo, soprattutto in America Latina - lui è specialista di America Latina - raccontandoci esperienze di Chiese missionarie che si sono aperte alla creatività ministeriale, per rispondere a delle necessità, a delle peculiarità particolari, a delle esigenze, a delle sfide. Originario di Crema, laureato in Scienze Politiche, da sempre impegnato sui temi della pace e della solidarietà internazionale, giornalista professionista, specializzato sull’America Latina, si occupa anche di ecumenismo. Qui ho portato il suo ultimo dossier “Ortodossi, sinodo selfi o profetico”. Collabora con le riviste Il Regno, Jesus, Mosaico di Pace. Ha curato presso le edizioni La Meridiana diversi volumi vicini al nostro tema. Cito “Preti sposati nella Chiesa cattolica”, “Eucaristia senza prete”. È anche redattore di Missione Oggi, per la quale ha curato diversi dossier e sul tema dei ministeri anche laicali, per esempio nel 2009 “Quali ministri ordinati per il terzo Millennio?”. Ultimo libro, “Il dissenso soffocato. Un’agenda per Papa Francesco”. Lo ascoltiamo volentieri e grazie per aver accettato di intrattenerci su questo tema, scottante ma molto interessante.
Mauro Castagnaro
È un tema scottante, però è un tema che suona un po’ intraecclesiale, cioè una roba un po’ per noi. Io credo che questo sia in parte vero, però il come la Chiesa si organizza al proprio interno non è irrilevante rispetto alla testimonianza che dà all’esterno. Vi faccio un esempio banalissimo. Quando c’è stato questo processo dei due sinodi sulla famiglia, molto interessante per noi che siamo dentro la Chiesa (il questionario, discussione diffusa, primo sinodo, un anno di discussione, secondo sinodo) era una cosa che mi interessava molto, mi appassionava molto. Ma quando parlavo fuori dalla Chiesa, le persone mi dicevano: scusa, ma a parlare di famiglia voi riunite duecento uomini anziani celibi e questi dovrebbero dire qualcosa sulla famiglia?
Se noi ci togliamo un attimo dal nostro ruolo, non è proprio un’obiezione così campata per aria. Quindi come noi strutturiamo il nostro modo di essere, il nostro modo di agire, determiniamo la nostra testimonianza. È evidente che perlomeno in una parte importante del mondo il fatto di essere di fronte all’unica organizzazione di una certa consistenza (anzi, di una grande consistenza) in cui le donne sono del tutto escluse da tutti i luoghi decisionali fa un po’ problema.
Quindi questa realtà è un tema che suona un po’ per addetti ai lavori, ma in realtà io credo che sia un tema molto importante. Se poi lo guardiamo dal di dentro, io credo che l’importanza sia anche legata a questo momento storico che viviamo, cioè il 2017, 2016, 2018. Perché nel breve periodo noi possiamo dire che l’ascesa di Papa Francesco al soglio pontificio ha riaperto una serie di discussioni all’interno della Chiesa, tra cui quelle sui ministeri, che diciamo negli ultimi venticinque anni erano state sostanzialmente acquietate.
Ma se lo guardiamo in una prospettiva più lunga, di fatto noi stiamo vivendo come Chiesa (mi sembra, ma non lo dico soltanto io) una transizione spazio-temporale che è quella dell’essere usciti con il Concilio Vaticano II dal un modello (che era il modello tridentino, diciamo per convenzione), ma non essere ancora approdati ad un altro assetto in qualche modo ecclesiologico soddisfacente, ed in termini spaziali (e qui lo dico in casa di missionari, per cui non è difficile dirlo e forse è una delle cause anche della difficoltà che vive il mondo missionario oggi) noi siamo per la prima volta di fronte al fatto, perlomeno nella Chiesa cattolica, di avere una Chiesa effettivamente universale, cioè una Chiesa che è dappertutto. La Chiesa cattolica ha oggi tra le 4.000 e le 5.000 diocesi nel mondo e non ci sono più luoghi, se non assolutamente piccoli, luoghi fisici per i quali si può dire che la Chiesa non c’è.
È diverso rispetto a 150 anni fa, in cui la Chiesa era l’Occidente, l’Occidente allargato. In Asia c’erano le grandi religioni (ci sono ancora), ma la Chiesa esiste in quei Paesi. L’Africa, “hic sunt leones”, ed in America Latina erano diocesi di antica costituzione, ma ancora una Chiesa molto calco. Quindi noi siamo in una fase in cui la Chiesa cattolica romana deve in qualche modo ripensarsi (e sicuramente la coda del ragionamento di Mario Menin su questo tema della decentralizzazione va in questo senso). Come si fa a tenere assieme la cattolicità, cioè l’essere un’unica Chiesa, ma in cui non possiamo pensare di essere tutti eguali, tutti eguali nel senso dell’uniformità? Questo è un problema complesso, perché è inevitabilmente fonte di tensioni e di conflitti, ma ineludibile.
È ineludibile, perché sul piano teorico ci rendiamo conto che non possiamo più pensare di omogeneizzare tutto, cioè che ci sia il modello occidentale (forgiato sul pensiero greco, …) che si riproduce ovunque. Oggi questo è istintivamente percepito come una forma oppressiva. E, d’altra parte, se voi leggete l’Evangeli Gaudium, su questo il Papa è molto preciso. L’altra questione è che si capisce che le culture che non conoscevano direttamente il cristianesimo non sono tabula rasa. Non è che Dio è arrivato con i primi missionari, Dio c’era già prima. E allora, come si fa a sviluppare un cristianesimo autenticamente africano? Non è soltanto qualche danza, qualche aspetto folkloristico, ma vuol dire ripensare il proprio modo di essere, il proprio modo di pensare la fede, il proprio modo di individuare dei simboli, …
In questo processo, che è un processo di trasformazione ovviamente lento, ovviamente complesso, ma che ci attraversa, entrano anche i ministeri, cioè entra anche il problema di come queste comunità cristiane si organizzano, rispondendo ai bisogni che via via emergono, al proprio interno e fuori di sé. Il tema dei ministeri in Italia. Cercherò di partire dall’Italia, andare fuori e ritornare poi all’Italia, perché mi hanno detto che interessa anche fare un ragionamento su di noi. In Italia il tema dei ministeri è stato discusso nel dopo il Concilio Vaticano II. Fino alla fine degli anni ’70 se ne è discusso abbastanza, intanto perché c’era tutto questo paradigma ecclesiologico del Vaticano II che doveva in qualche modo andare a regime, o che comunque imponeva dei cambiamenti. Nel cambiare bisognava sperimentare e si è ragionato anche su questo.
Dall’altra parte, era una stagione (perlomeno nel nostro Paese) di vivacità del laicato e di vivacità della società. Quindi la domanda di partecipazione, di protagonismo, di dire la propria, era molto forte e questo ha portato ad una discussione abbastanza consistente. Ma nel momento in cui la temperie culturale ed ecclesiale è un po’ cambiata (il riflusso sul piano civile, culturale, …), ed anche nella Chiesa si è tornati ad una situazione più centralizzata, più di riaffermazione dell’autorità ed in particolare dell’autorità del presbitero, siccome la quantità dei preti era ancora molto consistente, l’ondata della discussione ed anche delle esperienze è abbastanza rifluita senza lasciare molta traccia.
In fondo, se noi guardiamo oggi alla media delle nostre comunità (questo credo che valga anche per Brescia, che non conosco benissimo), sono anni che ci sentiamo dire in tutte le salse che bisogna passare dalla collaborazione alla corresponsabilità dei laici. Se io devo pensare cosa fa un laico in parrocchia, il catechista. Normalmente è il ruolo che effettivamente è riconosciuto, non dico con una ministerialità piena. Per esempio, nella mia diocesi si fa la cerimonia del mandato ai catechisti (immagino anche qui), ma è l’unica figura che riceve non dico un’investitura, però … Gli altri ministeri che dopo il Vaticano II sono stati istituiti (cioè il lettorato e l’accolitato), mi verrebbe da dire non pervenuti. Nella mia diocesi non esistono, ma rarissimamente ho sentito parlare di diocesi dove esistono dei lettori e degli accoliti che abbiano un ruolo. Normalmente, o non ci sono o fanno più o meno i chierichetti.
La situazione in cui siamo adesso (sto parlando dell’Italia) è tutto sommato abbastanza deludente, da questo punto di vista. Non che non ci sia stato, non ci sia una presenza laicale. Esiste, c’è in molti aspetti, ma è una esperienza molto giocata sul volontarismo (cioè sulla disponibilità) e su un ruolo molto gregario rispetto al presbitero. In due direzioni. C’è il parroco che dice: tu fai quel che dico io ed il laico deve dire che certe cose lui non le fa ma le deve fare lui; il laico si limita ad eseguire quello che dici il prete. Questi aspetti in Italia ci portano ad una situazione in cui ci accorgiamo di aver perso tempo, perché adesso cominciamo anche noi a misurarci con il problema del calo e dell’invecchiamento del clero e cominciamo a chiederci cosa possiamo fare.
E c’è tutta la discussione sul fatto che bisognerebbe dare più spazio ai laici, ma i laici non se lo vogliono prendere … È colpa dei preti che in realtà non lo danno, ma in realtà sono i laici che non se lo prendono … Questo è un discorso che immagino nei nostri consigli pastorali è pane quotidiano. Questa situazione, però, oggi non possiamo più eluderla, perché altrimenti (e qui è un po’ quello su cui ritornerò un po’ alla fine) …
Come stiamo risolvendo questa cosa? Sostanzialmente la stiamo risolvendo in base a quest’idea. Siccome si riduce il numero dei preti, accorpiamo le parrocchie. Dove prima c’era un parroco per ogni parrocchia, adesso un parroco ne dovrà seguire quattro. Poi le chiamiamo unità pastorali, diciamo che è un problema ecclesiologico (ma stingi stringi è questo) e diciamo che però le parrocchie non scompaiono. Io ho l’esperienza di un’unità pastorale. Avere due consigli pastorali parrocchiali all’interno di un’unità pastorale è demenziale. Hai una moltiplicazione assolutamente inutile di incontri, di discussioni, …
È molto più onesto dirci, soprattutto se come nel mio caso una parrocchia di 3.000 abitanti che si mette insieme ad una parrocchia di 1.500, dirci che facciamo una parrocchia unica. Sì, ma ciascuno deve mantenere la sua identità, questo perché la gente si arrabbia, perché non ha più il parroco, ed allora bisogna fargli digerire in un modo che poi si rivela irrealistico. D’altra parte, se noi non abbiamo un’idea di dove vogliamo andare, un modello di Chiesa diverso, è inevitabile che tireremo la coperta … In Europa (conosco abbastanza bene la realtà europea) questo è un problema che hanno da tempo.
Ci sono situazioni (in Francia, in Svizzera, in Austria) con parroci che seguono quelle che prima erano quattordici, diciotto, venti parrocchie. Se voi andate sulle colline del piacentino (che sono posti bellissimi), lì ci sono parroci che seguono 7-8-9 parrocchie, anche 14. Uno può dire: va bene, non c’è problema. Ma se lo scegliamo e se abbiamo in testa un modello ecclesiale che permetta di reggere questa cosa, che non porti i parroci, i preti a vivere o con una frustrazione tremenda (perché diventano veramente dei funzionari del sacro) oppure ad andare in burnout, una sindrome di esaurimento emotivo, una specie di stress lavorativo, perché non ci stanno più dentro. O se no dobbiamo trovare un altro modo.
Questa è una discussione aperta. Il Sinodo diocesano l’avete fatto voi due anni fa, sulle unità pastorali. Noi abbiamo fatto a Crema delle cose simili e ci sono in giro in tutta Italia. Io ne conosco parecchie di esperienze, non ne ho sentito una a dire che sono soddisfatti, né i preti né i laici. E per non parlare dell’estero. In questo libro che avevo curato un paio d’anni fa (“Il dissenso soffocato. Un’agenda per Papa Francesco”), in una parte facevo un po’ una ricognizione dei movimenti che chiedono delle riforme nella Chiesa. Fra quelli che sono nati negli ultimi 5-6 anni, il caso più esemplare è quello dei preti disobbedienti austriaci.
Circa un decimo dei preti austriaci ha detto: noi più di due Messe al giorno non le diciamo più e noi vogliamo che si discuta di ordinazione delle donne, di uomini sposati. Ma non partono da un ragionamento teologico, come altri movimenti. Dicono di non farcela più. Ci sono stati dei casi di preti che hanno avuto un infarto mentre erano in macchina, anche abbastanza giovani, e che sono morti per questo, ed altri che hanno detto che così non si può andare avanti. La nostra non è ancora questa situazione, però non ci si può cullare all’infinito. Nella mia diocesi (una diocesi, la più piccola della Lombardia, che fino a qualche anno fa aveva il più alto rapporto tra preti e popolazione) nel giro ancora di 4-5 anni sarà quella con il rapporto più basso. Dal 1990 al 2014 nella mia diocesi sono stati ordinati 11 preti e ne sono morti 55, esattamente un ricambio di uno a cinque. Questa è la situazione in Italia.
All’estero, soprattutto nel Sud del mondo, la situazione è stata diversa, perché c’è stato lo stesso lavoro di rinnovamento dell’ecclesiologia, in più ci sono stati processi di inculturazione. Le Chiese un po’ dappertutto (chi di più, chi di meno) si sono rese conto di quel discorso che facevo prima. Se io voglio essere davvero una Chiesa autenticamente per esempio congolese, non è che posso riportare tutti gli schemi che funzionano a Bergamo ed applicarli là, perché è un’altra realtà. Anche queste Chiese hanno vissuto quello che ha vissuto la Chiesa italiana (come tempi, come momenti ecclesiali), ma la differenza è stata che c’era una scarsità di clero e la scarsità di clero ha fatto sì, necessariamente, che quello che era venuto, praticato (soprattutto negli anni 70-80) è rimasto, più o meno.
Che cosa è stato questa cosa? È quello che il biblista olandese-brasiliano Carlos Mesters ha chiamato “l’esplosione dei ministeri”. Nelle comunità, nelle diocesi, hanno cominciato ad emergere un sacco di figure laicali che facevano delle cose che il prete non poteva fare. Lo facevano già prima, non è che hanno tolto delle cose, ma hanno cominciato a farsene carico, ad assumere un ruolo di responsabilità ecclesiale. Hanno cominciato a dire che anche loro erano Chiesa e quindi anche loro erano parte attiva. Solo che era un po’ difficile dopo con una fase di riflusso per cui i preti riprendevano certe funzioni: non era possibile. Quindi c’è stata questa esplosione dei ministeri, soprattutto in America Latina, in alcune parti dell’Africa.
Cosa vuol dire ministeri? Vuol dire persone laiche che svolgono dei compiti a livello pastorale, a livello liturgico, a livello di pastorale sociale. Sono dei servizi. Noi usiamo la parola ministeri, ma sapete che ministero vuol dire servizio, che suonerebbe anche molto meglio, perché noi siamo abituati ad usare il termine ministero, ministro in termini politici, che è invece un ruolo di potere. Quindi servizi all’interno di una riflessione che era stata portata avanti, che era partita da Congar, dal Concilio, … che vedeva sostanzialmente il fatto che queste figure emergevano dalla comunità, rispondevano ad un bisogno, erano un impegno stabile ed erano un impegno riconosciuto, non solo dalla comunità ma anche dalla Chiesa locale. Quindi, in qualche modo il Vescovo riconosceva questo.
In alcuni casi ci sono state diocesi, per esempio in Brasile, che hanno istituito anche dei ministeri, formalmente, al di là di quelli che erano previsti (che erano il lettorato e l’accolitato). Questo processo ha fatto sì che per esempio la Conferenza Episcopale Brasiliana nel 1976 identificasse 73 diversi ministeri, divisi in 13 diverse categorie: i ministeri di amministrazione (cioè sostanzialmente economi), ministeri di animazione, ministeri della carità, ministeri di coordinamento, ministeri liturgici, ministeri missionari, ministeri della preghiera, ministeri della Parola, ministeri della presidenza, ministeri dei sacramenti, ministeri pastorali, ministeri dei diritti umani, ministeri della promozione e difesa della giustizia. Quindi ministeri ad extra ed ad intra, quindi figure con una loro istituzionalità. Questo per la Chiesa latino-americana è stato fatto.
Il Documento di Aparecida (la 5° Conferenza generale dell’episcopato latino-americano e dei Caraibi, quella del 2007, oggi molto richiamata perché Papa Bergoglio era stato scelto come coordinatore per la stesura del documento finale) non entra tanto in questo elenco che facevo prima, però cita esattamente l’importanza di questi ministeri, di questi servizi pastorali (servizi della Parola, ministri delle assemblee e di animazione delle comunità), comprese, dice Aparecida, le comunità ecclesiali di base.
La questione delle Comunità ecclesiali di base rispetto ai ministeri è centrale, perché è stata proprio l’esperienza diffusa della nascita di queste comunità ad un livello inferiore rispetto alle parrocchie (perlomeno sul piano giuridico) (il prete non era presente stabilmente), ma che hanno una loro vita (sacramentale, una loro vitalità liturgica, una loro vita di carità), che ha fatto sì che permettesse di far emergere e richiedesse anche di fare emergere queste figure. Questa è la situazione un po’ diffusa, generale.
Vi faccio un esempio molto significativo. Un Paese come l’Honduras, che è un Paese che non conta niente, piccolo, violento, povero che ha pochi abitanti (4-5 milioni di abitanti), in cui i preti adesso saranno, arriveranno in tutto il Paese a 300, già dagli anni ’60 ha messo in moto, a partire da un vescovo statunitense (quindi missionario) un movimento di delegati della Parola (40.000 delegati della Parola), ossia persone che si incaricavano sostanzialmente di animare i gruppi di riflessione sulla Parola. Questo a metà degli anni ’60. Oggi non è un’esperienza particolarmente originale, è presente un po’ dappertutto, ma all’epoca era una cosa estremamente originale, tenendo conto (visto che siamo anche nell’anno della Riforma) cosa voleva dire tutto il tema del predicare da parte di laici. Questi ovviamente erano laici e come sempre, diceva P. Mario, normalmente l’80% sono donne.
Un altro esempio che è significativo rispetto a questa esperienza latino-americana (che io conosco di più, naturalmente, ma qualcosa di simile esiste in diversi luoghi dell’Africa) è stato il tema dell’inculturazione. Soprattutto nelle zone dove c’era una forte presenza indigena (che spesso sono vicariati apostolici, che spesso sono affidati a congregazioni religiose missionarie), magari territori molto ampi, abbastanza isolati, la riflessione dopo il Concilio Vaticano II (in particolare quella sul rinnovamento dell’antropologia e della missiologia) portava a dire che non si poteva più andare lì a dire che quello in cui si credeva andava estirpato e sostituito con qualcos’altro, che è quello che dico io.
No, c’è stato tutto un ripensamento in cui si è pensato che in queste culture c’erano i cosiddetti “semina Verbi”(germi del Verbo). Leggete la “Ad Gentes”, è piena di questi, la “Ad Gentes” che parla anche della necessità di costruire Chiese autoctone, quindi che abbiano una liturgia propria, una riflessione teologica propria e dei ministeri propri. Questo naturalmente ha cominciato a porre il problema di come fare a far sì che queste comunità esprimessero una propria autoctonia. Non possiamo andare semplicemente a riprodurre lì il nostro sistema, anche perché in genere quelle comunità hanno già un sistema proprio, con degli incarichi nella comunità.
Soprattutto nella zona andina e nella diocesi di San Cristobal de Las Casas in Messico (l’esempio che si fa sempre) si è posto il problema di come riuscire a far sì che la costruzione di una Chiesa autoctona si innesti su un sistema di auto-organizzazione tradizionale delle comunità che prevede degli incarichi. Questo ha voluto dire che sono state anche assunte, e in qualche modo valorizzate, figure in termini ministeriali che derivavano da quell’esperienza. Faccio un esempio. Il sinodo della diocesi di San Cristobal de Las Casas, l’ultimo, il terzo sinodo, nel 2000, ha discusso molto di questo tema ed ad un certo punto un passaggio parla della ricchezza dei ministeri suscitati dallo Spirito: “Per la nostra diocesi troviamo tra gli altri questi incarichi e servizi mediante i quali le comunità indigene o meticcie riforniscono se stesse di diversi servizi ecclesiali e sociali: principale gli anziani, maggiordomo, sacrestani, presidente della cappella, patronato, procuratori, persone addette ai fiori ed alle candele – ma come ministero, perché nella cultura indigena i fiori e le candele hanno un ruolo molto particolare – incaricati per le feste patronali, traduttori, incaricati del lavoro comunitario, presidente delle novene, incaricati di pregare quando c’è un morto, ….- e lì c’è tutta una discussione, perché se tu hai un incarico ecclesiale non devi farti pagare, ma alcune di queste persone sono all’interno della comunità e sono figure che si fanno pagare – ostetriche (parteiras), curanderos – quelli che conoscono la medicina naturale – e altri”. Sono degli esempi, ce ne sono anche in altre parti.
Questa cosa è molto interessante, perché naturalmente pone dei problemi. Come stanno insieme queste tradizioni, queste culture, in una Chiesa che vuole essere una Chiesa universale, che non è semplicemente una Chiesa indigena? Come stanno insieme l’unità e la diversità? Questa è la sfida che abbiamo come Chiesa cattolica in questo tempo. Un altro esempio che ho trovato molto interessante è quello del Vicariato Apostolico de San Miguel de Sucumbios (in Ecuador, nella zona dell’Amazzonia), un vicariato che fino a qualche anno fa era gestito dai carmelitani scalzi di Burgos. Poi è stato cambiato il vescovo, ne è arrivato un altro, c’è stato un conflitto ecclesiale pazzesco (una cosa proprio da non far entrare i preti arrivati nelle comunità, anche perché è stato gestito in maniera pessima anche da Roma), si è creata una struttura di servizi ecclesiali.
Cioè, nel piano pastorale voi trovate servizi ecclesiali e servizi sociali, che vanno dalla catechesi, chi si occupa del battesimo (la preparazione del battesimo viene fatta non dai preti, che sono pochi in un territorio abbastanza ampio ed abbastanza anche diversificato, ma da dei ministri laici), la crescita dell’infanzia missionaria, la famiglia, l’autofinanziamento, i giovani, … E poi i servizi sociali: la salute, l’educazione, le organizzazioni popolari, i diritti umani, la solidarietà con i poveri, la cura dei malati. Al punto che la diocesi si è dotata di una scuola per i ministeri, dove i laici vengono formati non tanto in termini accademici ma a partire da una leadership naturale e da una esperienza di impegno, fedeltà d’impegno, già consolidata.
Questo ha fatto sì appunto, per esempio, che nel momento in cui Roma ha deciso di cambiare questo vescovo, Gonzalo Lopez Maranon che c’era da 40 anni (dal 1970 al 2010) in questa zona e far arrivare un istituto completamente diverso, con una pastorale totalmente diversa, tentando di smantellare tutto, le comunità hanno reagito. Ad un certo punto, prima Roma a dovuto dire (prima che andassero fuori tutti) e poi ha mandato prima un amministratore apostolico (Paolo Mietto) e poi un vescovo brasiliano (Monsignor Celmo Lazzari) che adesso sta rimettendo la situazione a posto, nel senso che sta ridando continuità al lavoro fatto in precedenza. Tra l’altro, in questa esperienza è emersa un’altra cosa interessante. Sono nate delle comunità di laici (sposati e celibi) e preti insieme. Sono nate delle cose nuove.
Non voglio farvi altri esempi. Due cose secondo me sono importanti ed un ragionamento rispetto all’Italia. L’esperienza dei ministeri ci dice una cosa fondamentale, ci rimanda alla centralità della comunità. Noi siamo abituati a pensare che sostanzialmente la comunità riceve dei ministri che vengono da fuori, tra l’altro sempre più con dei problemi che ben sapete (tutta la questione della nomina dei parroci sembra una cosa molto foriera di conflitti). E invece si vede come le comunità, se acquistano una loro soggettività, progressivamente si abituano anche a rispondere alle proprie necessità, cioè le comunità non finiscono.
Vi faccio un esempio che ho visto di persona sia negli Stati Uniti sia in Olanda, che può essere un po’ scandaloso. In comunità dove i preti non ci sono più da tempo (e non c’è la possibilità di avere l’eucarestia tutte le settimane o per periodi abbastanza lunghi) ci sono le celebrazioni domenicali della Parola nelle quali un ministro della comunità distribuisce l’eucarestia, un ministro straordinario dell’eucarestia. Non è una cosa nuova ma si tratta della stessa persona che va a dire la preghiera quando c’è un defunto e che fa anche altre cose. Allora ad un certo punto la comunità comincia a dire: tu vieni a pregare su mio fratello che è morto, tu distribuisci l’eucarestia ed allora lo fanno consacrare. Questo succede, io ho visto queste cose, i vescovi più o meno sanno. Non volevo prendere questo ad esempio, volevo semplicemente dirvi che le comunità trovano una propria soluzione. Perché, d’altra parte, noi diciamo la centralità dell’eucarestia, “fons et culmen”, però poi in Brasile il 70% delle comunità non ha l’eucarestia domenicale, perché non ci sono preti.
Allora si pone un problema: non è vero che l’eucarestia è “fons et culmen”, perché c’è qualcosa di più importante che condiziona. Voi capite che è una questione molto complessa. La prima questione è quella della comunità, mentre la seconda questione (come dice giustamente P. Mario) è che questo apre anche un problema sui presbiteri. Noi continuiamo a dire (perché lo dicono i nostri vescovi in Italia) comunicare il Vangelo in un mondo che cambia, basta il prete factotum. Però, di fatto, in gran parte delle nostre comunità non si muove foglia che il parroco non voglia. Questo diventa sempre più problematico, ma concretamente. Io capisco anche, preti che sono stati educati e cresciuti ad essere quello (anche in termini di formazione, di spiritualità) e gli togli quello, che cosa sono?
Oggi si inizia a dire: non solo preti per la comunità, ma preti con la comunità. Ma non si può dire preti nella comunità. Questo sarà un problema fondamentale, perché noi avremo quei pochi preti che ci saranno sempre più a rischio di burn out, perché non c’è più il vecchio ruolo sociale del prete, oggi il prete conta sempre meno nella società. Il prete si trova addosso un sacco di richieste in più, che la gente gli chiede. Non si accontentano della Messa, quelli che ci credono, ma ti chiedono la direzione spirituale, consigli, … ed in più devi fare un sacco di cose (amministrative, di altri livelli ecclesiali) ed il prete si sente sempre più solo.
Curati non ce ne sono quasi più. Sì, da 20 anni lo sento dire (e non lo vedo praticare mai, perché strutturalmente credo che sia quasi impossibile per come sono formati i nostri preti) il discorso del presbiterato. Ma due preti che riescono a lavorare insieme sono fantastici, sono un caso. Non è un problema di buona volontà, di spiritualità, ma che i preti sono tutti così, sono stati educati ad essere affettivamente, emotivamente, autosufficienti, cosa impossibile in una società come questa. Per cui ci sono quelli, anche giovani, che fino alle quattro di notte stanno sul computer e poi la mattina non si svegliano per aprire la chiesa e dire la Messa. È così, casi esemplari che ho in testa, nome e cognome. Poi ci sono tutte le altre questioni più problematiche.
Quindi, e concludo, credo che come Chiesa italiana dovremmo cercare di utilizzare questo tempo (che non ci mette ancora con l’acqua alla gola di dover fare di necessità virtù) per fare una riflessione il più possibile libera ed il più possibile franca su che tipo di Chiesa vogliamo costruire, avere un’idea perlomeno. Per esempio, io penso, (e concludo), guardando l’esperienza soprattutto delle Chiese europee (soprattutto la Francia, parte della Svizzera, parte della Germania) che sì sono diverse da noi, ma fino ad un certo punto. Tra l’altro, se voi andate nella cattolicissima Spagna vedreste cose che sono molto distanti dall’immaginario che abbiamo noi rispetto alla Spagna, che è molto più secolarizzata di noi, in cui i giovani che sono legati alla Chiesa sono sotto il 5%.
Io credo che se per mantenere il modello del parroco attorno a cui ruota la comunità si accorpano le parrocchie (se prima c’erano cento preti per cento parrocchie, adesso che abbiamo venti preti per cento parrocchie le parrocchie le faremo diventare venti), credo che in questa direzione non si vada da nessuna parte, o meglio si prolunga una sorta di agonia. Serve il buon senso. Nella mia parrocchia, 3.000 più 1.300, non è un dramma se si mettono insieme, è ovvio. Però, se devo pensare che realisticamente la mia città che ha 30.000 abitanti, nel giro di 4-5 anni avrà due parrocchie (invece delle otto che aveva solo cinque anni fa), beh, a me questo comincia a fare problema. Perché se io devo assicurare un accompagnamento sempre più individualizzato alle persone che me lo chiedono e voglio anche essere una presenza che non lascia andare per la loro strada le 99 pecorelle che abbiamo perso, ma avere anche una vicinanza … non si può, se no la gente sbarella.
Io credo che la direzione sia quella di mantenere il più possibile parrocchie con dimensioni umane (cioè che mantengano la possibilità di avere delle comunità e non avere soltanto un ambito giuridico), affidando la pastorale ordinaria a delle equipe di laici (bastano cinque persone) ed a livello più alto ad equipe di preti, che hanno il loro ruolo. Questo si può fare senza modificare niente degli attuali assetti giuridici (il parroco resta il parroco, …), però in un certo senso l ruolo del prete non è più quello della pastorale ordinaria, ma quello sostanzialmente di animare, sostenere, verificare il lavoro delle equipe laicali che gestiscono la pastorale quotidiana.
Cinque persone, perché uno coordina la liturgia, uno la catechesi, uno la carità (tanto per stare su schemi classici), uno si occupa dei soldi ed uno si occupa del legame tra la comunità ed il livello superiore. Chiamatela vicaria, chiamatela decanato, chiamatela diocesi. Io credo che la direzione dovrebbe essere un po’ questa, e con una centralità sempre maggiore della pastorale degli adulti.
Io ricordo una cosa che diceva quasi quindici anni fa nella mia diocesi il vescovo Francesco Lambiasi: “Noi abbiamo in Italia 300.000 operatori di pastorale, che non ha nessun Paese del mondo. Il 90% sono dedicati ai bambini fino ai 14 anni”. Sarebbe come se il servizio sanitario nazionale fosse per il 90% fatto da pediatri. Non tornano le cose. Io credo effettivamente che quella cosa lì, tutti d’accordo, ma dopo 15 anni siamo ancora allo stesso punto di prima. Io credo che lì sia una direzione che poi debba arrivare sostanzialmente a far sì che si promuovano all’interno delle parrocchie, a livello di adulti, dei gruppi (o chiamatele piccole comunità) di 15-20 adulti.
Padre Mario Menin
Davvero grazie ad un laico che ci parla di ministeri ordinati (episcopato, presbiterato e diaconato) e di ministeri dei laici, come quelli istituiti (accolitato, lettorato, ministro straordinario della comunione) ed anche di fatto (servizio del commentatore, del salmista, della carità, dell’accoglienza, …). L’abbiamo scelto apposta, conoscendo anche la sua competenza soprattutto per quanto riguarda le Chiese dell’America Latina. Ha girato in quasi tutti i Paesi dell’America Latina, proprio alla caccia di esperienze ministeriali nuove. Dobbiamo proprio dire che il nostro tema per un cristianesimo attraente passa senz’altro anche attraverso i ministeri e quindi anche la dimensione ministeriale della Chiesa sarà una cartina di tornasole della sua capacità di attrarre la ministerialità, cioè di come essere una Chiesa tutta ministeriale.
Abbiamo sentito qui elenchi, liste di ministeri che sono fiorite anche in situazioni più diverse di comunità condizionate o da una cultura indigena o da situazioni sociali. Abbiamo sentito parlare di esperienze tipiche di alcune Chiese, ma nulla che non sia declinabile anche qui in Italia. Diremmo che il viaggio, le caravelle ritornano in Italia ed il viaggio di ritorno è molto importante, è molto importante che i nostri missionari (che hanno fatto esperienze significative anche dal punto di vista ministeriale) portino anche qui la loro ricchezza. Non è trapiantabile semplicemente qui, ha bisogno di tutto un lavoro di coscientizzazione, di una formazione, di una responsabilizzazione, c’è bisogno di una spiritualità, di un approfondimento, anche di natura teologica. Ma noi gli strumenti li abbiamo, le scuole teologiche le abbiamo, molte più anche di queste Chiese di cui abbiamo sentito parlare, che hanno portato il cuore di ministeri e di pratica ministeriale. Passiamo la parola davvero a voi, noi e voi, senza distinguerci troppo. Immagino che ci siano tante domande.
Domande e Risposte
D. (Suor Grazianna) Due domande collegate. Avete notizie di quella commissione che è stata istituita da Papa Francesco per il diaconato alle donne? E, sempre in quest’ottica, secondo te che orientamento dovrebbe assumere, prendere il diaconato femminile perché non ricalchi quello maschile, visto che non è mai stato così nella storia?
D. (Don Carlo Tartari) Innanzi tutto vorrei ringraziare per la lucidità ed anche l’ampiezza dell’analisi di questa sera. Un tema importante da approfondire, la decisività di alcuni ritorni, non per un trapianto “sic et simpliciter” di alcuni modelli ecclesiali altri, ma anche per una visione ampia dove le Chiese giovani oggi (rispetto alle quali noi abbiamo avuto qualche volta la presunzione di essere un dono) sono un dono per noi. Anche nella relazione di questa sera ho letto la fatica con la quale riusciamo a guardare al ministero ordinato, liberandolo dai lacci del potere, se mi è consentito di usare quest’espressione. Forse ci farebbe bene ripensare che senza il prete non c’è l’eucarestia.
Esperienze anche al limite questa sera sono state presentate, però mi pare che riscoprire la prospettiva con la quale Giovanni l’evangelista racconta l’eucarestia come servizio per il quale ci si inchina a lavare i piedi del fratello possa essere uno sguardo ulteriore che va un po’ riscoperto. Tonino Bello parlava di “stola e grembiule” in uno dei suoi passaggi più significativi. Noi abbiamo sentito molto il fascino della stola, un po’ meno quello del grembiule, che va senz’altro rimesso al centro anche di un cammino di un processo formativo per chi si occupa e che sta prendendo seriamente in considerazione i mutamenti ai quali noi andiamo incontro. Per non dilungarmi troppo, insisterei su questo aspetto di uno sguardo rinnovato alla vita presbiterale, alla vita di servizio e non solo di autorità.
Io chiedo oggi ad un giovane, ad un ragazzo di 19-20 anni (io sono entrato in seminario a 21 anni, una vocazione tardiva), che fascino sente oggi nella vita presbiterale? Effettivamente, noi presbiteri siamo così arrovellati e lo dico con grande rispetto su chi, a differenza del sottoscritto, in questo momento si trova a dover servire una pluralità di comunità, con esigenze che non sono diminuite, ma sono aumentate, con un’aspettativa da un punto di vista umano e sociale molto alta, confidando che facciano onore alla vita presbiterale, ricordandoci che noi presbiteri, credo nella vicenda umana e spirituale di ognuno di noi, facciamo riferimento ad una vita bella che qualche presbitero ci ha testimoniato.
D. Volevo chiedere, partendo dal fatto delle esperienze di AGESCI e di ACR, quale ruolo in questa Chiesa hanno le associazioni ed i movimenti? Quale ruolo potrebbero avere?
D. (Gabriele) Io volevo soltanto sollevare qualche piccola questione. Ho sentito parlare di ministeri, ma non si è utilizzata mai la parola carismi. C’è una differenza fra carismi e ministeri? Detto in altri termini, si potrebbe avere l’impressione che ci sia una scelta di compiti, compiti di serie A e compiti di serie B, dei compiti di serie A che devono restare al presbitero e dei compiti di serie B che siano per i laici. Visto per esempio che potrebbero esserci dei laici che hanno una competenza biblica molto più solida dei presbiteri, ci potrebbero essere degli incarichi che il sacerdote vuole a tutti i costi tenere. Questo un tipo di discorso. Un secondo tipo di discorso riguarda la questione ministeriale nell’ambito della comunità. Come la mettiamo per esempio in Paesi africani nei quali c’è la presenza delle etnie e quindi ci potrebbe essere il rischio che il rappresentante della comunità appartenga ad una certa etnia e pertanto non rappresenti tutta la popolazione del Paese, per cui non ci sia una corretta attribuzione dei ministeri?
Risposte Mauro Castagnaro
Io non sono capace a rispondere a tutte queste cose. Beh, la questione del diaconato femminile. È già stata fatta una riunione di questa commissione, questo lo so. È chiaro che non è più sostenibile una esclusione delle donne anche nella Chiesa cattolica da ruoli che in qualche modo abbiano una parola significativa, anche in considerazione del fatto che “Evangeli Gaudium” dice che bisogna trovare il modo di sganciare l’ordinazione dal ruolo di governo, che è una cosa non tanto semplice. La questione, se capisco bene, su cui si gioca l’esito della Commissione di Papa Francesco è se alla fine sarà riconosciuto il diaconato come un ministero istituito o un ministero ordinato.
Naturalmente il problema non è il diaconato, il problema è che se tu riconosci il diaconato come ministero ordinato (per quanto si dica che, dopo Giovanni Paolo II, dopo Benedetto XVI, il diaconato non è ordinato al sacerdozio ma è ordinato al servizio), è chiaro che si apre in qualche modo la questione dell’ordinazione anche presbiterale. Questa cosa sul tappeto c’è già, perché a me ha colpito molto negli ultimi 3-4 anni, da quando con Papa Francesco è passato questo clima per cui si può discutere (non è che si decide), non mi capita di andare ad un incontro in cui non si ponga il problema delle donne (o lo pongono loro, o lo pongono delle donne) e dopo che è stato posto il problema delle donne qualcuno si chiede perché non possano diventare prete.
Attualmente in Italia, in genere, le donne dicono: eh no, per diventare prete così non mi interessa. In Italia non esiste, non è mai esistito, neppure nelle frange più radicali del cattolicesimo italiano, un movimento che chiede l’ordinazione delle donne, cosa che invece per esempio negli Stati Uniti è molto consistente, molto massiccio. Addirittura c’è tutta un’associazione di donne che si fanno ordinare preti (e nel mondo, per quello che ne so io, sono circa trecento) ed attualmente sono tutte scomunicate, ma sono tutte persone che sono spesso teologhe, di livello molto alto, hanno supporto in molte congregazioni religiose, tutta un a questione della quale si occupa l’ultima parte del mio ultimo libro “Contenzioso tra Roma e le suore americane” e tra l’altro questa era una delle due - tre questioni centrali.
Io credo che qualcosa verrà fuori dalla Commissione, ma non so che cosa, perché curiosamente delle dodici persone che sono state scelte (sei maschi e sei donne), salvo una sola persona (una donna americana che si chiama Phyllis Zagano della Hofstra University, New York) le altre non si sono mai occupate di diaconato. Tutte le altre, sia uomini sia donne, non se ne sono mai occupate, per cui devono studiare (qualcuna lo farà, qualcuna no). Vediamo. Però certamente questo è l tema, oggi non credo che sia più pensabile di eluderlo. Nelle nostre chiese, se non ci sono le donne non c’è nessuno o solo pochi. Che cosa sarà questo diaconato francamente non ne ho idea, è molto difficile dirlo, perché anche il diaconato permanente maschile fa fatica ancora a trovare una sua identità.
Prima c’era l’idea che il diaconato maschile si occupa (come faceva riferimento P. Mario) della carità. Ma in realtà non è così, la maggioranza dei diaconi ha in genere un ruolo molto liturgico. Noi siamo in questa situazione, per il diaconato, sia maschile sia femminile. Noi diciamo sempre che la riforma della Chiesa è ritornare alle origini ed andiamo sempre a vedere cosa era il diaconato maschile e femminile nei primi secoli, quindi per le donne ragioniamo fino al IV, V secolo, perlomeno in Occidente. Poi in Oriente è diverso. Ma sono passati 1500 anni da allora, va bene pensare a quell’epoca, ma non si può pensare ad un calco. Quindi, secondo me, il tutto sarà determinato dalla discussione, ma anche più dal tempo, dal momento storico, dall’evoluzione che avrà la comunità cristiana. Secondo me va anche bene così, piuttosto che star lì ad andare a puntualizzare.
La teologia del laicato. Fino ad un po’ di tempo fa si diceva che dovevamo occuparci delle cose del mondo, mentre delle cose del sacro si occupavano i preti. Oggi chi sosterrebbe una cosa del genere? Non mi sentirei di dover fare il cattolico dimezzato. Sarà per esempio interessante capire un po’ che cosa fanno le altre Chiese. Certamente l’indagine storica, certamente la riflessione teologica e soprattutto l’idea di Chiesa che si ha. Le teologhe italiane hanno lavorato molto e stanno lavorando molto su questo, perché ce n’è qualcuna dentro la commissione e qualcuna fuori (dalla Serena Noceti sul piano ecclesiologico, alla Moira Schimmi sul piano storico). È un lavoro da fare e secondo me sarebbe interessante che quel tipo di discussione non rimanesse chiuso in quella Commissione, ma fosse il più possibile socializzato e non solo tra le donne, ma anche tra noi maschietti.
Non c’è dubbio che nei presbiteri sia necessario recuperare, riscoprire la dimensione del servizio. Ma questo però vale per tutta la Chiesa (e su questo mi sembra che Papa Francesco insista molto), credo che se un po’ di credibilità in questi anni l’abbiamo recuperato, è stato esattamente questo, quello che chiede la gente, magari anche un po’ confusamente. Quello che vuoi è solo fare la carità, la vicinanza? Però, in fondo, la Prima Lettera di Giovanni dice che Dio è amore e quella cosa lì diventa determinante. Credo quindi che sia un problema di tutti.
Poi, quale è lo specifico del prete? Non sono un teologo e non mi azzardo ad entrare in questa cosa, perché sarei sicuramente colto in fallo. Tenderei a pensare che la storia dirà poi cosa sarà, io non sono neanche così preoccupato di dover definire tutto. Sicuramente, un ruolo di presidenza della comunità ci vuole. Io non ho una visione congregazionista, per cui secondo me deve essere una figura che non è semplicemente l’espressione della comunità, ma è anche in qualche modo colui che lega la comunità alla grande Chiesa, come si dice, e quindi in qualche modo deve avere un riconoscimento (ordinazione, …).
Il rapporto fra la vocazione ed il ministero. Più che carisma io userei il temine vocazione, perché noi siamo molto centrati sull’idea che il prete è colui che ha la vocazione, ma non era così nei primissimi secoli. Nei primissimi secoli l’idea nostra di vocazione, nel senso di sentire la chiamata, non era così percepita. Era molto più forte l’idea che la comunità ti dava un incarico e tu a quell’incarico non ti potevi sottrarre, al punto che ci sono molti storici che parlano di persone che affermano di essersi trovate questo peso addosso e non lo volevano. Ma era un altro tipo di cultura. Cosa sarà il futuro ce lo dirà la storia, e questo vale certamente anche per i vescovi.
Associazioni e Movimenti. Su questo, francamente, non saprei molto cosa dire. Chi è in un’associazione, in un movimento, innanzi tutto, è un laico ed è un cristiano, credente, prima di tutto. Io credo, per esempio che uno dei ruoli che nel futuro prossimo (non sto andando molto lontano) dovranno avere i preti, presbiteri, coloro che guideranno le comunità, sarà soprattutto un ruolo di coordinamento, ma di individuazione delle capacità. Io vedo (mi riferisco a quell’esempio che faceva prima Gabriele) che tu sei una persona che sa predicare bene (uso la parola predicare per intenderci), che hai un annuncio anche eloquente. Bene, tu hai questo carisma, questa capacità. Sei disposto a metterlo al servizio della comunità?
Questo implica che tu debba un po’ fare un percorso formativo e poi sarai tu che commenterai il Vangelo nella comunità, magari anche dall’ambone, non è detto che debba essere sempre il presbitero. Potranno magari nascere delle forme di confraternite, di ordine, di congregazione di persone che hanno questa capacità. Non so lo, in futuro cosa succederà. Io sono molto fiducioso nella creatività dello Spirito. Forse, però, la tua domanda era sulle tensioni che si hanno tra i movimenti e le parrocchie?
D. Nelle comunità c’è un ruolo, che non sempre alle associazioni è riconosciuto, è accettato. Da qui può saltar fuori qualcosa di più rispetto alla situazione attuale? I movimenti sono un’altra cosa mi interessa una Chiesa caratterizzata per …
R. Mauro Castagnaro
Non so, dovrei ragionarci sopra su questa cosa. Sinceramente così …
L’ultima cosa erano le questioni che diceva Gabriele. In parte ho già detto qualcosa. Serie A e serie B. Io credo che fondamentalmente l’elemento di fondo sia costruire la comunità. Costruire la comunità vuol dire costruire una situazione in cui siamo tendenzialmente in un rapporto di parità e ci sosteniamo reciprocamente, per cui il prete non deve essere un superuomo, l’uomo che ha le risposte per tutti, l’uomo che sta sempre bene, che non ha mai dei dubbi, che non è mai triste (sono gli altri che sono tristi, che non sanno capire che cosa devono fare). No, il prete può vivere anche lui in un contesto di comunità e di relazioni amicali, fraterne e di reciproco sostegno, può avere dei momenti in cui magari si fa sostenere da dei laici.
Quindi, in questo quadro, io non ho nessuna difficoltà a riconoscere una presidenza della comunità, assolutamente, e va bene una figura che sia il presbitero, ordinato, … Non è un problema, non ci sono compiti di serie A e di serie B. Sì, certo, consacrare l’eucarestia … Però, per esempio, mi piacerebbe fare una bella riflessione sull’idea per cui un prete si dice la Messa nella sua camera, da solo, una cosa che si fa, non sto dicendo un’eresia. Ma certamente non c’è celebrazione eucaristica senza il presbitero, cioè senza il presidente, ma c’è celebrazione eucaristica senza la comunità? Mah, io qualche dubbio l’avrei. Però questa cosa viene considerata, una messa privata. Forse va bene, la comunione dei Santi. Io penso ad una situazione normale. Io non sono un teologo, per cui può darsi che dica delle cose che altri smentiscono in maniera assolutamente più competente di me.
D. L’ultima volta il nostro parroco ci ha parlato di 80 funerali quest’anno in Chiesa, sono nati 60 bambini (26 sono extracomunitari), i battesimi un numero abbastanza sparuto, ... Io quando ho sentito questo dato mi sono chiesto: fra 20 anni non c’è più un cattolico a Roncadelle (che ha 9.000 abitanti). E allora mi dicevo: c’è questo problema di riorganizzazione, quando forse fra 20 anni, quando sarò vecchio, i cattolici rimasti quanti saranno? C’è un crollo tremendo della fede, dei cattolici … A Roncadelle su 9.000 abitanti forse saranno 500 che vengono a Messa la domenica … E’ bello parlare di riorganizzazione, ma a chi ci rivolgiamo?
R. (Mauro) Sì, anch’io tendenzialmente sono comunque abbastanza fiducioso, ma il problema che pone lei, secondo me è legato a che tipo di Chiesa abbiamo davanti, abbiamo in testa. Cioè, io vengo da una parrocchia di 4.500 abitanti. Nella mia parrocchia, che frequentano la Messa (noi siamo ancora abbastanza tanti) saremo il 15-20%. Una volta la percentuale era più alta, ma era più una comunità allora o adesso? Cioè, la gente veniva in chiesa, respirava diciamo una cultura di cristianità, ma erano più cattolici o meno cattolici di oggi? Non lo so. Diciamo che erano cattolici nel loro tempo.
A noi tocca essere cattolici, credenti, in questo tempo, in un tempo in cui saremo numericamente probabilmente di meno, molto meno, ma probabilmente è vero anche che quelli che resteranno lo faranno per scelta. Nessuno li costringerà, il che vuol dire che faranno probabilmente un cammino. La vita di quella comunità non è detto che sarà meno ricca rispetto a quella di una volta (semplicemente perché i numeri saranno minori, molto minori) e non è detto che la testimonianza che quella comunità saprà dare all’esterno di sé sarà peggiore. La cosa è vera, fa impressione.
Mi viene sempre in mente quando un po’ di anni fa la Chiesa brasiliana ha lanciato l’impegno della Chiesa per l’Amazzonia. Quindi, cosa mancava all’Amazzonia? Mancavano preti, un’università cattolica, mancavano mezzi. Così si sarebbe fatta una migliore evangelizzazione. Agli amici saveriani di P. Mario, in particolare uno o due, quando ho fatto un’intervista per sentire che cosa ne pensavano, mi hanno risposto che pensavano il peggio che si potesse dire, che era una cosa sbagliata, da capo a piedi. Nella zona che seguiva uno di loro c’erano 500-600 comunità che andavano avanti perché non c’era il prete. Nel momento in cui ci fosse stato il prete, queste comunità si sarebbero sedute. Vuol dire allora che va bene comunità nelle quali si celebra una Messa o l’eucarestia una volta all’anno? No, io credo di no, se noi diciamo che l’eucarestia fa la comunità. Però dobbiamo trovare dei modi e lì bisogna un po’ ragionare.
Per esempio, io domani sera sono a cena con un vescovo cileno in visita “ad limina”, un vescovo di una zona piuttosto ampia, grande più o meno come l’alta Italia (dal Piemonte al Veneto) che ha circa 200.000 abitanti, 50.000 sono nel capoluogo, 20.000 in un posto e gli altri sono sparsi in giro. Lui ha 8-9 preti. Cosa va a dire a Roma? Lasciatemi ordinare preti degli uomini sposati. Questo va a dire, insieme ad altri vescovi. Io credo che questa cosa, per esempio … Sono già nella Chiesa cattolica … L’esempio che facevo prima dell’Olanda, degli Stati Uniti, è esattamente il frutto di questo. È chiaro, se tu non dai delle risposte al problema che tu stesso enunci, perché tu stesso dici che l’eucarestia è fondamentale, e la consacrazione dell’eucarestia ... Non è semplicemente facciamo l’eucarestia che andiamo a prendere, è stata consacrata in un altro momento. Tutti i liturgisti direbbero che non è la stessa cosa.
Ad un certo punto le comunità trovano una loro strada, assolutamente non dico eretica ma comunque fuori da qualunque norma canonica. La cosa da sottolineare è che le comunità trovano delle loro risposte, così come l’esempio che mi ha molto stupito della Corea. Per due secoli in Corea non c’è stato un prete. Quando sono tornati i preti, le comunità c’erano ancora. È possibile, perché la fede cristiana ha una sua strada. Poi le forme (che sono importanti, non sto dicendo che tutto è uguale a tutto) con cui la Chiesa si organizza sono un’altra cosa. Anch’io ho una certa fiducia nello Spirito, per cui probabilmente a Roncadelle … Nella mia città, dicevo, avremo due parrocchie per 30.000 abitanti, sicuramente saranno delle sfide diverse, però io non sono convinto che saremo insignificanti, dipenderà … Siete voi il sale, leggevamo domenica, è un problema vostro … O la questione del lume …
Padre Mario Menin
Allora, molto bene. Mi pare che anche questa sera siamo riusciti a tornare a casa arricchiti. Questo viaggio, soprattutto attraverso l’America Latina, ci ha fatto vedere come la Chiesa è ricca di ministerialità, quando si lascia interpellare sia dalla Parola di Dio sia dalla realtà. Abbiamo detto che nella Chiesa c’è stato uno schema binario, gerarchia e laicato, e spesso le balaustre hanno diviso la gerarchia dal laicato. Anche l’architettura è diventata eloquente in certi momenti della storia della Chiesa. Addirittura il clero è diventato, diciamo così, un ostacolo, a parte. Ci siamo divisi in classi sociali, anche all’interno della Chiesa, classi ministeriali. Il Concilio Vaticano II ci ha fatto sognare di nuovo una Chiesa tutta popolo di Dio, dove anche i ministri ordinati fanno parte del popolo di Dio, non sono sopra il popolo, ma sono con il popolo, la Chiesa di popolo.
L’America Latina, da questo punto di vista, è stata ed è ancora molto eloquente ed il vescovo cileno Luis Infanti della Mora con il quale Mauro domani cenerà è un vescovo che si sta dando da fare in questa direzione. Immagino che il cristianesimo sarà senz’altro più attraente se si trasforma, se si lascia trasformare, convertire, anche dal punto di vista ministeriale. Il prossimo appuntamento vedrà il cristianesimo più attraente se accogliente. Il tema sarà “Migrazioni, Africa ed Europa a confronto”. Saranno con noi Franco Valenti (per quanto riguarda l’Europa), P. Efrem Tresoldi (se sta bene, se il suo cuore continua a battere bene, per parlarci di Africa) e P. Tullio Donati (o chi per lui) ci introdurrà. Quindi continuiamo il nostro cammino per un cristianesimo più attraente.
(Trascrizione registrazioni ed integrazioni a cura di Gabriele Smussi)