I. Chiave ermeneutica
Mi è stato chiesto di presentare a questo simposio una breve lettura storica del Piano di Comboni. Dal momento che proprio il Piano per la Rigenerazione della Nigrizia è il testo più studiato del Comboni,(1) e che si sono già usate chiavi ermeneutiche diverse per cercare di schiuderne progressivamente le ricchezze, ho ritenuto opportuno proporre alla vostra riflessione un nuovo approccio e cioè quello della storia delle idee.
Nata nel ventesimo secolo come tentativo di integrare le conoscenze e le intuizioni di indagini tanto diverse quanto quelle della teologia e della sociologia, della politologia e della filosofia, della storia e dell’antropologia culturale, la storia delle idee si è gradualmente affermata fino a costituire oggi materia di studio nei più grandi e prestigiosi atenei di tutto il mondo, diventando sempre più patria comune di politologi e sociologi, antropologi e storici, filosofi e teologhi.
Partendo da risultati già consolidati nelle diverse aree del sapere umano, oppure da ipotesi in esse formulate, ma non ulteriormente verificabili in una prospettiva mono disciplinare, la storia delle idee cerca di costituire una mondovisione a lungo respiro, dove conoscenze di origine molto diversa non vengono semplicemente giustapposte ma piuttosto si intrecciano confermandosi, complementandosi ed arricchendosi in una fertile sinergia pluridisciplinare.
La storia delle idee si interroga naturalmente sul problema del metodo: accogliendo le intuizioni linguistiche di Ludwig Wittgenstein (1889-1951) e la teoria degli atti linguistici di John Austin (1911-1960), misurandosi con il meglio della filosofia e dell’episte¬mologia da Thomas Kuhn (1922-1996) a Hilary Putnam (1926) a Donald Davidson (1917-2003), ma confrontandosi anche con le tesi di matrice ermeneutica proposte da differenti studiosi, da Hans Georg Gadamer (1900-2002) a Paul Ricœur (1913-2005), da Charles Taylor (1931) a Clifford Geertz (1926-2006), con il recupero dell’archeologia e della genealogia di Michel Foucault (1926-1984) e persino con l’approccio de-costruzionistico di Jacques Derrida (1930-2004).(2)
La tesi fondamentale della storia delle idee è che in ogni dato momento storico esiste un ampio serbatoio d’idee vecchie e nuove, condivise o causa di dissenso, consolidate o in formazione, alle quali attingono –coniugandole nelle combinazioni più variate– gli uomini e le società. Oltre agli eventi ed alla personalità dei protagonisti, oltre i condizionamenti sociali ed economici, vi è tutto un mondo culturale, un mondo di idee e di intuizioni, che costituisce la vera base sulla quale poggiano le scelte concrete di individui e collettività.

Alla luce della chiave ermeneutica enunciata, la nostra ipotesi di lavoro sarà quindi quella di rilevare nel testo del Piano per la Rigenerazione della Nigrizia, al di là dei contenuti più evidenti e programmatici, anche quelle idee, profondamente ottocentesche ed europee, che Comboni ha accolto e combinato in modo profetico ed efficace.
Inizieremo dunque la nostra indagine con una breve presentazione dei principali elementi ideologici alla base dei cambiamenti politico-sociali, ma anche religiosi ed ecclesiali dell’800; per lanciare in seguito un breve sguardo al rapporto della Chiesa con le novità che vi si presentavano per gli individui e le società –quindi anche per i cristiani e le comunità ecclesiali–; e successivamente rileggere, alla luce di quelle considerazioni, il Piano del Comboni, cercando di individuarvi prima gli elementi operativi e poi quelli ideologici, sui quali questo poggia. Per evidenziare ulteriormente la consapevolezza di Comboni riguardo al vero carattere di novità del Piano, rivisiteremo le prime resistenze che questo ha incontrato e la risposta di Comboni a queste contrarietà.

Breve nota bibliografica
Nel contesto di questo simposio, dove si cerca di puntualizzare in contesto europeo la riflessione sui contenuti e la rilevanza del carisma comboniano e al contempo di fare lo sforzo di mettere a dialogo le intuizioni del Comboni con la realtà antropologica e sociale, religiosa ed ecclesiale dell’Europa del ventunesimo secolo, è forse utile segnalare quell’iniziativa editoriale, che, nata dalla collaborazione tra cinque case editrici europee,(3) si è concretizzata nella collana “Fare l’Europa”. Si tratta di un’iniziativa che, pur non rimanendo al di là di ogni critica e neanche priva di conflitti interni,(4) si rivela uno strumento valido per la discussione e la conoscenza delle radici, della storia, dell’attualità e progettualità europea con un ampio spettro pluridisciplinare.

II. Contesto storico-culturale del Piano(5)
1. Il secolo del liberalismo
a) Alcune radici storiche del liberalismo ottocentesco
Quando parliamo dell’800 siamo abituati a parlare delle ingenti trasformazioni sociali e politiche che si sono manifestate, in un primo momento, nelle rivoluzioni e guerre che si sono fatte sentire un po’ per tutta l’Europa, per poi parlare del progressivo mutamento da un sistema assolutista a un sistema costituzionale.
A livello di Chiesa l’800 è stato senz’altro segnato dai tre lunghissimi pontificati di Pio VII (1800-1823), Pio IX (1846-1878) e Leone XIII (1878-1903), che presi assieme hanno guidato la Chiesa per oltre tre quarti di secolo. Si parla prima di pragmatismo per andare in seguito verso l’ultramontanismo, ma anche di revival della Chiesa popolare nel dogma dell’Immacolata Concezione e di quella istituzionale nel dogma dell’infallibilità papale, si parla inoltre dello sviluppo del cattolicesimo liberale, del cattolicesimo democratico e, più tardi, anche del cattolicesimo sociale.
Il concetto però che domina veramente tutto il secolo è il concetto di libertà. Frutto del movimento culturale rinascimentale,(6) che aveva sostituito il teocentrismo medievale con una visione antropocentrica dell’universo, dell’umanesimo, dello sviluppo delle scienze naturali, frutto soprattutto della scoperta della centralità della ragione nel Secolo dei Lumi, si era sviluppato un ottimismo antropologico, che presto si riconosceva in netto contrasto con gli ordini sociali e politici vigenti.
A livello politico la rivoluzione inglese del 1649 con il successivo Interregnum repubblicano (1649-1660) provocò una riflessione filosofica sulla società e i sistemi politici di governo – così con Thomas Hobbes (1588-1679), Marchmont Nedham (1620-1678), John Locke (1632-1704) –, che condusse alla formulazione di una serie di idee destinate ad essere approfondite, più o meno a livello accademico, lungo tutto il ’700 –con Charles-Louis baron de Montesquieu (1689-1755), Jean-Jacques Rousseau (1712-1778), Adam Smith (1723-1790), Immanuel Kant (1724-1804)–, per arrivare poi a una nuova e originale realizzazione storica nella Rivoluzione Francese, già sul finire del ’700, e che negli altri Stati europei si sarebbe manifestata solo in pieno ’800, provocando nuove riflessioni e successivi approfondimenti dei fondamenti ideologici del liberalismo –con Henri-Benjamin Constant (1767-1830), John Stuart Mill (1806-1873) e altri-.
Anche se la parola liberale non era nuova, è proprio nel contesto delle prime formulazioni costituzionali che essa acquista una valenza strettamente politica e anche politico-partitaria, e questo più concretamente durante i lavori che avrebbero condotto alla costituzione di Cadice del 1812.
b) I pilastri ideologici del liberalismo
I contenuti fondamentali della riflessione filosofica, politica e sociale all’origine del liberalismo erano essenzialmente quattro: la libertà come diritto naturale e capacità dell’uomo, l’individualismo sociale, l’ottimismo razionalista e la proprietà privata.
Il primo concetto-chiave è proprio la libertà e qui la riforma luterana svolse un ruolo fondamentale nella spiritualizzazione della libertà e nello sviluppo dell’autonomia individuale. Il principio del libero esame diventa fermento di liberazione ed è all’origine del razionalismo del Secolo dei Lumi.
Nell’800 poi la libertà viene considerata al contempo il primo dei diritti naturali dell’uomo e facoltà originale di ogni essere umano. La libertà è dunque anteriore al potere e non concessione delle autorità sociali. Dato primordiale della condizione umana, essa permette l’azione di ogni uomo d’accordo con la sua autodeterminazione.
A contatto con gli altri esseri individuali l’uomo manifesta la propria libertà nella sua azione sociale. Tuttavia, per i liberali, nell’attività umana libera non ci sono antinomie tra la libertà individuale e l’ordine sociale poiché l’individuo non nuoce alla società né va contro la libertà degli altri. Ci sono meccanismi o naturali o sociali che ordinano la volontà degli individui: secondo Kant il meccanismo è la subordinazione della libertà a regole giuridiche (Stato di diritto), mentre secondo Friedrich Hegel (1770-1831) la stessa organizzazione sociale e lo Stato sono espressioni della libertà dell’uomo.
I liberali avevano inizialmente un altissimo concetto di libertà, che d. Vincenzo Gioberti (1801-1852) descrive in un contesto di apertura metafisica:
«La libertà assoluta non può il male; e anco la limitata vi s’induce difficilmente quando non è guasta dalla cattiva disciplina. Perciò nelle lingue che traggono dal latino libertà non suona solo una facoltà mera, ma un abito; cioè il complesso delle morali e civili virtù; come il Giordani la definisce. E nel modo che la libertà è la potenza di fare il bene, similmente la liberalità è l’inclinazione a comunicarlo; onde viene il nome di liberale, comune a quelli che amano il vivere libero e a quelli che largheggiando, ne appianano agli altri il godimento. Che se in noi la libertà e la liberalità differiscono, la parentela delle due voci ne fa risalire alla fonte comune ed archetipa delle doti che rappresentano; cioè all’azione creatrice; la quale è libertà e liberalità infinita, modello e principio di ogni libertà e liberalità creata; atteso che creare è far liberamente e comunicare all’effetto una parte delle proprie perfezioni. Laonde negli uomini il poter di fare il male e l’a¬buso dell’arbitrio non si chiamano propriamente libertà, ma licenza, con antifrasi dedotta dall’abuso medesimo».(7)
In verità i filosofi liberali nel negare il libero arbitrio in nome di un determinismo razionale concepiscono una libertà esterna (libertà negativa), considerata come l’assenza di ogni costrizione – al di là della natura o della ragione – sulla possibilità individuale di azione.
La seconda idea-chiave del liberalismo dell’800 –che si lascia intravedere già come conseguenza di una tale concezione di libertà– è l’individualismo sociale. Collocando l’uomo al centro del pensiero politico e della struttura economica, intellettuali come Erasmo da Rotterdam (1466-1536) e Thomas More (1478-1535) gettano le basi dell’individualismo.(8) Ma pensatori liberali si spingono oltre: riconoscono nell’universo un ordine naturale che precede l’ordine sociale. Quest’ordine naturale non sarebbe altro che la semplice somma di esseri individuali soggetti a leggi naturali. L’uomo, inserito nella natura ma dotato della luce della ragione e di una volontà autonoma, sarebbe in grado di raggiungere l’autorealizzazione personale. La luce della sua intelligenza lo rende capace di scoprire le leggi fisiche che regolano la natura; applicando a questa conoscenza la forza della sua volontà, egli diventa signore della stessa natura.
Per i filosofi che gettarono le basi ideologiche del pensiero liberale, la società e lo Stato vengono solo dopo, come prodotti di un contratto realizzato tra gli individui:

 

  • per superare lo stato di guerra di tutti contro tutti (Hobbes);
  • per proteggere i diritti individuali e custodire la proprietà privata (Locke);
  • per servire lo scopo della conservazione degli individui (Rousseau).(9)
    Per i liberali quindi gli individui precedono le istituzioni sociali, dal momento che queste vengono liberamente costituite dalla collettività (oggi si direbbe dalla società civile) (10) come garanti della pace, dell’ordine e della sicurezza. All’interno poi di questa collettività tutti gli individui accettano, nonostante le divergenze concettuali a volte anche grandi, la necessità di un potere politico, che funzioni come meccanismo strumentale per il passaggio dallo stato naturale a un ordine sociale e per la sua conservazione.
    L’autonomia individuale illuminata dalla ragione e formata dalla volontà supera quindi ogni tentazione di individualismo cieco e sfrenato, conducendo piuttosto a delle formazioni sociali, che diventano spazi ideali per la crescita individuale. L’apparente contrapposizione delle aspirazioni individuali alle istituzioni sociali verrebbe idealmente superata nell’elevazione dell’individuo a fondamento ultimo della società e nella conseguente subordinazione di questa al benessere degli individui che la costituiscono (nella doppia accezione della parola).
    Una terza idea essenziale del liberalismo è quell’ottimismo razionalista, figlio dell’’Età dei Lumi, che ritiene la ragione come fonte principale della realizzazione dell’idea di progresso. Progresso che racchiude in sé la promessa di una felicità non solo individuale ma anche collettiva.
    Un ottimismo che non ignora le difficoltà ma che, assumendo una dimensione quasi escatologica, accetta il disordine e la conflittualità interpretandoli come momenti di imperfezione che devono e possono essere sostituiti con nuovi equilibri in grado di ridurre le ingiustizie sociali. Per questo motivo, momenti come la rivoluzione, il conflitto militare e in certi casi anche la proposta della dittatura o la coscienza che questa possa diventare necessaria per introdurre una nuova era, esprimono la convinzione di poter raggiungere il bene comune, anche se si dovranno attraversare momenti di conflitto e di sofferenza per limare le imperfezioni individuali e sociali.
    È quindi ancora l’ottimismo illuminista, trasformato in un ottimismo liberale, che nel suo razionalismo crede ancora a un progresso senza limiti. Non è ridotto solo a una dimensione materiale, ma ingloba tutta la vita dell’uomo e si presenta come il risultato dello sforzo collettivo degli individui che costituiscono una società.
    Un quarto e importante concetto-base del liberalismo è la proprietà privata. Poiché l’individuo è concepito come il costruttore della propria felicità, è necessario che esso sia in grado di poter possedere i beni necessari a garantire la sua felicità.
    Già i giusnaturalisti del ’600 e del ’700 –come Hugo Grotius (1583-1645), Samuel Freiherr von Pufendorf (1632-1694) e Jean Barbeyrac (1674-1744)– erano arrivati alla conclusione che la proprietà privata costituiva un diritto naturale dell’uomo, poiché esistono beni che sono necessari al raggiungimento della sua felicità.
    Nell’elevare l’individuo alla dignità di vero protagonista del progetto liberale, la proprietà privata diventa un elemento-chiave. Se tutti gli individui hanno bisogno dei beni materiali, ne deriva che in una società c’è una concorrenza interpersonale per possedere quei beni. D’altra parte, i beni materiali si rivelano effimeri, incapaci cioè di rispondere in modo permanente alle necessità dell’individuo, e devono quindi essere continuamente rinnovati. Diventa dunque necessario l’accumulo di proprietà privata.
    Il sistema economico precedente, dove gran parte dei beni materiali erano accumulati nelle mani del clero –soprattutto regolare ma anche secolare– e dell’aristocrazia, si rivela quindi incompatibile con l’idea dell’individuo libero e rende necessaria una ridistribuzione dei beni: una vera trasformazione socio-economica.
    Successivamente, il fatto che al riconoscimento dell’essenzialità della proprietà privata si aggiunga la percezione della necessità dell’accumulazione dei beni, porterà gli intellettuali liberali allo sviluppo della teoria capitalista.
    c) Dall’ideologia alla realtà
    L’emergere del nuovo sembra essere sottomesso, nella storia come nella natura, per le società come per gli individui, alla legge della fatica e anche della sofferenza.
    La profonda crisi economica e sociale che sfiancava la Francia negli ultimi decenni del Secolo dei Lumi, l’inadeguatezza delle riforme successivamente sperimentate e l’in¬capacità dell’entourage di Luigi XVI di trovare misure efficaci per superare la crisi indebolivano terribilmente il modello politico-sociale della monarchia assoluta, ma forse anche questa crisi sarebbe stata superata, come tante altre, se non fossero maturate nel frattempo quelle idee che avrebbero cambiato per sempre non solo la Francia, bensì tutta l’Europa.
    Sembra quasi una follia la decisione presa dalla borghesia francese, ormai maggioritaria negli Stati Generali, di sovrapporsi, con l’appoggio di alcuni membri del basso clero, al clero e all’aristocrazia autoproclamandosi Assemblea Nazionale Costituente (7 giugno 1789) e assumendo così il gravoso compito di far risorgere la Francia da quello stato di profonda prostrazione. Una follia figlia dell’incrollabile fiducia nella capacità dei singoli individui, forti di una ragione illuminata, di una volontà salda e della convinzione che la radice del problema economico-sociale si trovava nel modo sbagliato di concepire, strutturare e governare la società. Queste certezze spingevano il terzo stato a intraprendere un simile passo. Il compito diventava quello di abbandonare radicalmente tutto ciò che era frutto di un’ipoteca metafisica non più accettabile per chi non vedeva la necessità, a livello personale, di un’autorità trascendente la dignità della propria ragione e, a livello sociale, di un garante superiore alla volontà degli individui di scegliere liberamente il modo di vivere insieme. Non si annullavano valori come l’onestà, l’operosità, la solidarietà, e neanche quelli della fede e della religione, ma vi si aggiungevano quelli della libertà e dell’uguaglianza, fondati sulla dignità dell’uomo, e soprattutto quello di una responsabilità politico-sociale riscoperta come patrimonio di tutti.
    Ma, se le vecchie guide della nazione assistevano attonite e più o meno passivamente allo svilupparsi degli eventi, altri, sia del primo che del secondo stato, aderivano all’Assemblea Nazionale Costituente che lo stesso re convocava ufficialmente il 27 giugno 1789 conferendogli il sigillo della legalità.
    La storia avrebbe dimostrato l’incapacità della borghesia francese di risolvere il problema e la Costituzione del 1791 non sarebbe durata che 2 anni. Ciononostante, il processo aperto nei due anni di lavoro della Costituente avevano cambiato definitivamente il modo di concepire lo stato e il modo in cui questo avrebbe stabilito rapporti con le entità che lo trascendono come Dio e la religione.
    Saranno necessarie ripetute rivoluzioni (1789, 1830, 1848…), dittature, guerre, forme diverse di governi monarchici e repubblicani, perché le idee liberali maturino concrezioni storiche possibili, tanto diverse quanto gli stati e i popoli che davano loro corpo. Di mezzo rimaneva il Congresso di Vienna (1814-15) che, se dal punto di vista della sicurezza è considerato oggi un successo per aver permesso quasi un secolo di relativa pace in Europa (1815-1914), dal punto di vista politico-sociale ha voluto ignorare e contrastare le ideologie emergenti, come pure le giuste aspirazioni del popolo italiano e di quello polacco all’autonomia politica.
    Questo tentativo di restaurazione, voluto e tessuto soprattutto dai paesi della Santa Alleanza, il progetto che uscì da Vienna non sarebbe stato duraturo come si desiderava. Le idee maturate lungo più di un secolo e manifestate nel periodo della Rivoluzione Francese e nelle successive forme di governo in Francia non potevano più essere ignorate. Anche coloro che credevano alla possibilità di una restaurazione introducevano nei vecchi sistemi almeno quei mutamenti che ormai riconoscevano se non conformi alle proprie idee, almeno socialmente opportuni.
    Ma l’ideale liberale era troppo ambizioso per accontentarsi dell’introduzione di piccoli cambiamenti in un vecchio sistema. Così il patto del 1815 diventa subito insufficiente e in tutta l’Europa sorgono piccole rivoluzioni liberali (1820 in Spagna e Portogallo, 1821 in Grecia, 1830 in Belgio, Francia e Polonia…), che nella Primavera dei Popoli del 1848 manifestano definitivamente che il sentire delle maggioranze era ormai liberale.
    2. La Chiesa in un mondo liberale
    a) Il travaglio della novità
    Puntualizzate le idee fondanti della concettualizzazione liberale possiamo trarne quelle conseguenze politico-sociali ma anche teologico-ecclesiali che caratterizzeranno le diverse concrezioni storiche del liberalismo dell’800 europeo.
    La prima e più evidente è quella dell’uguale dignità di ogni individuo, principio che contraddice radicalmente l’ancien régime, fondato sul diritto di successione ereditaria con una forte connotazione di diritto divino con sanzione e unzione ecclesiale. Le conseguenze socio-politiche di questo principio sono evidenti, anche se storicamente saranno necessari decenni e anche secoli per attuarle: la monarchia e la nobiltà ereditaria cessano di aver luogo nel tessuto della convenzione sociale.
    Inoltre le conseguenze del principio contrattualista hanno delle ripercussioni a tutti i livelli di creazione dell’ordine sociale: dalla concezione della famiglia che, privata di un orizzonte metafisico, diventa il prodotto di due volontà e che, in caso di fallimento, si può sciogliere con il divorzio; fino a una visione di Chiesa che deve prestare un servizio meramente religioso all’interno di una nazione, conformandosi alla visione e alle volontà di chi costituisce sia lo Stato che la Chiesa (Chiese nazionali politicizzate), un contesto in cui gli ordini religiosi per la loro stessa struttura internazionale non hanno più senso, essendo anzi percepiti come una presenza aliena al corpo della nazione e a volte anche come una vera minaccia alla sua esistenza e crescita (la parola-chiave per descrivere questa presenza sarà gesuitismo). Ma anche la libertà di culto è conseguenza chiara della concezione contrattualista; così, anche alle Chiese protestanti e a religioni non cristiane viene concesso il riconoscimento statale.
    Anche il principio della proprietà privata come diritto naturale dell’uomo ha conseguenze economiche sociali ed ecclesiali, che mettono alla prova chi fino allora possedeva la terra e i capitali, cioè soprattutto l’aristocrazia e la Chiesa, in particolare gli ordini religiosi. Mentre però parte dell’aristocrazia aveva aderito agli ideali liberali, ricoprendo anche importanti cariche politiche, riuscendo a far diminuire progressivamente la proprietà fondiaria trasformandola in capitali investiti, alla Chiesa vengono nazionalizzati i beni per finanziare i nuovi governi che cercano di sconfiggere la profonda crisi economica che li aveva generati.
    Oltretutto lo Stato, volendo assumersi la responsabilità di tutte le attività non specificamente religiose e spesso persuaso di trovare nella Chiesa un avversario piuttosto che un valore aggiunto, decide di prendere su di sé la responsabilità dell’anagrafe (nascita, matrimonio e morte), della scolarizzazione, dell’assistenza sociale e perfino delle missioni civilizzatrici, dette anche “missioni laiche”.(11) Con ciò era iniziato un graduale processo di secolarizzazione, che è tuttora in atto.
    b) Neocattolicesimo ultramontano
    Dopo cinque mesi di ponderato silenzio,(12) la Chiesa saluta la novità liberale nata dalla rivoluzione borghese in Francia, come questa si presentava nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino (approvata dall’Assemblea nazionale costituente il 26 agosto 1789) e nella Costituzione civile del clero (approvata il 12 luglio 1790), con le dure parole di condanna del breve Quod aliquantum di Pio VI (del 10 marzo 1791): «Non può giudicarsi immune dalla taccia di eresia ciò che serve di base e di fondamento al decreto nazionale di cui ora si tratta». Anche se il testo pontificio si rivolgeva direttamente contro il secondo testo, non tralasciava la critica all’ideologia sottostante da lui definita semplicemente come «dettami della filosofia di questo secolo».(13)
    Dopo Pio VI molte decisioni del papato, e anche l’elezione stessa dei pontefici, sono condizionate dal desiderio di manifestare chiaramente il proprio rapporto con le idee liberali.
    Così Gregorio Chiaramonti dopo tre mesi e mezzo di conclave a Venezia diventa Pio VII, perché non essendo membro della curia, lo si giudicava meno carico di pregiudizi e più facilmente aperto ad assumere un atteggiamento pragmatista. Una via che lo porterà in poco più di un anno di pontificato a negoziare il celebre Concordato del 1801 con la Francia, e anni dopo a viaggiare a Parigi per l’incoronazione di Napoleone (1804). Ma il pragmatismo fu interpretato come debolezza e in poco dopo la Francia occupa Roma, Pio VII scomunica gli invasori e finisce prigioniero, situazione superata solo con l’abdi¬cazione di Napoleone.(14)
    Quando nel 1799 fra’ Mauro Cappellari, camaldolese, pubblica il suo famoso opuscolo anti-liberale Il trionfo della Santa Sede e della Chiesa contro gli assalti dei novatori, combattuti e respinti colle stesse loro armi diventa subito, a livello ecclesiastico, il volto degli intransigenti. È l’inizio di un percorso che lo porterà a diventare abate di San Gregorio al Celio, dopo vicario generale dei camaldolesi e consultore di vari dicasteri romani, prefetto di Propaganda Fide (1826-1831), e finalmente papa, ultimo cardinale non vescovo a salire al soglio pontificio, con il nome di Gregorio XVI. Abbandonando definitivamente la via del dialogo con la modernità, percepito come pernicioso per la Chiesa, adotta la posizione ultramontana.
    Nel caso del papa Mastai sono state le sue posizioni di tendenza dialogante che lo hanno reso stimato dalle formazioni patriottiche all’interno del movimento risorgimentista.(15) Un pamphlet liberale stampato a Pistoia esclamava entusiasta:
    «Pio IX è, e si vanta di essere un principe liberale, ed ha chiamati i liberali agli impieghi ed alle prime cariche dello Stato, per consigliarsi con loro».(16)
    Ma questa situazione e percezione non doveva durare molto. Il conte Cavour, che seguiva da vicino lo sviluppo del movimento liberale nel mondo, presto si accorse del pericolo rappresentato dai gruppi radicali proletari, ormai sostenuti dalle riflessioni ed iniziative che avrebbero condotto alla fondazione del partito comunista. Così scrive a due anni della Primavera dei Popoli:
    «Se l’ordine sociale fosse davvero minacciato, se i grandi princìpi sui quali riposa, corressero un pericolo reale, si vedrebbero – ne siamo persuasi – molti fra gli oppositori più determinati, fra i repubblicani più esaltati, presentarsi per primi nelle file del partito conservatore».(17)
    Di fatto la rivoluzione popolare del 1848 e la brevissima Repubblica Romana avevano a tal punto sconvolto Pio IX da farlo diventare uno dei più accesi e intransigenti anti-liberali, soprattutto con l’assunzione di misure fortemente ultramontaniste che culmineranno nel Syllabus complectens præcipuos nostræ ætatis errores e nel dogma dell’infal¬libi¬lità. Tanto che molti intellettuali liberali non esiteranno a parlare di neocattolicesimo.
    c) Momenti di dialogo
    Anche se non si può parlare ancora di dialogo con i governi che nascono dalla rivoluzione e, meno ancora, di cattolicesimo liberale, possiamo sottolineare il fatto che membri del clero sono stati praticamente presenti in tutte le fasi del sorgere e dell’affermarsi del liberalismo in Francia e in Europa. La loro presenza nei nuovi parlamenti e governi indica nella maggioranza dei casi un atteggiamento pragmatico, che cerca di salvare il salvabile, soprattutto per poter rimanere al proprio posto nel servizio pastorale.
    Tuttavia, dopo quattro decenni di grande confusione e di antagonismo più o meno aperto, nell’imminenza di una nuova rivoluzione, nel 1829, con la pubblicazione di Des progrès de la Révolution et de la guerre contre l’Église il sacerdote e teologo francese Félicité de Lamennais (1782-1854), fino a poco prima acceso ultramontanista, si apriva un dialogo serio tra cattolicesimo e liberalismo. Dopo l’insurrezione del 1830 che aveva deposto Carlo X e acclamato Luigi Filippo I, Lamennais unitosi a due altre eminenti personalità –Lacordaire (1802-1861) e il giovane conte de Montalembert (1810-1870)– fondava la rivista Avenir che con il suo motto Dieu et la liberté subito diventa luogo per lo scambio di idee tra i cattolici liberali e mezzo per la diffusione di un nuovo tipo di dialogo. “Pellegrini della libertà”, i tre partono per Roma per un colloquio con Gregorio XVI sulla necessità del dialogo, cercando di promuovere la libertà di coscienza, di culto, di insegnamento, di stampa e di associazione; la libertà della Chiesa nella scelta dei propri ministri, proponendo anche la rinuncia allo stipendio del clero; la difesa delle nazionalità (Belgio, Irlanda, Italia, Polonia) contro il legittimismo. Gregorio XVI rispondeva il 15 agosto 1832 con l’enciclica Mirari Vos, una lampante condanna del liberalismo e di tutte le sue conseguenze sociali, politiche e religiose; e poiché non si parlava esplicitamente dei redattori dell’Avenir il cardinal Pacca venne incaricato di scrivere loro dicendo che si voleva colpire la linea di pensiero del Avenir. La breve finestra di dialogo si era aperta e chiusa in soli tre anni.
    Negli anni trenta si sviluppa anche in Italia un movimento cattolico liberale intorno a personalità come Alessandro Manzoni (1785-1873), d. Raffaello Lambruschini (1788-1873), Cesare Balbo (1789-1853), d. Antonio Rosmini-Serbati (1797-1855), d. Vincenzo Gioberti (1801-1852) e Niccolò Tommaseo (1802-1874). Il loro sentire e le difficoltà che affrontavano diventano chiari in un’e¬spres¬sione del Lambruschini:
    «Io dispiacerò a molti; sembrerò forse un fanatico a chi mi credeva liberale, e un eretico a chi mi teneva per un cattolico fervente. Ma io mi sottoporrò volentieri a perdere la buona opinione de’ miei mede¬simi amici per beneficare gli uomini, e per manifestare verità ch’io credo uscite dalla bocca di Dio».(18)
    Sebbene tra loro ci siano divergenze ideologiche anche considerevoli e si possa parlare di scuola lamennaisiana, rosminiana e neoguelfista, per cercare di raggruppare, in maniera semplificata, i cattolici liberali italiani, fatto sta che hanno tutti intuito e preso sul serio la necessità di mettere in dialogo i valori eterni del cristianesimo con le idee moderne, afferrando il valore delle nuove libertà e sottolineando anche i limiti dell’anci¬en régime, scoprendo quell’ottimismo antropologico che vede in ogni uomo un potenziale protagonista del dialogo con il trascendente e accogliendo la fiducia nei meccanismi della libertà applicati all’educazione intellettuale e morale.
    Al pari dei redattori dell’Avenir anche tra i cattolici liberali italiani ci furono “pellegrini della libertà”, come Lambruschini (nipote del cardinale Luigi Lambruschini, segretario di Stato di Gregorio XVI) il quale, dopo un breve periodo di attività nella curia romana, se ne andava deluso, o Rosmini, inviato come “messo straordinario” del re Carlo Alberto di Savoia a Pio IX per gettare le basi di un concordato con la Sardegna e suggerire la “lega” federalista dei neoguelfi. Anche gli italiani, come i francesi, sarebbero ripartiti senza riuscire a stabilire a Roma le basi per un dialogo oggettivo tra intransigenti e liberali moderati.
    Proprio l’anno della stesura del Piano comboniano due eventi avrebbero reso il dialogo istituzionale ancora più difficile: 1) il 15 settembre 1864 veniva stipulato tra l’Italia e la Francia il trattato conosciuto come Convenzione di Settembre, che prevedeva il ritiro delle truppe francesi da Roma in cambio dell’impegno da parte italiana di trasferire la corte a Firenze e di non invadere gli Stati Pontifici, ma che, di fatto, lasciava Roma esposta alle incursioni piemontesi; 2) l’8 dicembre 1864 Pio IX pubblicava l’enciclica Quanta Cura con allegato il Syllabus confermando quanto detto da Gregorio XVI nella Mirari Vos e troncando per quasi un secolo ogni possibilità di dialogo istituzionale tra il papato e la modernità.
    d) Atteggiamenti di Comboni
    A questo punto è giusto chiederci quale sia stato l’atteggiamento di Comboni nel clima di tensione sociale ma anche ecclesiale dell’epoca della redazione del Piano.
    I pochi scritti che possediamo fino al settembre del 1864 lasciano solo intravedere la sua posizione politica. Se, da una parte, i suoi contatti con ufficiali del Vaticano e con personalità conservatrici e molte sue espressioni di stima per personaggi aristocratici escludono palesemente la possibilità di vicinanza ai gruppi radicali, dall’altra, le sue conoscenze e amicizie rivelano un’apertura politico-sociale del tutto inverosimile in un intransigente. Nel 1864 Comboni ideologicamente appartiene, con moltissima probabilità, a quel vasto ceto sociale che, in raggruppamenti diversi e sotto nomi diversi, cerca un dialogo tra le idee emerse negli ultimi 75 anni e i valori umani e sociali cristiani che per ben 18 secoli avevano formato l’Occidente, e che oggi, di solito, va sotto il nome di cattolicesimo liberale moderato.
    A questo variegato gruppo di moderati appartenevano tutti quelli che, nonostante le innumerevoli scelleratezze della Primavera dei Popoli o proprio a causa di queste, continuavano a credere, non tutti per opportunismo o per cinismo, alla necessità di un dialogo. Caratteristica della maggioranza dei moderati in Italia, anche come conseguenza ideologica della difesa della libertà delle nazioni all’indipendenza e all’autodeterminazione, era inoltre il desiderio di veder costituirsi un’Italia unita.
    Nella riflessione presentata in questa sede l’anno scorso ho già fatto allusione ai contatti di Comboni con le idee rosminiane nel periodo della sua formazione, come pure alla sua amicizia con il “nido rosminiano” di Verona(19), per cui rimando alle considerazioni già fatte su questo punto.
    Conosciamo bene il consiglio e l’incoraggiamento, ma anche l’intima amicizia che permette a chi si sente afflitto di confidarsi per condividere il proprio dolore, con cui d. Pietro Grana (1825-1908), per breve tempo parroco di Limone, ha accompagnato la crisi che precedette la prima partenza di Comboni per l’Africa. Forse meno note sono le sue posizioni politiche ed ecclesiali. D. Grana era un entusiasta sostenitore della causa dell’unificazione dell’Italia e, con d. Carlo Passaglia, credeva che Pio IX avrebbe dovuto deporre il potere temporale.(20) Non accogliendo la proibizione di mons. Verzeri, vescovo di Brescia, del canto del Te Deum nelle chiese come atto di ringraziamento per gli Statuti, d. Grana si univa al folto gruppo di sacerdoti bresciani patriottici che venne poi denominato dei “preti cantanti”. Le sue convinzioni personali e il fatto di aver disobbedito al suo vescovo, ragioni per le quali fu accusato di essere un «politicante fanatico, che mescolava alle spiegazioni del Vangelo l’esposizione delle proprie personali idee antitemporaliste»(21), avevano generato tra lui e il suo vescovo un conflitto nel quale Comboni intervenne in maniera ‘poco ortodossa’, prendendo il partito di d. Grana. In difesa di d. Grana, Comboni si rivolse al cavaliere Negri, del ministero degli esteri italiano, che gli consigliò di rivolgersi ad un’altra personalità politica, che finora non siamo stati in grado di identificare, con la quale si incontrò personalmente nell’autun¬no del 1862 e alla quale scrisse nell’aprile del 1863:
    «M’indirizzavo a Lei per esporle alcune mie preghiere a favore ed in appoggio al chiarissimo arciprete di Toscolano assai benemerito presso di noi della religione e della patria, colpito non ha guari in varie guise dalle esuberanze vescovili, e gli eventi che testé l’hanno afflitto in seguito ad alcune minacce della curia di Brescia con sommo rammarico della colta e numerosa sua popolazione che meritamente l’ama e lo apprezza, m’hanno spinto a porgerle nuovamente per iscritto le mie preghiere, affinché si degni di accogliere benignamente le rimonstranze che il sullodato degnissimo arciprete d. Pietro Grana sta per innalzarle, e che risguardano ciò che è di competenza dell’ufficio di Vostra Eccellenza Illustrissima».(22)
    Si noti come questa breve lettera è stata composta in uno stile polemizzante e nei toni consueti della letteratura liberale: d. Grana viene presentato come “benemerito della religione e della patria” mentre a mons. Verzeri si attribuisce una certa arbitrarietà nel colpirlo con “esuberanze vescovili”; alla “curia di Brescia” viene contrapposta la “colta e numerosa sua popolazione”; soprattutto si osservi la sottomissione di un problema ecclesiastico ad un’autorità civile.
    Un’altra conoscenza liberale di spicco con cui Comboni ebbe rapporti è d. Giovanni Bertanza (1810-1889). Nato a Limone sul Garda come Comboni, fece i suoi studi a Rovereto e Trento, dove divenne anche segretario del Rosmini con cui allacciò rapporti di vera amicizia; nel 1831 divenne prete della diocesi di Trento. Dopo un breve periodo di lavoro pastorale a Brentonico, nel 1835 divenne professore di umanità a Rovereto. Negli scritti di Comboni troviamo dei riferimenti a lui dal 1858 al 1881, periodo che copre praticamente tutto l’arco temporale degli Scritti. D. Bertanza era, infatti, uno degli intellettuali roveretani più caldamente coinvolti nelle vicende politiche, alle quali prese parte attivamente, particolarmente nel 1848. Il 30 settembre di quell’anno scriveva:
    «Saprete dalle Gazzette che il nostro abate Rosmini è deputato a Roma per il grandioso affare dell’unità italica. Molti cittadini vorrebbero mandargli un grido, che servisse a lui da svegliarino… ma non è tempo. Gli scriverò io frattanto, spero ch’egli non disconoscerà una Patria dove tanti cuori italiani palpitano spontaneamente».(23)
    Molto attivo nel 1848, quando nel 1859 si avvicinava la seconda guerra d’indipen¬denza fu allontanato dall’insegnamento e nel 1860 ricevette da Innsbruck la lettera che decretava il suo pensionamento per motivi politici. Il 25 marzo 1864 dovette poi fuggire dall’Austria rifugiandosi nella sua Limone natale, ma anche nella diocesi di Brescia si sentiva rigettato «fra i più riprovati preti della diocesi», fatto che lo portava a lamentarsi:
    «Qui il solo dire che finalmente non è un dogma il regno terreno del Papa, basta per condannare un prete».(24)
    Solo nell’agosto del 1867 poté rientrare in Trentino, dopo l’amnistia concessa dal governo austriaco.
    Un’altra importante amicizia liberale di Comboni è quella fortuitamente stabilita il 2 marzo 1861 ad Alessandria d’Egitto con il giovane conte Guido di Carpegna, dal 1865 principe Guido Orazio di Carpegna Falconieri (1840-1919), amicizia che Comboni coltivò come una delle più intime e care. Guido racconta in una lettera a suo padre Luigi il suo primo incontro con Comboni:
    «Ho fatto ieri la mia comunione alla chiesa, ho pregato pe’ miei; un missionario, ultimo compagno del p. Ryllo, farà forse con noi la traversata. È una cara e allegra persona, e la sua conversazione è piacevolissima: si è inoltrato nell’interno dell’A¬frica fino al quarto grado equatoriale, e seco conduce in Europa una piccola colonia di cristiani negri».(25)
    Comboni diventa amico della famiglia Carpegna e mantiene rapporti cordiali soprattutto con Guido e con sua madre Ludmila. Guido è un cattolico fervente, ma anche un entusiasta difensore dell’unificazione dell’Italia e delle riforme liberali. Comboni stesso assisterà a Roma a una di quelle imprudenze di Guido, che pochi anni dopo gli costeranno anche l’esilio da Roma; così come, anni più tardi, si preoccuperà del fatto che Guido debba collaborare con radicali e massonici. Le idee politiche di Guido sono da lui descritte molto chiaramente nel suo diario:
    «Disporre ogni cosa a seconda degli intendimenti del governo e del re; […] raggranellare ogni sfumatura di partito liberale intorno all’unico e grande concetto dell’’Unità Nazionale. […]
    […]L’avvocato Gatteschi, da me già conosciuto in Egitto, […] rimpiange l’Italia sacrilega sul punto di sfasciarsi per aver osato toccare il papato politico, con strana confusione reso unum et idem col papato religioso, che ha la sua promessa divina di perpetua esistenza.
    Il gesuitismo segue a magnetizzare il cattolicismo; vorrebbe trarlo a rovina; ma il gesuitismo cadrà per le stesse sue arti; il cattolicismo testerà perché è Dio che lo vuole. […] Chi cascherà, saranno i più acciecati settari, che alla religione camuffarono con un partito nemico d’ogni progresso e d’ogni civiltà».(26)
    Con la Breccia di Porta Pia Guido diventa «Commissario pel Comune in Campidoglio, ossia primo Sindaco della nuova capitale d’Italia! », come ricorda lui stesso nelle sue memorie.(27) Più tardi viene eletto deputato del collegio di Urbino (1874-1882) e poi senatore del regno (1905-1919).(28)
    Nel 1877, pochi giorni prima della sua ordinazione episcopale, Comboni scrive ancora al suo «caro ed indimenticabile Guido», che tratta ancora con quell’intimità propria di chi si dà del tu, non perdendo però l’occasione per manifestare chiaramente il suo disgusto per quelle influenze massoniche che si erano insinuate nel mondo politico italiano:
    «Oh! Se l’eterna Roma non mi avesse obbligato a rimanervi fino ad affari finiti […], quanto volentieri verrei a passare 15 giorni coi tuoi cari bimbi, colla angelica tua consorte e con te, che certo più di quel che il fui, mi terresti allegro, perché sai che io sinceramente e davvero ti amo, e quindi mi è caro tutto quel che ti appartiene, meno quelle sedie e quella gente, con cui sei obbligato a trattare, cioè, la framassona camera, ed il framassonissimo municipio».(29)
    In verità lo stesso Guido si dimise e lasciò Roma quando, come scrive, «mutarono le compagnie del consiglio».(30)
    Sono inoltre noti i contatti di Comboni con diversi membri del governo italiano in Sicilia e a Torino:
  • a novembre-dicembre 1860 viaggia da Genova a Napoli con un ufficiale di Garibaldi, con cui si trattiene a lungo, informandosi sulla Spedizione dei Mille e particolarmente su Luigi Prina (1830-1877), membro della spedizione ed ex-allievo del collegio Mazza;
  • ancora nel dicembre 1860 incontra a Palermo, dove si trovava al momento la corte sarda, il ministro conte Fabrizi, anche se rifiuta un incontro con Vittorio Emanuele II proprio per ragioni di pragmaticità politica («Se io avessi accettato danaro da Vittorio Emanuele avrei certo compromesso me, l’Istituto, la Missione; perché leggendosi sui giornali austriaci che un Missionario dell’Istituto Mazza ha ricevuto una somma da un re nemico della Chiesa, e del governo austriaco, si avrebbe giudicato sull’opinione politico-religiosa non solamente di me, ma dell’Istituto; quindi sovra di noi si rivolgerebbe lo sguardo e dalla Propaganda, e da Roma, e dal governo austriaco, e dalla Società di Maria di Vienna; ed io avrei compromesso e l’Istituto, e il buon esito della missione: per conseguenza rifiutai ogni abboccamento col re, contentandomi di una valida raccomandazione, la quale non è punto sconveniente che io implori ed ottenga»)(31);
  • nell’8 ottobre 1861, in una lettera privata a suo padre, rivela i suoi sentimenti di patriottismo italiano: «Qui [a Vienna] debbo con mia gran pena soffocare sentimenti della mia cara patria, e rimaner taciturno davanti alle espressioni le più avverse al parere di chi ha senso comune»;(32)
  • nel febbraio 1862 visita la camera dei deputati e il senato per concessione niente meno che dello stesso presidente del consiglio del regno d’Italia Bettino Ricasoli (1809-1880), primo successore del conte Cavour in questa carica;
  • nel agosto 1864 lavora con il canonico Ortalda, ma anche «con l’aiuto del ministero degli esteri»(33) all’elaborazione di un indirizzo al senato con una lista completa di missionari e agenti diplomatici italiani (includendo il Veneto, il Trentino e Roma) nel mondo, per cercare di liberarli dalla Legge dell’Egualità, che imponeva anche ai chierici la leva.
    Forse non è un caso neanche il fatto di aver pubblicato la prima edizione del suo Piano nell’allora (ancora) capitale del regno d’Italia.
    III. Il Piano di Comboni
    1. Un “sistema” di missione
    Ciò che costituisce la vera novità del Piano comboniano è, nelle parole stesse del suo autore, «un’assoluta unità di concetto accoppiata ad una generale semplicità di applicazione». Ciononostante Comboni ha l’umiltà di presentare pubblicamente il suo testo come un «piano […] vasto nella sua estensione e malagevole nella sua completa attuazione», argomentando però in termini che ci ricordano quelli del rasoio di Ockham: «ci apparirebbe tuttavia uno e semplice nel suo concetto e nella sua applicazione». Per la terza volta nella conclusione del testo, evidenzia ancora «l’unità, la semplicità e l’utilità del nuovo piano».
    Nella mia riflessione dell’anno scorso in un paragrafo intitolato “Un personale scambio di idee” –preso in prestito dalla redazione degli Annali della Società di Colonia–vi ho brevemente proposto un itinerario per cercare di rintracciare il percorso di riflessione e maturazione che portarono Comboni a fare sue delle intuizioni già presenti nei diversi ambienti impegnati nella missione sudanese ed ad approfondirle ulteriormente.(34) Anche se documenti emersi ultimamente ci obbligherebbero a rivedere soprattutto chi sia stato l’autore della riflessione sull’opportunità di trasferire gli Istituti Africani da Verona al Cairo, non vogliamo oggi rifare quel percorso, bensì analizzare, alla luce dell’ambiente antropologico e sociale, politico ed ecclesiale dell’800 liberale, il testo del Piano, frutto sintetico di un laborioso lustro di maturazione.
    Il Piano, nella sua prima edizione di Torino, uscita nel dicembre del 1864 dai tipi della Tipografia Falletti, portava sul frontespizio il titolo di Piano per la Rigenerazione dell’Africa e, all’inizio del testo, quello di Rigenerazione dell’Africa coll’Africa e consisteva in un opuscoletto con solo 14 pagine di testo divise in 38 paragrafi – anche se il Piano propriamente detto non occupa più di 6 pagine per un totale di 21 paragrafi – che, come al solito in questi casi, avrà avuto una tiratura di poche centinaia di copie, per una divulgazione personale fatta dall’autore.(35) Nella seconda settimana di gennaio del 1865 però veniva riproposto integralmente (con 4 note della redazione) e questa volta al foltissimo gruppo dei soci dell’O¬pera della Propagazione della Fede in Italia sulle pagine del Museo delle Missioni Cattoliche e intitolato semplicemente Rigenerazione dell’Africa coll’Afri¬ca.(36)
    Prima di arrivare all’analisi delle idee filosofiche e teologiche, antropologiche e sociali sulle quali Comboni ha stabilito il Piano, anche attraverso la rivisitazione delle primissime difficoltà nella sua realizzazione, vogliamo ricordare brevemente le intuizioni fondamentali espresse nel testo.
    a) Il «benefico impero» di un’Africa Cristiana
    Una delle più grandi novità ecclesiologiche del Piano è la profezia di una Chiesa Africana, e ciò a tre livelli:
  • a) nella visione di un’unità ecclesiale che non cancella l’auto¬nomia e la specificità delle numerose giurisdizioni presenti o da creare (32 all’epoca della redazione del Piano (37)), ma le riunisce in un’efficace sinergia pastorale;
  • b) nel progetto di affidare le principali attività e la «permanente direzione» delle nuove Chiese e delle nuove società civili a capi africani; e, infine,
  • c) nella convinzione della necessità di adattare il modo di essere Chiesa alle realtà umane e culturali africane.
    Non a caso dunque la scelta del motto Rigenerazione dell’Africa coll’Africa per sintetizzare il Piano per la Rigenerazione della Nigrizia, il quale di per sé va molto al di là di ciò che è dichiarato in questo motto.
    Ma “fede e civiltà”, “religione cattolica e cristiana civiltà”, “luce della religione e dell’incivilimento”, “famiglie cattoliche e fiorite società cristiane” costituiscono per Comboni le due inseparabili facce della stessa moneta, due indivisibili dimensioni della stessa realtà. Proprio per questa ragione, egli parla non solo della fondazione di una Chiesa Africana, ma anche dello sviluppo materiale e scientifico, personale e collettivo di una società africana fondata su valori cristiani.(38)
    Nel suo Piano c’è spazio per uomini e donne, per la formazione di missionari consacrati e laici, per la preparazione di capi religiosi e di capi politici; ma c’è soprattutto spazio per quella conquista fondamentale del suo tempo che è la libertà individuale: «ciascun individuo […] potrà abbracciare quello stato di vita, a cui si sentirà più inclinato». Perfino a chi non vuole più far parte del progetto del Piano, ma finita la sua formazione vuole percorrere un’altra via, allontanandosi dalle strutture della missione, deve farsi «tutto quel bene, che starà entro i limiti del […] potere [della missione], prestandogli aiuto e consiglio».

    b) Cooperazione cristocentrica
    La rigenerazione dell’Africa, cioè «introdurvi più radicalmente e stabilmente la fede» e «migliorare le condizioni materiali delle vaste tribù della Nigrizia», per Comboni richiede una radicale novità di approccio missionario, perciò è imperativo «deviare (nei primi manoscritti: abbandonare) dal sentiero fino ad ora seguito, mutare l’antico sistema, e creare un nuovo piano».(39) Ma un fatto rimane: la missione deve partire da chi possiede già il dono della fede.
    La lettura sinottica dei primi due testi manoscritti del Piano e del testo della sua prima edizione torinese, mostra un fatto non irrilevante: Comboni non introduce nei 21 paragrafi del Piano nessun cambiamento contenutistico, ma inserisce cambiamenti radicali (tagliando vasti brani e aggiungendo riflessioni nuove) nei 13 paragrafi dell’introdu¬zione e nei 4 della conclusione. L’introduzione e la conclusione servono per chiarire le motivazioni storiche e personali del Piano ed introdurre il lettore al suo spirito. Quindi i cambiamenti fatti in vista della pubblicazione del testo sono molto significativi, perché Comboni sa che è cruciale riuscire a comunicare le vere motivazioni e la grande urgenza che devono portare la Chiesa Universale ad occuparsi con un’attenzione speciale della rigenerazione dell’Africa.
    Non sono d’accordo con chi crede che Comboni insista nel sottolineare come il Piano provenga da un’ispirazione divina solo per rafforzare con un’autorità superiore alla sua i suggerimenti operativi del Piano.(40) Mi sembra che sia piuttosto la necessità di chiarire e di esprimere la sua, adesso più chiara, convinzione interiore del fondamento cristologico di ogni missione e perciò anche esistenzialmente della sua missione («Il piano […] ci balenò nei momenti dei nostri più caldi sospiri verso quelle infelici regioni »). Se dunque la missione nasce dalla fede, dalla «luce che […] piove dall’alto», evangelizzare significa prima essere «trasportato […] dall’impeto di quella carità accesa con divina vampa sulla pendice del Golgota».
    Questo è il motivo e lo spazio di azione della Chiesa universale che, in nome dell’¬mo¬re di Cristo verso i più poveri ed abbandonati, deve lasciarsi “trasportare” verso i popoli dell’Africa. «I cattolici di tutto il mondo, investiti e compresi dallo spirito di quella sovraumana carità che abbraccia la vastità dell’universo», le pie associazioni missionarie, le congregazioni maschili e femminili, gli istituti missionari, tutte le circoscrizioni ecclesiastiche dell’Africa sono invitati a entrare nella logica e nella dinamica di questo movimento di amore.
    Ed ecco quel che è forse il pilastro operativo più significativo di tutto il Piano: la chiara convinzione che il compito dell’evangelizzazione dell’Africa non può essere portato avanti da un solo istituto missionario, da un solo ordine religioso o da un potere coloniale; ma neppure da tutti questi, se lavorano in modo scoordinato, sparsi per il vasto continente.
    «L’Opera deve essere cattolica, non spagnola, francese, tedesca o italiana. I poveri africani devono essere aiutati da tutti i cattolici».(41)
    Perché ciò diventi possibile, la missione deve partire da un gruppo di lavoro sopranazionale destinato a realizzare e dirigere il Piano, cioè dalla Società dei Sacri Cuori di Gesù e di Maria per la Rigenerazione dell’Afri¬ca, che si deve fondare a tal fine. Una società con un «comitato composto da abili ed attivi prelati, ecclesiastici e secolari». Una cattolicità dunque in grado di superare non soltanto un esacerbato spirito di gruppo, che lo stesso Comboni chiamava mordacemente “spirito fratesco”, o il nazionalismo dei poteri coloniali attuali o potenziali, ma capace anche di integrare le potenzialità e le specificità di ecclesiastici e laici, di uomini e donne.
    c) Decentralizzare
    Uno dei pochi capoversi dell’introduzione che non è stato sottoposto a profondi cambiamenti prima della sua edizione è il lungo quinto paragrafo, dove Comboni parla della necessità che ogni missione ha, per svolgere la sua azione di un centro. In poche righe Comboni si riferisce ad esso come «centro sicuro, da cui emani incessantemente lo spirito di vitalità», «centro vitale», «centro di vitalità» e «centro benefico, donde emani quello spirito di vitalità cotanto necessario». Ci sembra una ripetizione eccessiva e perfino letterariamente inestetica, ma soprattutto, data la ripetizione della parola centro, siamo portati a pensare subito a una specie di quartiere generale per la direzione del piano.
    Ma ciò che Comboni ha in mente è quella linea d’intersezione che è simultaneamente periferia dell’«Africa interna» e periferia della sfera d’influenza politico-commer¬ciale dell’Occidentale. Linea dove sono a contatto popoli ed economie, religioni e culture, climi e suoli molto diversi, ma anche luogo «dove l’africano vive e non si muta, e l’europeo opera e non soccombe». Proprio su questa linea, su questa “doppia periferia” Comboni vuole veder «piantato il […] centro di azione [della missione africana]».
    Il centro non è dunque l’indispensabile comitato, neanche la vigilante Propaganda Fide, bensì i numerosi collegi, le auspicabili università e scuole tecniche. Quasi ci sembra di intravedere in questa visione del Piano i modernissimi modelli manageriali per la pianificazione delle risorse umane, dove le capacità del personale e non solo le infrastrutture esistenti entrano nell’equazione della programmazione aziendale. L’equivalente dell’800 era più chiaramente il passaggio compiuto da Luigi XVI, che il 10 ottobre 1789 perde il titolo di “re di Francia” per diventare “re dei francesi”.
    2. Tra utopia e realtà
    Finito il febbrile lavoro della redazione del Piano, Comboni ne rimase veramente soddisfatto e, come spesso succede quando si stabilisce questo stato di spirito, sembra che abbia lasciato che il suo entusiasmo personale distorcesse la percezione delle reazioni degli altri. Così si potrebbero spiegare espressioni come quella rivolta a d. Nöcker il 28 settembre 1864:
    «Pare che Propaganda voglia sottoporre al mio Piano e far passare per le mie mani tutte le opere intraprese a favore dei neri. […] Il Papa e Propaganda mi si mostrano molto accondiscendenti e appagano volentieri le mie proposte e i miei desideri».(42)
    Tuttavia, in una lettera inviata allo stesso d. Nöcker qualche giorno prima (sicuramente dopo il 19 e prima del 28 settembre) e che accompagnava una sua Relazione, Comboni lasciava trapelare che il Piano non era stato ufficialmente approvato, dovendo prima essere sottomesso al giudizio di tutti coloro che avrebbero dovuto collaborare alla sua realizzazione:
    «Prima che questo piano abbia l’approvazione ecclesiastica, io per incarico del card. Barnabò devo fare un viaggio, onde mettermi in relazione con tutte le società e compagnie religiose che fino ad oggi lavorano per la missione africana, quindi con il p. Olivieri, con don Mazza, col p. Lodovico da Casoria, con la Società della Propagazione della Fede di Lione e di Parigi, con l’ordine francescano, con le società spagnole ecc.».(43)
    Sarà proprio questo viaggio a farci conoscere le vere intenzioni del cardinale Barnabò e le sue riserve sull’opportunità e la praticità del Piano comboniano. Anche se in quel momento Comboni credeva che quel viaggio sarebbe stato un trionfo, come lo descrive a d. Mazza: «[Barnabò] vuole che subito dopo ritornato a Verona io vada in Francia per mettermi d’accordo colla Propaganda di Lione e Parigi, per obbligarla a nome della S. Sede ad assegnare tutti i sussidi pecuniari che sarebbero necessari. Poi è necessario che mi metta d’accordo colle case centrali dei 13 vicariati di tutte le coste d’Africa; e poi il Papa darà il Breve di Decreto al mio ritorno in Roma questa primavera».(44)
    a) L’urto contro la sensibilità vigente
    Tuttavia prima ancora di partire da Roma, deve confrontarsi con le prime difficoltà:
    «Il generale dei francescani brigò assai presso il cardinale ed il Papa per avere l’assoluta giurisdizione dell’Africa. Il vescovo d’Egitto era costituito il provicario. Il mio Piano ha gettato a terra i loro escogitati. […] Avrò i più fieri ostacoli, soprattutto da parte delle fraterie, non sempre dominate dallo spirito della carità evangelica. Ma non temo di nulla».(45)
    La convinzione di aver superato questa prima difficoltà («I francescani e specialmente il generale sono senza accorgersi ridotti al punto, mercé un colpo di politica che io vibrai a tempo e luogo opportuno, da sospirare la pronta esecuzione delle mie trattative a Parigi, e cedere la metà della giurisdizione sull’Africa Centrale»(46)) gli dà nuovo animo, ma lo rende anche consapevole della complessità del suo mandato:
    «Il Piano piacque al Papa e al card. Barnabò, ma la sua attuazione dovrà urtare contro innumerevoli ostacoli, perché lo spirito dell’amore di Gesù Cristo manca in molte classi e istituzioni e specialmente per causa della politica. […] Si dovranno unire insieme tutte le iniziative finora esistenti, le quali, tenendo disinteressatamente davanti agli occhi il nobile scopo, dovranno lasciare andare i loro interessi particolari».(47)
    Forse sono state proprio le prime avversità a spronarlo a chiedere a Barnabò una lettera di raccomandazione che questi gli promise, ma in realtà non diede.
    Passato da Roma a Verona presenta il Piano al capo di uno degli istituti interessati, cioè a d. Mazza, superiore del suo istituto. Anche qui, Comboni percepisce un’accetta¬zione entusiasta del Piano:
    «Il mio superiore d. Mazza, avendo letto e studiato il sunto del Piano per la Conversione della Nigrizia, ne fu contentissimo, e parve il buon vecchio ringiovanire per la speranza di veder presto effettuato qualche cosa di stabile per il bene dell’Africa interna».(48)
    Dallo stesso d. Mazza abbiamo però un racconto che ci trasmette impressioni diverse dello stesso incontro:
    «D. Comboni già appassionato per le missioni africane, mi disse a voce, e me lo fece leggere anche in iscritto un suo Piano generale con cui si potesse contemporanea¬mente elaborare a queste missioni, abbracciando tutta l’Africa.
    Questo Piano, teoreticamente parlando, mi piace as¬sai, essendo conforme al mio in piccolo, con cui io intendevo di darmi sul principio alla conversione d’una parte pic¬cola dell’Africa, ed a mano a mano distendermi (secondo le circostanze lo avrebbero permesso) poi alle parti più in¬terne della stessa Africa; il Piano però di d. Comboni ab¬braccia tutta l’Africa, e di primo getto tutta nello stesso tempo. Tal progetto, io dico, a me piace teoreticamente; ma mi si affacciano all’esecuzione gravissime ed enormi difficoltà, alle quali mi sentivo, e mi sento per ora posto all’assoluta impossibilità di vincere, e superare; il perché io dissi a d. Comboni, per me io non ardisco di promuo¬vere tale impresa; per altro io non la impedisco a te, non volendo oppormi a quello che la provvidenza, e la bontà di Dio intendesse di fare; però fa pur tu quello a cui tu ti senti disposto, ed animato; ma fa, ed opera non come spinto da me, ma da me staccato, ed indipendente; che se l’opera verrà da Dio incamminata, io con il mio istituto sarò sempre pronto a coadiuvare in tutto ciò che io, ed il mio istituto potesse».(49)
    Dunque in realtà il Piano era piaciuto a d. Mazza, tuttavia egli aveva delle riserve davanti all’ampiezza del progetto e parlava di “gravissime ed enormi difficoltà”. Perciò aveva detto a Comboni “per me io non ardisco di promuovere tale impresa; per altro io non la impedisco a te”; cosa che, in realtà, significava una provvisoria ma perentoria non adesione dell’Istituto Mazza alla collaborazione richiesta.
    Una delle chiavi fondamentali per l’esito della missione diplomatica di Comboni era senz’altro la Società Mariana per il fomento della missione dell’Africa Centrale di Vienna; questa, anche se piccola in confronto alle grandi società missionarie internazionali, aveva svolto negli ultimi dodici anni un ruolo decisivo nella supervisione e governo del vicariato apostolico dell’Africa Centrale, dipendendo dal suo beneplacito la nomina dei provicari, l’ammissione dei sacerdoti o laici per la missione, la scelta di metodi e luoghi per la loro attività e tutto il finanziamento del vicariato, inoltre essa era diventata in pratica lo strumento per mezzo del quale l’Austria esercitava il suo protettorato sul vicariato. Consapevole di questo, Comboni decide di rivolgersi ancora da Roma, a questa società per ottenere la sua approvazione e il suo appoggio ma, non avendo ancora ricevuto una risposta soddisfacente, decide di visitare personalmente a Brixen uno dei più attivi ed influenti membri del comitato centrale della società: il canonico regolare agostiniano dott. Mitterrutzner. Questi conosceva bene l’Istituto Mazziano, dove era stato ospite in occasione del suo viaggio al Cairo, ed era convinto dell’opportunità di collaborare con i missionari di questo istituto, ma, contrariamente a ciò che si faceva capire a Comboni da Vienna, gli altri membri del comitato non credevano all’opportunità della collaborazione con gli italiani (neanche se cittadini austriaci), perché li consideravano inetti per la missione dell’Africa. Infatti, un’efficace collaborazione di Vienna con Comboni si stabilirà solo dopo la sua nomina a provicario nel 1872; che fino a quel momento ciò che conta per Vienna sono i francescani presenti a Khartoum, dove non vogliono più missionari perché il lavoro non è molto.
    Finalmente, dopo una sosta a Torino per la pubblicazione del Piano, Comboni parte per Lione, dove spera di persuadere mons. Augustin Planque SMA (1826-1907) e la poderosissima Opera della Propagazione della Fede a collaborare nella realizzazione del Piano, ma proprio a Lione lo aspetta una prova che quasi fa cadere tutto il progetto.
    Il primo incontro di Comboni è con Planque. Forse si rivolge prima a lui perché conosce il suo amore per le missioni africane, ma sarà proprio Planque ad annientare ogni possibilità di successo per la missione lionese di Comboni. Non essendo opportuno farlo con altri, Comboni si sfoga scrivendo a d. Bricolo, suo superiore diretto e confidente:
    «Io venni accolto cortesemente dal superiore [del Seminario delle Missioni Africane] mons. Planque, uomo di eminenti qualità ed assai stimato in tutta la Francia. Chi lo crederebbe? Dio dispose che capitando nelle mani di lui, cadessi nelle mani di un santo, ma acerrimo nemico. Egli per fini santissimi gettò a terra il mio Piano, e quel che è più corse dai membri del Consiglio Centrale dell’Opera della Propagazione della Fede e dal cardinale De Bonald, e li prevenne in contrario. Non sapendo rendermi conto della causa di un tale procedere di un santo e bravo uomo, ebbi con lui molte conferenze; e mi assicurò che è un Piano aereo, nocivo alle missioni africane, piano che non sarà mai accettato, né sussidiato, piano a cui egli sarà...

 

Elementi per una lettura storica del Piano di Comboni