"L’onnipotenza della preghiera è la nostra forza" (Scritti, 1969)
(Articolo pubblicato sull'Osservatore Romano)
"Siccome l'opera che ho tra le mani è tutta di Dio, così è con Dio specialmente che va trattato ogni grande e piccolo affare della Missione: perciò importa moltissimo che tra i suoi membri domini potentemente la pietà e lo spirito di orazione." (Scritti, 3615).
"La pietà è il pane quotidiano dei nostri Missionari, riconoscendosi troppo necessaria per mantenere il fervore della vocazione in questi paesi, dove è purtroppo facile dimenticarsi di Dio e dei propri doveri religiosi." (Ibid., 1867).
Queste frasi di San Daniele Comboni, tra le molte possibili (Vedi Scritti: Indice tematico, pp. 2176 - 2178), sono d’intensa valenza spirituale e meriterebbero una riflessione ben più approfondita della presente. Nel contesto in cui queste espressioni appaiono, potrebbero sembrare la consegna d'un uomo apostolico, che tutto subordina al valore supremo dell'apostolato, arrivando persino a strumentalizzare la stessa preghiera all'efficacia del suo ministero apostolico. Nella ricchezza dell'intuizione di San Daniele Comboni, invece, esse svelano la sostanza autentica dello spirito di preghiera del missionario. (Si vedano ad esempio gli Scritti, 3616-3617). Lo spirito di preghiera è la naturalezza della coscienza religiosa del cristiano. Questa coscienza consiste infatti nell'avvertenza, oscura eppure illuminante, dolorosa eppure parzialmente appagante, della continua presenza di Dio. Di per sé, si tratta d' un fatto molto semplice: Dio è "Io sono" (Es. 3, 14; Gv. 8, 28.58), e questo suo 'esserci' è continuo non solo intorno a noi, nella realtà che ci circonda, ma per il dono della grazia interiore anche in noi. Sappiamo qual è la nostra condizione: noi siamo "tempio di Dio" (1 Cor. 3, 16) e "lo Spirito di Dio abita in noi" (Rm. 8, 9). Tale situazione divinizzata sembra tuttavia sfuggirci, e nell'esistenza quotidiana ci pare di essere soli, non abitati da Colui che sta in noi con tutta la vivacità e creatività del Suo amore e che "ci è più intimo di quanto noi stessi siamo intimi a noi" (S. Agostino). Esperienza dolorosa per chi si è consacrato a Dio, al punto tale da crearci disagio e smarrimento interiore, se non vigiliamo costantemente. Il sapere che lo Spirito dimora in noi con il suo fuoco divorante e il ritrovarci tanto estranei a Lui e subalterni alle cose esteriori, umilia e ci addolora allo stesso tempo.
Qui viene in nostro soccorso il magistero autorevole dei Santi. Essi ci educano infatti a intraprendere il viaggio dentro la nostra anima "Ambulare cum Deo intus" (Imitatio Christi). É il viaggio più avventuroso di tutti, perché al centro di noi stessi si trova il Dio vivente: basti ricordare come S.Teresa d'Avila descrisse, nelle pagine indimenticabili del Castello Interiore, questa impresa. I Santi ci educano e la loro pedagogia è giustamente graduale, tenuto in debito conto la nostra lentezza a capire e ancor più a mettere in pratica i loro insegnamenti. "É d'uopo che domini patentemente il fervore per le cose spirituali, lo studio della vita interiore e un desiderio vivissimo della perfezione" (Regole 1871, cap. X, in: Scritti, 2706). Dio abita nell'intimo del nostro "io". Così l'elevazione a Lui (vedi la classica definizione della preghiera cristiana come "elevatio mentis in Deum - elevazione della mente a Dio") consiste nel ricordo della Sua inabitazione in noi e nel conseguente slancio d'amore che nasce da tale ricordo. Santa Elisabetta della Trinità (1880-1906) fece del mistero di tale inabitazione il suo capolavoro mistico.
Non è certamente difficile ringraziare, lodare, adorare, amare con semplice atto di spirito il Dio che tanto familiarmente "ha preso dimora in noi" (Gv. 14, 23). Questo ossequio amorevole non è per noi un atto spirituale ultimo, al quale arrivare dopo molti altri esercizi e pratiche di pietà, ma all'opposto è il primo di tutti; conviene infatti anche con Dio, e con lui in grado sommo, comportarci come ci comportiamo fra noi quando ci salutiamo cordialmente incontrandoci, ancora prima di scambiarci qualunque altra parola. Elevare la nostra mente a Dio significa esattamente e prima di tutto proprio questo. É una tecnica tanto facile e immediata da essere stata adottata subito dai maestri di spirito, in tutti i tempi e in tutti i luoghi. Si chiami essa la "preghiera del cuore" (è così infatti che in Oriente l'hanno chiamata i Greci nella "Filocalia") o "amare Dio in noi con umili slanci d'amore" (così dice la "Nube della non conoscenza" in occidente), la verità rimane uguale. San Giovanni della Croce l'ha espressa mirabilmente così: "L'anima spira in Dio la medesima spirazione d'amore dello Spirito Santo che il Padre spira nel Figlio e il Figlio nel Padre." (Cantico Spirituale, 34, 2).
Ed è proprio così: " elevare la mente a Dio" non è più, per il credente inabitato dalla Santissima Trinità, un atto suo personale e limitato, ma un atto che è suo e di Dio insieme, o, ancor meglio, un atto di Dio in lui e al quale egli si unisce immergendovisi: "nello Spirito", rivela S.Paolo, "gridiamo: Abbà, Padre!" (Rm. 8, 15); conseguenza operativa del fatto che " chi sta nell'amore dimora in Dio e Dio dimora in lui." (1 Gv. 4, 16).
Si sviluppa così, nella massima semplicità, lo spirito di preghiera al quale il Fondatore esorta tutti noi Suoi discepoli. É l'abitudine di vivere con il cuore rivolto a Dio presente in noi, e presente nell'amarci: dunque abitudine costante e viva di ricambiare l'amore. Nessuno di noi ceda alla facile tentazione di ragionare pressappoco così: "Io non sono degno di dire a Dio che lo amo, perché se lo amassi davvero farei questa o quell'altra cosa; dunque meglio star zitti." Qui non si tratta, evidentemente, di basarci sulle nostre opere per dire a Dio che lo amiamo (atteggiamento che non evita la presunzione o la disperazione e secondo il quale giudichiamo tali opere sufficienti o meno all'amore), ma assai più semplicemente di rallegrarci che Dio abiti in noi e ringraziarLo con tutto il cuore di questo graditissimo dono. Non ci basta forse sapere che Egli è lì? Se vogliamo qualche cosa di più, allora è certo che non l'amore, ma l'amor proprio ci spinge, con tutti i danni che questo puntualmente provoca in noi.
Il Magistero dell'insegnamento e ancor più della vita di San Daniele Comboni è in realtà molto importante e fondamentale per noi. Accettando di mettere in pratica il Suo insegnamento e di lasciarci ancor più contagiare dal Suo esempio, siamo in grado di pervenire molto rapidamente al raccoglimento amoroso, che ci tiene in Dio e con Dio trasformando in noi la percezione e il giudizio riguardo a tutte le realtà della vita. Infatti la permanenza in Dio, grazie all’azione dello Spirito Santo, influisce immediatamente su tutta l'esistenza interiore ed esteriore, provocando "la nascita dallo Spirito" (Gv. 3, 8) di cui parla Gesù a Nicodemo.
Come si vede lo spirito di preghiera com'è inteso da San Daniele Comboni e da una folta schiera di maestri di vita interiore, porta molto lontano e ha conseguenze immediate in noi sia come individui che come comunità di credenti in Cristo.
P R E G H I E R A
Degnati, Signore,
di concederci lo stesso spirito di preghiera che animò
e sostenne questo grande apostolo dell’Africa.
Avvalori la nostra supplica l’intercessione
del Tuo fedele amico Daniele Combni,
che ebbe il singolare privilegio di essere
il Servo appassionato dei Tuoi Figli e Figlie nel cuore dell’Africa.
Te lo chiediamo per Cristo, nostro Signore.
AMEN.
P. Antonio Furioli, mccj