In Pace Christi

Salata Gaetano

Salata Gaetano
Geburtsdatum : 12/10/1914
Geburtsort : Vestenanova VR/I
Zeitliche Gelübde : 14/05/1949
Ewige Gelübde : 22/05/1955
Todesdatum : 14/05/1978
Todesort : Verona/I

La suora che lo assisteva durante l'ultima malattia, si preoccupava di dire a quelli che gli davano il cambio: «Mi raccomando, di tanto in tanto bagnategli le labbra, perché lui non chiede mai niente».

            Mi pare che questa intuizione della suora, nelle ultime ore di vita di fratel Gaetano, sintetizzi la sua spiritualità.

            Fratel Gaetano Salata è stato un uomo che ha conosciuto la vita dura, e da questa durezza della vita ha tratto altre due caratteristiche della sua personalità: il senso della povertà e un po' di pessimismo, velato di umorismo, che cercava di superare nella fede soprattutto sgranando quel rosario tanto caro, che aveva spesso in mano.

            La sua vita era cominciata il 12 ottobre 1914 a Vestenanova di Verona, terzo di undici figli. Fu ben presto messo in responsabilità per cavare dalla dura terra di montagna il pane per il sostentamento della numerosa famiglia.

            Dura la terra e dura anche la vita fin dai suoi inizi: ogni giorno quattro chilometri a piedi per andare e tornare dalla scuola elementare. E poi, dopo le elementari, da Vestenanova fino a Chiampo, sempre a piedi, per la scuola di disegno e scultura, con un pezzo di pane in tasca e l'acqua delle sorgenti. «Pane e acqua e tanta strada, come Elia nel deserto» diceva frateI Gaetano, ricordando quel periodo.

            La scuola di Chiampo segnò un po' tutta la sua vita. Molti ricordano quando prendeva in mano un pezzo di legno o una pietra e la guardava con occhi da esperto, per vedere se poteva cavarne una testa, un volto, un paesaggio.

            La tanta strada macinata a piedi fin da ragazzo, forse gli fece venire la vocazione di aviatore. A 18 anni Gaetano partì volontario per l'aeronautica e come primo aviere e scelto montatore partì per Addis Abeba, ma qui conquistò nel '42 la prigionia che passò in Kenya. Per arrotondare il "rancio" dei prigionieri, mise all'opera la sua industriosità, costruiva accendini, statuette, scarpe e cento altre piccole cose, unendo così l'utilità alla simpatia che sapeva crearsi intorno. Durante quei 5 anni di prigionia maturò la sua vocazione africana e fece una scelta dura e fedele fino in fondo.

            «Se vuol tornare nell'aviazione, ha subito il grado di sergente e poi potrà fare carriera militare» dissero i carabinieri. Ma lui rispose: «No, voglio salvarmi l'anima e fare qualcosa di buono per i neri dell'Africa».

 

In missione

            Così nel febbraio del '47 entrò nel noviziato di Venegono e fece la prima professione a Gozzano il 24 maggio del '49. Nel dicembre dello stesso anno era già a Kapoeta e qui cominciò la sua dura vita missionaria.

            Così ne parla P. Augusto Pazzaglia: «A Kapoeta ebbe un forte attacco di polmonite e poi in seguito malaria cerebrale. Eravamo insieme con P. Luigi Benedetti. Un giorno sembrava che il fratello si fosse aggravato. Noi due padri andammo in chiesa e scongiurammo il Signore e la Vergine Addolorata di salvarci il fratello. Il Signore esaudì la nostra preghiera e il fratello cominciò a stare meglio».

            E così, un po' triste, passò la vita, segnata dalla croce di quella malaria cerebrale, che lo rendeva fragile davanti agli strapazzi della vita di missione, ma non impediva la sua generosità, industriosità e spirito di servizio nei piccoli lavori di missione o delle case d'Italia.

            La sua vita è passata silenziosa da Okaru, a Lirya, a Barolo, a Sulmona, a Messina, a Napoli e ancora in Uganda a Pajule e poi a Verona.

            Sempre nel silenzio, nell'umiltà, nella testimonianza di povertà, potremmo dire francescana, e con il rosario in mano. La povertà, che talvolta rasentava la spilorceria, ma che era piuttosto la sequela di Cristo nella durezza della croce, segnò la personalità di fr. Gaetano. Confezionava da sé le scarpe, magari di legno, indossava indumenti di seconda mano e diceva: «Sono sempre vissuto di roba trovata e mi sono trovato benissimo». Ecco il ricordo di qualche confratello. P. Pietro De Angelis: «Ha lasciato in me l'impressione di un buon religioso servizievole e laborioso».

            P. Lino Spagnolo: «Veramente si poteva dire di lui che incarnava la santa povertà in tutta la sua interezza ».

 

A Verona

            Gli ultimi anni li passò a Verona, incaricato del museo; accompagnava le comitive, rivivendo la sua voca· zione missionaria e prestandosi a questo servizio, talvolta faticoso per la sua età e i suoi acciacchi, soprattutto nelle fredde e umide mattinate d'inverno. Una delle sue ultime consolazioni fu il pellegrinaggio a Lourdes, nel 1977, il viaggio fu duro, perché non trovò un posto conveniente, ma non sentì il peso di restare tanto a lungo, con il rosario in mano, davanti alla grotta. Tornò con la consolazione spirituale di chi è pronto al grande incontro d'amore. Su un foglio di carta che teneva sul banco della falegnameria, dove di tanto in tanto andava a scolpire, aveva scritto le parole della canzone: «Andrò a vederla un dì». E a un confratello confidava: «Mai come adesso ho capito la bellezza di questa canzone. La canticchio tante volte al giorno ».

            In aprile di quest'anno andò a Pesaro per fare gli esercizi spirituali, ma dovette interrompere il corso perché colpito da insufficienza renale e scompenso cardiaco.

            C'è un aneddoto dell'infanzia di fratel Gaetano, forse immaginario, ma forse significativo per la sua vita. Gaetano aveva dagli 8 ai 10 anni quando morì un suo compagno di giochi: Giovanni. Questa morte fu quasi traumatica per Gaetano e spesso se ne stava triste ed assorto. Un giorno, come in sogno, vide sul prato, vicino alla sua casa, una Signora che teneva in braccio il suo amico Giovanni. Erano «belli e sorridenti ».

            Quell'episodio lasciò in lui un intenso desiderio di andare in paradiso. Senz'altro la Signora è venuta la notte del 14 maggio 1978, festa di Pentecoste, per stare insieme per sempre.

Da Bollettino n. 122, ottobre 1978, pp.73-74

*****

"Hai mai provato a sporgerti su un burrone per guardare giù, e sentire uno alle spalle che all'improvviso ti fa bau afferrandoti per le braccia?" Con que­sta frase immaginosa fratel Gaetano Salata tentò di descrivere la sensa­zione che aveva provato passando dalla vita militare al Noviziato.

"Sotto la naja, e in modo parti­colare durante gli otto anni di pri­gionia in Kenya, la parola d'ordine era farla franca. L'uomo doveva es­sere volpe, gatto, topo, tutto... Per non collaborare con gli inglesi che ci tenevano prigionieri e ci faceva­no scavare buche per poi riempirle, mi diedi per malato. Inventai una strana malattia al braccio: bastava che qualcuno mi toccasse l'arto per farmi tirar fuori urla disperate. Fui sottoposto a controlli e visite di vari medici, ma nessuno riuscì a diagnosticare il mio male (che non esisteva). Alla fine fui esonerato dal lavoro. Se avessero scoperto che era una farsa mi avrebbero messo al muro".

In Noviziato a Gozzano in provincia di Novara, Gaetano imparò che con Dio non occorre essere né volpe, né gatto, ma solo topo per farsi afferrare totalmente da Lui.

Dura preparazione

Come mai questo reduce, all'età di 32 anni e dopo 14 di vita militare, decise di farsi missionario comboniano? Cominciamo dall'inizio.

Vestenanova 1914, in quell'anno in contrada Salata il 12 ottobre nasce Gaetano, figlio di Ilario Arcangelo e di Massalongo Apollonia. Viene battez­zato il giorno dopo la nascita. E il terzo di undici fratelli e sorelle, Gaetano, già da bambino, percorre tutti i giorni i circa due kilometri che separano la sua casa dalla chiesa e dalla scuola.

È un ragazzine intelligente e ricco di fantasia per cui, al termine delle elementari, i genitori gli fanno frequentare un corso di disegno e di scultura.

Ogni mattina, Santa Messa alle ore cinque, poi via attraverso i boschi percorrendo otto kilometri, con un pezzo di pane in tasca e dissetandosi alle sorgenti, pur di frequentare quella scuola. Che il giovane abbia delle inclinazioni artistiche è chiaro. Spesso lo si sorprende con un pezzo di legno in mano, un sasso o una scorza d'albero in silenziosa contemplazione. In quegli oggetti informi egli vede una testa, un volto, un paesaggio. C'è solo il disturbo di prendere il coltello e mettersi a incidere finché il capolavoro nascosto balza fuori.

Da missionario, fratel Gaetano eseguirà molti lavoretti del genere, che donerà agli amici e benefattori.

A 18 anni Gaetano parte volontario arruolandosi nell'aeronautica. "Quando guardavo le aquile nel cielo, o anche i semplici passerotti che sfio­ravano i tetti, mi dicevo: ‘Chissà che bella emozione si prova a volare!’ Così presi la decisione".

Siamo nel 1932. Bolzano, Livorno, Capua, Roma... Diventa primo aviere scelto montatore. Nel 1935 parte per l'Africa: Addis Abeba. L'Italia di Mus­solini vuole allargare i confini dell'Impero. Ma invece di un impero, Gaetano "conquista" un campo di prigionia in Kenya, nel posto esatto dove oggi sorge la missione comboniana di Gilgil. E vi rimane undici anni, fino al 1946.

"Appena arrivati in Etiopia, il nostro capitano ci fece costruire un rifu­gio antiaereo che doveva essere a prova di bomba. Eravamo orgogliosi del lavoro compiuto. Ma ecco arrivare i bombardieri inglesi: "Compagnia nel rifugio!", urla il capitano. Poi si ferma, rimane soprappensiero un attimo, e quindi: "No, fermi tutti dove siete!" Restiamo sotto i cespugli. Una bomba ad alto potenziale centra in pieno il nostro rifugio e lo disintegra. Ci guar­diamo in faccia, ci abbracciamo. Qualche volta Dio parla anche attraverso i capitani!"

Voglia di tornare

Scampato questo pericolo però Gaetano fu fatto prigioniero dagli inglesi e molto lunga fu la sua permanenza in questo campo di prigionia, ma la rese meno monotona e pesante dedicandosi a qualche lavoretto. "Costruivo accendini, statuette, scarpe e cento altre cose che regalavo ai commilitoni o scambiavo per un supplemento di cibo. In questo modo mi attirai la sim­patia dei compagni e degli inglesi i quali, bisogna dirlo, ci trattavano con umanità".

Il cappellano capisce subito che il prigioniero Salata ha cuore buono e sentimenti miti, perciò lo sceglie come suo aiutante e sagrestano. "Qualche volta il cappellano mi portava fuori dal campo. Fu così che ebbi modo di incontrare e conoscere gli africani. Mi colpì la loro situazione, specialmente quella dei ragazzi e dei vecchi che vivevano nella massima povertà e ab­bandono. Ai primi portavo qualche giocattolo confezionato con le mie mani, ai secondi un po' di cibo o di tabacco datomi dai compagni in cambio dei miei lavoretti; più stavo con i neri, più sentivo di amarli".

Poco alla volta, questo amore per gli africani penetra a fondo nel cuo­re del prigioniero... Perché non po­trebbe donar loro il resto della sua vita? È una domanda che Gaetano
si pone sempre più spesso. L'origine della vocazione missionaria di fratel Salata va cercata proprio qui: la povertà e l'abbandono degli africani che incontrava ogni giorno ai mar­gini del campo di prigionia, e con i quali si sentiva in sintonia special­mente per quel vivere la sua triste condizione di prigioniero.

Rimpatriato nel 1946, dopo undici anni di assenza, Gaetano rimane mortificato nel costatare le disastrose conseguenze della guerra anche nel suo sperduto paesello. Quasi tutte le case sono state date alle fiamme. For­tunatamente la sua abitazione, nascosta nel bosco, è rimasta intatta e i suoi cari stanno bene. La vita potrebbe ricominciare. Ma no!

Un mattino si presentano alla casa dei Salata due carabinieri. "Ecco qua - dicono - se Gaetano vuole tornare nell'aeronautica, gli verrà conferito im­mediatamente il grado di sergente, e potrà continuare la carriera militare".

"Voglio tornare in Africa, non per l'esercito italiano ma per gli africani", risponde senza esitare Gaetano. Poco dopo entra nel noviziato dei Missionari Comboniani.

Uno di noi

Il 9 settembre 1949 Gaetano si consacra a Dio per le Missioni e parte per il Sudan meridionale. Qui cominciano i guai. Così ne parla Augusto Pazzaglia: "A Kapoeta Gaetano ebbe un forte attacco di polmonite e di malaria cerebrale. Improvvisamente sembrò aggravarsi. Io e Padre Benedetti andam­mo in chiesa a scongiurare il Signore e la Madonna Addolorata di salvarci il Fratello. Il Signore esaudì la nostra preghiera". Ma quella malattia segnò per sempre la vita di Fr. Gaetano e lo rese fragile agli strapazzi. Non gli impedì mai, tuttavia, di essere generoso e servizievole con tutti.

Nessuna grande opera esteriore porta la sua firma, non brillò nep­pure come cacciatore e le sue "av­venture" quasi zero. "Solo una volta mi trovai una vipera in tasca. Lasciai cadere i calzoni e scappai in mutan­de", racconta ridendo.

Questa sua vita di silenzio, di po­vertà, di sofferenza e di preghiera (nei momenti liberi aveva sempre il rosario in mano), lo rese caro agli Africani. "Era uno di noi - afferma un catechista. - Entrava nelle nostre capanne, parlava la nostra lingua, mangiava i nostri cibi, capiva i no­stri dolori, partecipava alle nostre gioie... Abuna Gaetano, insomma, non era uno straniero. Con i suoi giocattoli divertiva i nostri bambini e si divertiva anche lui. Non credo di esagerare se gli applico le parole di San Paolo; "Si è fatto in tutto simile a noi". Questo per noi africani vale più delle cattedrali che, voler o no, ci ricordano i nostri limiti".

Fratel Gaetano osservava attentamente gli africani e stimava la loro ca­pacità. "Mi accorsi che le loro capanne di paglia e fango potevano essere confortevoli; alcuni sistemi di caccia e di pesca erano davvero geniali.

Per non parlare poi dei valori morali quali l'ospitalità, il rispetto degli anziani, lo spirito di corpo che lega i membri della tribù, il sapersi accon­tentare del necessario. Quante cose noi europei avremmo da imparare dagli africani!"

Lo specchio della vita

Ritornato in Italia, trascorre gli ultimi anni come accompagnatore dei visi­tatori nel museo africano di Verona. Pur trovandosi in un paese del benesse­re, continua a confezionarsi da sé le scarpe, magari di legno, e indossa vestiti di seconda mano. Ad un confratello che lo invita a procurarsi indumenti più decenti, risponde: "Sono sempre vissuto di roba trovata e mi sono sempre trovato benissimo". Anche questo è un aspetto del suo sforzo di vivere quella povertà che per tanti anni aveva condiviso con gli africani.

Nei momenti di attesa davanti alla porta del museo leggeva la Bibbia.

Passavo da questa scala tutte le mattine e spesso mi fermavo a scambiare due parole. Un giorno esclamai: "Gaetano, siamo di Bibbia questa mattina!" "Eh sì - mi rispose - questo è il libro che mi piace di più perché è la storia del­la mia vita". Lo guardai perplesso. "Sì - continuò - sono io Abramo quando credo, sono io Mosè quando faccio qualche cosa per gli altri, sono Giuda quando vengo meno ai miei patti con il Signore... Questo è lo specchio della mia vita".

Durante gli esercizi spirituali a Pesato è colpito da male al cuore. All'ospe­dale di Verona, dove viene ricoverato, la suora che lo assiste dice ai presenti: "Mi raccomando, di tanto in tanto bagnategli le labbra con l'acqua, perché lui non chiede mai niente". Gaetano sta andando incontro alla morte con quella serenità tutta cristiana in cui anche questo momento della vita di un uomo è visto come un qualcosa di "naturale", com'è naturale il respirare, il vivere, l'incontrarsi e l'amare.

Spirò all'una di notte del 14 maggio 1978, giorno di Pentecoste, nel si­lenzio, senza dolore, appoggiando la testa sulle braccia della sorella Suor Antonilla, dopo aver stretto la mano e sorriso ai presenti e ai confratelli che erano venuti a trovarlo".                P. Lorenzo Gaiga

Da Don Gioacchino Gaiga, La stagione benedetta, gbe / Gianni Bussinelli editore, Vago di Lavagno 2013, pp. 42-50