In Pace Christi

Stefani Aristide

Stefani Aristide
Geburtsdatum : 08/01/1932
Geburtsort : Lendinara RO/I
Zeitliche Gelübde : 09/09/1951
Ewige Gelübde : 09/09/1955
Datum der Priesterweihe : 26/05/1956
Todesdatum : 30/11/1992
Todesort : Roma/I

Era il 25 agosto 1943 quando il seminarista Aristide Stefani, che frequentava la seconda classe di liceo nel seminario diocesano di Rovigo, prese la penna in mano e scrisse una lettera al rettore dicendogli con molta chiarezza e senza inutili giri di parole che, "dopo serio consiglio del p. spirituale, ho deciso di abbracciare lo stato religioso e di entrare in un Ordine missionario".

Della faccenda aveva già parlato ai genitori che lo avevano lasciato pienamente libero nelle sue scelte. Neanche un mese dopo, esattamente il 15 settembre 1949, varcava la soglia del noviziato di Gozzano, mettendosi sotto la guida di p. Giovanni Giordani, p. maestro.

Nella lettera di presentazione del rettore del seminario diocesano di Rovigo si legge: "Caro p. Antonio, Duccio Stefani è un giovane di ottime qualità, di bella intelligenza, ed ha una buona formazione spirituale. Puoi dirti felice di accoglierlo e, se corrisponderà, come spero, alla grazia di Dio farà tanto bene". Non deve stupire il tono confidenziale di questo scritto perché il rettore era compagno di seminario di p. Antonio Todesco, allora superiore generale dell'Istituto.

Da una famiglia distinta

Il papà di Aristide era il prof. Ferdinando Stefani chirurgo primario dell'ospedale di Lendinara (Rovigo) dove visse ininterrottamente dal 1926 al 1965, anno in cui si ritirò come pensionato nella "villa veneta" di sua moglie a Negrar. Durante la guerra di Libia, si offrì come volontario perché era convinto della rettitudine della causa portata avanti dal Regime. Rimase anche ferito.

Lo scrivente, che nel 1963 ha subito l'asportazione del rene proprio dal prof Ferdinando, lo ricorda come un uomo integro, tutto d'un pezzo, incapace di andare contro coscienza e di inchinarsi ai potenti del tempo. Questa sua rettitudine gli costò prove, emarginazioni e sofferenze non comuni che, tuttavia, portò con incredibile dignità e senza vane recriminazioni. Sempre lo scrivente, a sua volta salvato dal professore, ebbe la gioia di assisterlo nella sua ultima malattia, amministrandogli i sacramenti e rimanendogli vicino fino alla morte che ebbe luogo a Verona nel 1973. Il figlio missionario, che si trovava in Italia, gli amministrò l'unzione degli infermi e presiedette la concelebrazione funebre. Indubbiamente, la presenza del figlio missionario fu una consolazione per il papà e per la mamma, che si sentirono ripagati del loro generoso sì al Signore.

La mamma, Anna Bertoldi, era donna tanto modesta quanto dotta, una signora d'animo, buona e convinta credente. Messi da parte i suoi studi, dedicò tutta l'esistenza alla formazione dei figli. Il bisnonno materno era il cav. Antonio Bertoldi, già conservatore del Museo Correr di Venezia. La tradizione cristiana del ramo materno fu un'altra componente della formazione cristiana della numerosa prole.

Il ceto sociale della famiglia Stefani, dunque, si può definire piuttosto elevato con ascendenze culturali notevoli. Il nonno paterno del nostro padre Stefani si chiamava Aristide, nome che passerà poi al nipote, ed era professore di fisiologia alle Università di Ferrara e di Padova.

Per quanto riguarda le condizioni economiche la famiglia si può definire benestante o, addirittura agiata, ma non in misura tale da consentire un'esistenza senza bisogno del lavoro del papà.

Ambedue i genitori del futuro missionario, secondogenito di sei fratelli, due maschi e quattro femmine, erano religiosissimi.

Alla formazione religiosa del papà del futuro missionario aveva certo contributo la conversione del nonno, il prof. Aristide, una conversione che ebbe una certa risonanza negli ambienti universitari. Positivista ateo nei primi anni di insegnamento a Ferrara, approda, successivamente, al Trascendente con pubbliche affermazioni sull'esistenza di Dio. Nel 1910 scopre le vitamine e approfondisce gli studi sui rapporti tra i canali semicircolari e il cervelletto, la fisiologia della circolazione e del sistema nervoso, e l'attività diastolica del cuore.

Scrive la nipote Tommasina, sorella del missionario: "Un altro elemento determinante per la vocazione missionaria di mio fratello credo sia stato il racconto della conversione del nonno paterno. Si convertì al Cristianesimo dopo aver letto la Divina Commedia di Dante ed aver approfondito la Summa Theologica di san Tommaso d'Aquino di cui si era fatto fervente ammiratore. Per inciso, di qui il mio nome di Tommasina. Il Signore ha mostrato di gradire la conversione del nonno chiamando al suo servizio come suore una sua figlia". Anche dalla famiglia Bertoldi era uscita una suora e un sacerdote che fu parroco di Garda.

La vocazione

Ancora prima che la famiglia Stefani si costituisse, c'era la presenza di un missionario comboniano. Si chiamava p. Francesco Magagnotto, amico del professore. Egli ha benedetto le sue nozze con la signorina Anna Bertoldi e ha amministrato la prima Comunione ad Aristide, chiamato da tutti Duccio, come diminutivo di Aristiduccio.

In quella solenne occasione p. Magagnotto disse a chiare lettere che quel bambino sarebbe diventato missionario comboniano e sarebbe andato in Africa. Allora nessuno fece caso a quelle parole.

L'avvocato Bertoldi, zio di p. Duccio, racconta questo episodio: "Ero ospite a Lendinara in un pranzo di famiglia. Seduto accanto avevo Duccio che aveva allora 12 o 13 anni. Mai si era parlato prima, almeno in mia presenza, di una sua possibile vocazione missionaria. Ad un certo punto il discorso cadde sul Clero e, dopo aver io illustrato la differenza tra clero secolare e clero regolare e i diversi ordini religiosi, Duccio mi chiese deciso: 'E cosa pensi tu dei missionari?'. Al che io risposi che li apprezzavo moltissimo perché ai meriti del servizio divino e del bene al prossimo aggiungevano quello dei rischi che affrontavano in zone lontane e talvolta selvagge, superando difficoltà e ostilità imprevedibili. Ho notato subito, dalla sua espressione sorridente del viso, che la mia risposta gli aveva fatto molto piacere".

Dopo le scuole elementari, le medie frequentate a Lendinara, Duccio chiese di entrare in seminario per diventare sacerdote. I genitori, però, ritennero prudente fargli frequentare il ginnasio in un ambiente laico per essere sicuri che si fosse maturata in lui una vera vocazione religiosa.

Intanto viveva a stretto contatto con la parrocchia, con i sacerdoti e si prestava per le cerimonie di chiesa come chierichetto.

Il giovanetto era di carattere calmo e riflessivo, tanto da sembrare alle volte timido, ma non lo era. Da bambino era vivacissimo e addirittura spericolato tanto da rasentare qualche volta la temerarietà. In missione farà dei solenni incidenti con la macchina, proprio per questa sua spericolatezza. Fortunatamente sempre senza gravi conseguenze.

La sorella maggiore, Maria Ausiliatrice, scrive: "Amava giochi di movimento e comandava sempre lui. Era vivace e birichino: spesso inventava giochi pericolosi e io ci andavo sempre di mezzo. Una volta mi ha perfino procurato la frattura del menisco. La sua passione era dare spintoni e far volare la gente. Così una volta mi ha buttato giù da un fienile, un'altra volta mi ha buttata nella buca della calce e una terza sotto un carro che scaricava sabbia, sempre senza conseguenze per fortuna.

Finita la quinta ginnasio, Duccio non volle sentire altre ragioni ed entrò in seminario. Egli avrebbe voluto andare subito tra i Comboniani ma i genitori adottarono il metodo dei Piccoli passi, sempre per paura che si trattasse di una infatuazione giovanile.

Novizio

Giunto in noviziato, Il giovane seminarista di Lendinara si mise subito d'impegno. Le note di p. Giordani sono lusinghiere, sia all'inizio e, ancor più alla fine del noviziato. "Di natura buona, ha continuato il noviziato con quella serietà di propositi con cui ha iniziato. Ha una pietà convinta per cui la bontà naturale viene avvalorata dalla virtù.

E' di ingegno buono, ma alle volte va in certe sottigliezze che dimostrano una tendenza più speculativa che pratica. Diventerà un bravo Padre ma forse più da cattedra o da laboratorio scientifico che da... strapazzo. Come carattere è flemmatico fino all'esasperazione, pignolo, lento nelle sue azioni e un po' pedante nel parlare, per cui la sua compagnia risulta pesante. Debbo, però, aggiungere che, rispetto all'inizio, si è molto corretto in questo suo modo di comportarsi, diventando più spigliato e aperto. E' sincero, semplice ed esatto nell'obbedienza. Diventerà un ottimo religioso".

Durante il secondo anno di noviziato Aristide frequentò la terza liceo per cui, dopo la professione religiosa che ebbe luogo il 9 settembre 1951, passò direttamente in teologia che frequentò a Roma presso l'Università Urbaniana ottenendo il baccellierato in Filosofia e in Teologia dogmatica.

Il giudizio di p. Gabriele Bevilacqua per gli anni di Roma, collima con quello di p. Giordani. Il primo, anzi, aggiunge una nota sullo spirito di povertà dell'interessato: "Dimostra cura delle cose affidategli e si accontenta di ciò che gli vien dato".

Nel 1955 Duccio era a Venegono Superiore per i Voti perpetui e per il quarto anno di teologia. Il 26 maggio 1956 venne ordinato sacerdote a Milano dall'arcivescovo mons. Montini.

Destinazione Eritrea ed Etiopia

Data la conformazione mentale che aveva, p. Stefani non poteva fare che l'insegnante. Infatti i superiori lo inviarono con questo compito prima nel seminario missionario di Troia, dove fu anche vicerettore (luglio '56-dicembre'56), poi a Crema, sempre con i piccoli seminaristi, dal 1956 al 1959.

Le testimonianze su questo periodo dicono che p. Duccio era buono (alle volte anche troppo per cui gli scappava la disciplina), cordiale e grande amico dei ragazzi che stimava e capiva nelle loro piccole debolezze.

"Sono piccoli, hanno appena lasciato la mamma, cosa vogliamo pretendere!", si scusava con chi gli diceva di usare qualche volta la mano pesante.

Dobbiamo anche dire che per stare al livello dei ragazzi, p. Stefani doveva fare dei notevoli sforzi, portato com'era più alla speculazione  e povero di quelle iniziative che tanto servono per animare una brigata giovanile. Tuttavia cercò di fare del suo meglio per cui, dove non arrivò la fantasia, arrivò l'amore. E i ragazzi furono contenti di lui.

Nel luglio del 1959 il Padre fu inviato in Inghilterra per lo studio dell'inglese in vista della prossima partenza per la missione. Vi rimase tre mesi apprendendo bene la lingua.

Finalmente realizzò il suo sogno missionario partendo per l'Africa. Fu destinato al Collegio Comboni di Asmara (Eritrea) dove rimase 7 anni come... insegnante.

Nel 1966-67 venne in vacanza e ne approfittò per il Corso di aggiornamento, poi tornò in Eritrea, a Decamerè, per passare quindi in Etiopia, a Dilla e ad Adis Abeba come insegnante, economo e studente  di amarico. Vi rimase fino al 1972.

Una pagina di sofferenza

In una lettera scritta da Asmara nel giugno del 1962 p. Stefani apre il suo cuore al p. generale (Gaetano Briani). Il suo è un cuore profondamente ferito. Nota in chi gli è vicino una fretta esagerata nel mandare avanti vocazioni che non sono tali, una frenesia di nuove costruzioni che contrastano con i ritmi della gente del luogo e che ostentano una potenza e un efficientismo nei cattolici, che possono risultare offensivi nei confronti degli ortodossi. Si lamenta, inoltre della poca considerazione in cui sono tenuti gli insegnanti nel discernimento sugli alunni... Aveva torto? Aveva ragione? Bisognerebbe sentire anche le altre campane. Una cosa è sicura: egli soffrì tremendamente e questa sofferenza si protrasse fino al 1967, anno del suo rientro in Italia per le vacanze.

In un'altra lettera di ben sei pagine del 1968 apre il suo cuore esacerbato al p. Generale con la semplicità di un bambino. Riconosce alcuni suoi errori e chiede scusa, dice che in qualche momento ha dubitato se doveva andare avanti su quella strada o, addirittura, cercare altri lidi, ma poi ha la forza di aggiungere: "E ora, pur in questa situazione dolorosa, amo il posto dove sono. O Dio, per quanto ancora tu mi vuoi bastonare? Tu conosci la via della mia gioia. Questa, Padre, è la mia preghiera ora".

P. Briani, solitamente asciutto nelle sue risposte, s'intrattiene a lungo con lui, lo conforta e aggiunge: "Uno sfogo fa bene e quando senti la croce pesare di più scrivimi ancora e mi farà piacere, non perché goda della croce, ma del sollievo che provi. Apprezzo la tua semplicità che ti avvicina  ai fanciulli per i quali il Signore aveva una speciale predilezione. Chiedi alla Madonna che ti aiuti con la sua grazia; ella che è la nostra mamma, certamente non ti lascerà solo nel combattimento".

Una nuova luce era entrata nell'anima di p. Aristide e la sua lettera di risposta fu un inno alla bontà del Signore che prova coloro che ama. "Prendo la croce così come il Signore la manda, la prendo volentieri perché è la sua croce. Ora guardo serenamente fino infondo alla mia anima e vi scopro il volto di Cristo nell'unione al quale solamente trovo la serenità e la gioia della mia vita. Sì, è solo Cristo che ormai cerco decisamente. Lui mi aiuterà ad accettarmi così come sono e dove sono. Mi aiuti lei, Padre affinché questo "decisamente" sia sempre vero e pieno".

In questo periodo p. Stefani espresse il desiderio di diventare medico per poter rendersi maggiormente utile agli africani. Scrisse e parlò in proposito, ma poi, egli stesso capì che forse troppi anni erano passati dai tempi del liceo. Vedremo, tuttavia, che questo segreto desiderio porterà i suoi frutti in un modo ancor più pieno.

In Malawi

Dopo una seconda breve vacanza in Italia nel 1972, fu assegnato al Malawi che sarà la sua destinazione definitiva. Il 23 agosto 1973 p . Agostoni, sup. generale, gli scriveva: "Ti chiedo di essere disponibile per il Malawi. Come ti ho già comunicato per telefono, abbiamo accettato missioni nel Malawi e ti aspettano". Senza batter ciglio, p. Stefani rispose che andava volentieri in quella nuova terra assegnata ai Comboniani e che, nonostante i 40 anni suonati, si sentiva in forma per imparare una nuova lingua".

Dal 1974 al 1979 fu parroco di Muloza. In questo periodo conobbe don Gino, un sacerdote perugino plurilaureato amico delle missioni e in particolare dei malati di lebbra, morto purtroppo dieci anni fa a 60 anni, la stessa età di p. Stefani. La conoscenza è diventata una stretta amicizia che ha fruttato un gemellaggio tra Montefelcino, di cui don Gianni era parroco, e la missione di Muloza. Da Montefelcino arrivavano a Muloza pacchi con indumenti, cibo, medicinali; arrivavano anche aiuti economici e strumenti per il lavoro. Ma intanto per p. Stefani arrivò il turno delle vacanze in Italia.

Dopo un corso in Inghilterra insieme ad altri confratelli, ripartì nuovamente per il Malawi. Dal 1980 rimase a Chipini, in diocesi di Zomba. Qui i rapporti con Montefelcino e la diocesi di Perugia si moltiplicarono. P. Stefani che di fronte alla diffusione di tante malattie aveva chiesto ai superiori di diventare anche medico intensificò la sua azione sanitaria. Col suo camioncino giapponese portava malati all'ospedale di Zomba, lontano solo 30 Km, ma con strade impossibili. D'accordo con gli amici di Perugia, che nel frattempo si erano moltiplicati, diede vita ad un ambulatorio. Ma l'iniziativa era insufficiente rispetto ai bisogni della gente, per cui il direttore delle Pontificie Opere Missionarie di Perugia scovò la legge che consentiva di aiutare i poveri del Terzo Mondo. E si poterono avere 700 milioni per la costruzione di un ospedale di proprietà della diocesi di Zomba.

Naturalmente l'attività di p. Duccio a Chipini non si limitava solo al settore sanitario ma aveva anche una intensa attività pastorale.

L'ospedale

Questo ospedale costituisce l'obiettivo fondamentale del fraterno rapporto tra la diocesi di Zomba e quella di Perugia.

Attualmente l'ospedale di Chipini è costituito da 30 edifici, vi lavorano 4 suore e un medico fisso con infermieri e infermiere.

Mons. Chamgwera, venuto a Roma per motivi di ministero, giunse a Perugia nel novembre 1990 per ringraziare dei molti aiuti pervenuti alla sua diocesi da parte della parrocchia di Ponte Felcino e di altre parrocchie perugine, specialmente per la costruzione dell'ospedale: la Chipini clinic, posta sotto la protezione di san Giovanni Maria Mizeyi, uno dei martiri ugandesi di professione infermiere. Questa realizzazione, sostenuta da un contributo italiano richiesto con legge 08/02/1983, ha dato il via a molte altre opere di fraternità. A questo proposito è sorto in diocesi il gruppo "Amici del Malawi" che stanno preparando un opuscolo sulla vita e attività di p. Duccio.

Mons. Antonelli, constatando il fiorire di tale rapporto, incoraggiato anche dall'enciclica missionaria Redemptoris Missio ha desiderato conferire all'iniziativa un carisma di ufficialità, accettando l'invito di mons. Chamgwera che con lui concelebrò nella Cattedrale di Perugia, nella festa di Cristo Re, il 25 novembre 1990.

Teniamo presente che p. Stefani, presente a Chipini fin dal 1980, constatando il reale bisogno di un ospedale per la "rigenerazione" degli africani, proprio secondo il Piano di Comboni, si adoperò con tutte le sue forze per tenere i contatti, animare, incoraggiare chi poteva dargli una mano. Il suo bel modo di fare, la sua parola calma e calda, la sua discreta insistenza, fecero arrivare la cosa a buon fine come abbiamo visto.

Da un punto di vista umano, la morte ha colto p. Duccio quando aveva terminato il suo servizio ai malati della zona.

Libero battitore

Come stile missionario, dobbiamo dire che p. Stefani fu un libero battitore, uno che aveva il suo metodo e che portava avanti preferibilmente da solo. I superiori, constatando che i frutti del suo apostolato erano concreti, gli lasciarono mano libera. Ed egli non mancò alla fiducia che era riposta in lui.

La parrocchia di Chipini, fondata nel 1978 e dedicata a santa Lucia, si estendeva su una superficie di 550 Kmq con una popolazione di 22.000 abitanti di cui 7.500 erano cattolici, 7.500 cristiani, 500 musulmani e 7.000 pagani. P. Stefani doveva officiare 4 chiese e 9 centri di preghiera. Era coadiuvato da 32 catechisti e 16 maestri. Tirò avanti da solo praticamente fino alla soglia degli anni 90 quando fu affiancato nel ministero dai confratelli p. Justin Ogen e p. Rosanelli Renato.

Il suo fu un lavoro improbo per i frequenti spostamenti che doveva affrontare con strade precarie e la salute non sempre al cento per cento. Tuttavia incontrò subito la simpatia della gente che lo amava e lo venerava come un vero padre. Egli, nella sua semplicità, si dedicava a tutti con una preferenza verso gli ammalati, gli anziani e i colpiti da malattie particolari come la lebbra e l'AIDS. E' stato anche l'uomo dell'ecumenismo, che aiutava le persone e trattava con esse senza guardare alla religione. Ai suoi funerali che hanno avuto luogo a Chipini il 5 dicembre, il vescovo di Zomba che presiedeva la celebrazione eucaristica ha fatto un lungo resoconto dell'attività che il padre ha svolto come parroco della zona insieme alla sua équipe di collaboratori. Anche altri hanno preso la parola, fra i quali un pastore protestante, per sottolineare la grande disponibilità di p. Stefani nell'aiutare tutti senza riguardo alla religione o allo stato sociale.

Confidenza in Dio

P. Giuseppe Buffoni suo grande amico e confessore considerava p. Stefani come "uomo del consiglio", colui cioè che prima di prendere una decisione rifletteva molto e poi normalmente dava il suggerimento giusto. Ma era anche l'uomo della carità. Quanti malati ha portato all'ospedale! Sempre di corsa, di giorno e di notte. A chi gli obiettava che stava conducendo un'esistenza impossibile, rispondeva: "E' la mia vita missionaria". Ma era anche l'uomo della preghiera. Pur fra le tante attività, di tanto in tanto diceva: "Non rubiamo tempo alla preghiera".

Spulciando tra le lettere di p. Stefani troviamo delle espressioni che ce lo mostrano come l'uomo della confidenza in Dio. "Quelle piccole difficoltà che sempre non mancano a nessuno, ci aiutano a vedere la realtà nella luce del Signore, che è poi la luce della croce" (16/12/1986).

Dopo essersi lamentato di certe cose a riguardo della sua missione nel Malawi, così concludeva: "Ma il Signore sa a sa provvedere al meglio. Non ho scelto me stesso, ho scelto la Chiesa e nel Signore siamo tutti uniti anche se i pareri sono diversi" 827/12/1986).

Sembravano che le cose fossero andate non per il verso giusto, invece: "Tutto ciò è bene, perché si vede più chiaro che quanto facciamo è nelle mani di Dio e i risultati sono conformi ai suoi piani, non ai nostri... Certe vicende non volute, o anche sofferte, alla fine si vede che sono state condotte dal Signore. Ed è bello riconoscerlo Ciò che importa è vivere uniti in Cristo e nel suo spirito. Questo è bello" (09/10/1987).

"Certo, tutto è dono del Signore: la vita, la serenità, la croce, e soprattutto il riconoscerlo vivo in noi e sapere che ci ama"(03/02/1988).

"Io vedo sempre, ogni giorno, quanto l'opera che facciamo sia sempre più del Signore che ci ama, che ci manda, ma è lui che fa. E' bello così. Nel Magnificata Maria dice: ''Ha guardato la piccolezza della sua serva''. Bisogna essere piccoli nella mani di Dio per fare qualcosa per lui... Nel 1992 prevedo che sarò in Italia per qualche controllo medico, per tenermi un po' in forma perché qualche accenno di irregolarità me la porto dietro da 20 anni... denti, ginocchi, pressione del sangue, colesterolo, zuccheri... e chi più ne ha più ne metta" (13/06/1991). Queste parole suonavano come la campana a morto.

Durante l'estate fece gli Esercizi spirituali a Pesaro, dettati da p. Chiocchetta. Si notava che non doveva sentirsi bene perché  mangiava poco e cose scondite. Richiestone il motivo, rispose che aveva troppe cose che non funzionavano bene nel suo corpo, tuttavia voleva tornare in missione al più presto.

Quando la sorella Maria Ausiliatrice lo salutò prima di partire, considerando il suo imminente viaggio in Africa, gli disse: "In Africa tu? Campa cavallo; non ci arriverai!". Sfortunatamente gli avvenimenti dimostrarono che aveva ragione. Tuttavia non si può dire che i superiori o il Padre stesso abbiano commesso delle imprudenze, visto che è morto in ospedale, dove era andato per l'ultimo controllo.

Come un testamento

Il 13 novembre 1992, quindi pochi giorni prima della morte, p. Stefani scrisse una lettera a mons. Mario Ceccobelli e ai suoi amici di Ponte Felcino, che, post mortem appare come il suo testamento. Ne pubblichiamo qualche stralcio.

"Prima di partire per salutarci, un grazie alla Madonna per avermi fatto vivere tra voi in questi mesi. Voi stessi di Ponte Felcino e tu in particolare siete stati un dono per me; e soltanto il ricordo di ciascuno mi fa rivivere il Signore, perché sempre penso di essere mandato da lui a Chipini e ognuno di voi mi ricorda tutti.

Ora penso a quelli che sono là: p. Renato, i catechisti, le suore, tutti i loro collaboratori, la gente, i Capi e i tanti bambini che riempiono di vita con le loro voci. Penso agli ammalati, ma soprattutto a quanto sono dimagriti, scarni per la fame e tuttavia sempre sereni.

Approfitto per esprimere la mia gioia di vivere unito a voi e di essere stato accolto a Ponte Felcino. La vostra fede, l'attaccamento alla Chiesa che ci unisce, fa vivere anche me e tutti di Chipini il dono dello Spirito santo e ci fa crescere nel Signore. E' un ringraziamento dato a Maria perché per lei noi viviamo la vita di figli di Dio, di Gesù fatto uomo e col dono dello Spirito santo che è in lui siamo uniti al Padre per quella giustizia di Dio che ci viene dal sangue di Cristo e ci fa fratelli.

Grazie a tutti dei tanti aiuti e offerte per Chipini e per tutte le premure perché io stessi bene in questi mesi in Italia... La mia messa, a parte le intenzioni degli offerenti, è sempre anche per voi oltre che per Chipini; e a Chipini lo ripetono ed essi pure vi ricordano spesso nelle loro intenzioni di preghiere. La Chiesa del Signore sia vita, gioia, giustizia, pace, amore per tutti".

Fine inattesa

Domenica 29 novembre, da Perugia dove era ospite di un sacerdote tanto amico, si recò a Roma, da solo, in macchina. La mattina di lunedì 30 andò pure da solo in auto al Policlinico Gemelli per una visita dal cardiologo prof. Maseri, dato che da un po' di giorni aveva la pressione alta. Arrivato in portineria e chiesto del professore, si sentì male. Immediatamente soccorso, venne portato nel reparto rianimazione del Pronto Soccorso. Ma quando vi giunse non poterono che constatare il decesso. La polizia, in base ai documenti che aveva con sé, avvisò i Missionari Comboniani di via San Pancrazio e così, subito dopo p. Zeno Piccotti si recò personalmente presso il Policlinico  per iniziare le pratiche occorrenti.

La salma è stata consegnata il giorno dopo, primo dicembre, alle ore 14,00. Alle ore 18,00 ebbero luogo i funerali nella cappella della Casa generalizia dei Comboniani alla presenza di più di 30 sacerdoti concelebranti, di una folta rappresentanza delle Suore Comboniane e di molti amici. Tra i concelebranti c'erano tre sacerdoti nativi del Malawi. Uno di essi, che aveva conosciuto il Padre fin dal seminario, diede una commovente testimonianza.

Successivamente la salma è stata traslata a Verona dove, alle ore 15,00 di mercoledì 2 dicembre, è stata celebrata la liturgia funebre nella cappella di Casa Madre. Padre Stefani ora riposa nella tomba dei Missionari Comboniani nel cimitero monumentale di Verona, non lontano dalla tomba dove si trovano i suoi genitori e i membri della sua famiglia.

P. Duccio Stefani ci lascia la testimonianza di una vita donata alla causa missionaria, senza risparmio di energie, senza calcoli, motivata solo da un grande amore agli africani, dei quali si sentiva fratello e amico, e a Gesù Cristo per il quale ha bruciato la sua ancor giovane esistenza.                    P. Lorenzo Gaiga

Da Mccj Bulletin n. 179, luglio 1993, pp. 65-72