In Pace Christi

Varotto Augusto

Varotto Augusto
Geburtsdatum : 20/05/1907
Geburtsort : Voltabrusegana (PD)/I
Zeitliche Gelübde : 08/05/1933
Ewige Gelübde : 19/03/1939
Todesdatum : 08/04/1998
Todesort : Verona/I

Il funerale di fr. Augusto Varotto si svolse nella cappella di Casa Madre il Venerdì Santo 10 aprile, quindi senza la celebrazione della santa messa, ma ci furono letture, preghiere e una bella commemorazione fatta da fr. Aldo Benetti che condivise con lui tanti anni di missione in Egitto, anzi lo sostituì in alcuni uffici riguardanti la conduzione della scuola.

Al rito funebre era presente l’unica superstite della famiglia Varotto, suor Solomea, elisabettina. Pur con i suoi 89 anni (era la più piccola della famiglia) poté rilasciare una bella testimonianza riguardante il Fratello e la sua famiglia. “Il papà si chiamava Rinaldo e la mamma, quella vera, Rosa Vianin. Augusto era il terzultimo di cinque fratelli, tre maschi e due femmine. Una di queste morì a nove anni e l’ultima, di due anni più giovane, sono io”. “Che lavoro faceva il papà?”. “Era falegname, non in proprio, ma come dipendente della ditta Boschetti, ed era anche il custode del palazzo dei padroni. Quando, durante la guerra 1915-18 andarono a Portogruaro, il mio papà li seguì e poi li assistette anche in morte. Era, insomma, l’uomo di fiducia. Ma trovò anche il tempo di fare il sagrestano della parrocchia dell’Arcella, officiata dai frati, dove abitavamo. Anche Augusto fece il sacrestano, prima di farsi missionario, a 22 anni di età”. “Faceva qualche altro lavoro il nostro Augusto?”. “Sì, dopo le elementari fu assunto coma garzone e poi operaio in una pasticceria di Padova. Scherzosamente diceva che quel lavoro gli dava la possibilità di fare parecchi fioretti”. “Ha detto che la mamma, quella vera, si chiamava Rosa. Ne avevate anche un’altra di mamma?”. “La nostra mamma morì quando eravamo piccoli. Io avevo due anni e Augusto quattro, gli altri poco di più. Ebbene, prima di morire la nostra mamma fece due cose: la prima, rivolgendosi al papà disse: ‘Io devo morire. Tu non fare il lutto per me, ma va in cerca di una mamma per i miei bambini’. Poi, rivolgendosi a noi disse: ‘Appena incontrerò la Madonna, le dirò che vi chiami tutti al servizio di Dio’. Fu esaudita. Infatti, uno dopo l’altro, siamo partiti per il convento. I primi due, p. Carlo e p. Francesco, si fecero frati (p. Carlo fu maestro dei novizi per 20 anni), io divenni suora e Augusto missionario. P. Francesco è andato missionario in Albania, chiamato da Benito Mussolini.

Allo scoppio della guerra, ha mandato a casa tutti i frati della comunità ed è rimasto solo a reggere la parrocchia. Nei momenti di pericolo a causa della guerra, vedeva una vecchietta che gli diceva: ‘Francesco, corri nel rifugio’. E poi spariva. Certamente era la nostra mamma. Alla fine della guerra p. Francesco andò missionario in Brasile. Il papà si risposò con Maria, una donna che ci amò e ci allevò come avrebbe fatto la prima mamma. Tanto che quando è morta, sull’immaginetta mio fratello più anziano scrisse: ‘Sei stata per noi la mamma, come ti abbiamo sempre chiamato. Ti ringraziamo per il bene che hai fatto a noi e a papà’”. “E Augusto, perché ha scelto i Comboniani”.

“Perché amava molto le missioni. Pensi che quando raccoglieva l’elemosina in chiesa, diceva alla gente di ricordarsi anche delle missioni”. “Però hanno missioni anche i frati”.

“Sì, ma lui aveva incontrato p. Abbà nella chiesa di Santa Agnese di Padova ed era stato affascinato dall’idea dell’Africa. E poi, vivendo con i frati, aveva notato qualche loro difetto, per cui pensava che i Comboniani fossero più santi”.

“Ha avuto qualche difficoltà da parte della famiglia?”.

“Difficoltà? Moltissime. Senta come sono andate le cose. Quando parlò di partire, i due fratelli più vecchi, già sacerdoti francescani, arrivarono a casa col Diritto Canonico in mano dimostrando che Augusto non poteva partire perché aveva l’obbligo di assistere i due vecchi genitori. Tutt’al più sarebbe potuto partire alla loro morte.

Il papà, sentendo questi ragionamenti, saltò in piedi e disse: ‘Cosa? Vi sembra giusto che io debba vivere con davanti agli occhi uno che mi dice ‘muori’ per andare a farsi frate? E no! Datemi qua carta e penna e io firmo subito il mio consenso alla partenza di Augusto per le missioni... A noi penserà la Provvidenza’. E così fu.

Debbo aggiungere che Augusto era già stato a Verona a parlare col Padre Generale per vedere se lo riceveva, e questi gli aveva detto che lo avrebbe accolto molto volentieri, ma col consenso dei genitori.

Io, che mi chiamavo Maria, feci la professione tra le Suore Elisabettine a 17 anni. Quando il papà sentì che mi avevano dato il nome di Solomea (una santa regina polacca), mi disse: ‘Hai sentito che nome ti ha dato il Signore? “Solo-mea”, cioè solo di Gesù, però un poco sei anche mia’. Ebbi la grazia di assistere i genitori nei loro ultimi giorni per cui se ne andarono da questo mondo sereni e contenti, constatando che chi si fida del Signore non resta deluso”.

Il dialogo con questa suorina quasi novantenne, ma ancora vivace, che guardava il fratello disteso nella bara con quella serenità di chi sa che aveva raggiunto la meta alla quale essa stessa agognava, faceva una gran tenerezza e costringeva i presenti a toccare con mano quale fortuna sia riservata alle anime vissute nel costante desiderio di amare e servire il Signore.

Verso il noviziato

Fra’ Francesco dell’Olio, ministro dei Frati, scrisse il 14 novembre 1930: “Augusto Varotto da molti anni compie l’ufficio di sacrestano all’Arcella. Il parroco lo tiene molto caro perché è diligente, fedele e valente. Più volte ha coperto l’ufficio di assistente, in luogo del parroco, al Circolo cattolico. Ha tenuto sempre un contegno corretto e, ogni giorno, riceve la comunione. E’ un giovane ottimo sotto ogni aspetto e da tempo manifesta il desiderio di farsi fratello missionario. Unica difficoltà: ha i genitori anziani e soli perché due dei suoi fratelli sono sacerdoti nel nostro ordine e la sorella è suora elisabettina”.

Commovente anche la dichiarazione dei genitori rilasciata dall’Arcella l’11 dicembre 1930: “Noi, tuoi genitori, non abbiamo nessuna difficoltà a permetterti di entrare nell’Istituto dei Figli del Sacro Cuore. Dichiariamo che nulla esigeremo da te qualora per infermità o vecchiaia non potessimo più guadagnarci il necessario per vivere. Il Signore ti benedica e ti conservi sempre a sua maggior gloria per rivederci nel santo Paradiso. Tuo papà Rinaldo e tu mamma Gastaldello Maria”.

Il primo gennaio 1931, Augusto Varotto era nel noviziato di Venegono Superiore. Il p. Maestro disse che “è già novizio perfetto al momento della sua entrata”.

Emessi i Voti l’8 maggio 1933, Anno Santo - e fr. Varotto lo sottolineò - venne immediatamente inviato a Troia come sacrestano della chiesa della Mediatrice. Fece in tempo a stare un anno insieme a p. Sartori dal quale assorbì la devozione alla Madonna e un incremento di spirito missionario.

Dal 1935 al 1937 fu a Trento come cuoco del piccolo seminario e, dal 1937 al 1938, ancora cuoco ma in Casa Madre a Verona. Le testimonianze di questo periodo, ma si ripeteranno anche in Africa, sono: “Ottimo Fratello, capace e buono che sa fare di tutto. Ogni sua azione, anche la più piccola, porta il segno di un grande amore. E ciò fa bene a che vive con lui”.

Ma gli è stato rilevato anche un piccolo difetto: “Ama sostenere il suo parere”. P. Fochesato, però, spiega questo giudizio: “Ciò dipende da un senso di zelo molto comprensibile, ma che esigerebbe una più accurata moderazione”. Insomma, fr. Varotto era un uomo di carattere e, di questo, ringraziamo Dio.

67 anni di missione

Nell’omelia alla messa fr. Aldo Benetti ha sottolineato i vari aspetti della spiritualità e della missionarietà di fr. Augusto Varotto. Dei 67 anni passati in Congregazione, 60 furono vissuti in Egitto (Helouan e Assouan) e, otto, in Libano (Zahle) (1976-1984) che era collegato all’Egitto come provincia religiosa.

Fr. Varotto contribuì a creare una comunità serena, dove la vita trascorreva lieta, senza stress, per i religiosi. E ciò giovò anche alla salute. Basti dire che p. Binda campò 92 anni, p. Minoli 92, fr. Bonomi 93, fr. Augusto 91, fr. Cremona ne ha 86 e sta ancora bene per la sua età. Segno che la vita serena, in cui ci si vuole bene, si scherza e si sta allegri,allunga la vita.

Fr. Varotto, come gli altri confratelli della sua comunità, era un uomo sempre contento e se aveva una preoccupazione (ma non era una preoccupazione) era quella di rendere altrettanto contenti gli altri.

A questa caratteristica univa un intenso spirito di preghiera, ma anche la sua preghiera era serena, distensiva, rilassante. Nell’abbandono a Dio trovava la sua pace, non solo quella dell’anima, ma anche del corpo. Conservava gelosamente un libriccino di preghiera che era stato del suo papà e che usava assiduamente, dopo aver recitato le preghiere proprie della Congregazione e quelle della Liturgia.

Il suo cuore era quello di un ragazzo, senza malizia, senza cattiveria, spontaneo e gioioso. Amava raccontare barzellette, fare giochetti e scherzi innocenti che tanto successo ottenevano tra i ragazzi della scuola. “Fino alla fine - scrive fr. Benetti - Varotto conservò il cuore di ragazzo, per questo si trovava a suo agio con i ragazzi”.

“A distanza di anni - continua Benetti - quegli studenti, ormai uomini maturi, non ricordano forse le formule algebriche o le regole matematiche, ma la bontà e la gioiosità di fr. Augusto sì”.

Come carattere era forte, alle volte quasi troppo. Ma prima di tutto con se stesso. Quando, per esempio, hanno rifatto le stanze con il bagno in camera, non ha voluto andarvi. Egli diceva: “Quando tutta la gente avrà la camera con bagno, allora la userò anch’io. Per il momento mi basta quello fuori, come fanno i poveri”.

“Sì, Padre”

L’unica obbedienza attraverso una lettera, arrivò al nostro Fratello il 13 dicembre 1976 quando il p. Generale lo invitò a trasferirsi in Libano in sostituzione di fratel Muhnir che, essendo sudanese, poteva entrare in Sudan. “Forse Gesù vi chiede un sacrificio, ma da voi è sicuro di ricevere una risposta positiva”, gli aveva detto il Superiore Generale.

La risposta fu immediata, 20 dicembre 1976. “Rev.mo Padre, è la prima volta che ricevo l’obbedienza per iscritto, quindi è mio dovere di dare il mio consenso pure per iscritto. E le dico veramente di tutto cuore: ‘Sì, Padre’, sicuro che il Signore mi darà la grazia di compiere anche in Libano il mio dovere”. Poche parole, ma che delineano l’uomo, il santo.

La sorella, suor Solomea, invece, scrisse al Padre Generale esprimendo la sua paura perché in Libano, in quel periodo, c’era la guerra. “Siamo rimasti noi due soli... Ma non dica nulla a mio fratello di questa lettera, altrimenti mi rimprovera... ma lei capisca il mio sentimento fraterno...”.

Il Padre le assicurò che la sede dei Comboniani era lontana dalla guerra, quindi il Fratello poteva andare liberamente. “Saremmo noi i primi a proibire a un confratello di andare dove c’è pericolo, s’immagini, dunque”. In realtà una granata cadde proprio nella casa dei missionari e ridusse in frantumi una grande statua della Madonna costruita da fr. Varotto. “Ecco la mamma che si è sacrificata per i suoi figli”, ha commentato, e poi l’ha ricostruita inserendo i pezzi di granata.

Un’altra volta una pallottola gli trapassò il letto. Egli, senza scomporsi, spostò il letto in modo che fosse fuori da una possibile traiettoria.

Lavoratore e artista

Se le labbra erano mosse da un’incessante preghiera, le mani erano sempre in movimento per eseguire piccoli e grandi lavori, secondo le necessità della casa e della comunità.

Ad Helouan, per esempio, ha eseguito una Via Crucis in vetro mosaico che è riportata anche sulla guida turistica come opera da visitare e da ammirare. Il Cireneo che porta la croce è... lui stesso. Altri lavori in vetro si trovano ad Assouan e in altre missioni dove il Fratello è passato. Come otteneva quelle “opere d’arte?”. Raccoglieva i vetri che i ragazzi mandavano in frantumi col pallone, li colorava dietro aggiungendovi la stagnola ricavata da confezione di cioccolatini od altro, e poi li combinava in figure stupende. Così nascevano quadri di Madonne e crocifissi. Lavorando il ferro sono stati ideati lampadari bellissimi che, adornati con bottoni d’oro, ricavati dai coperchi delle bottiglie di coca cola debitamente lavorati con carta stagnola e colore, creano fantasmagorici giochi di luce.

Il suo capolavoro è stata la porticina del tabernacolo di Helouan di cui rimane solo la foto perché i ladri, credendola un tesoro, l’hanno scassinata e rubata.

Per eliminare l’umidità nella chiesa di Helouan, ha creato delle “lastre di marmo” lavorando il gesso mescolato con colore ossidante e ricoperte di una strato di cera. Sono là da più di trent’anni e fanno ancora la loro funzione. P. Capovilla, vedendole per la prima volta e credendo che fossero arrivate dall’estero, rimbrottò il Fratello per l’eccessiva spesa che la comunità avrebbe certamente sostenuta. Ma dovette rimangiarsi le parole quando constatò l’origine di quel “marmo”. Insomma fr. Varotto era artista, pittore, scultore che ha lasciato le sue opere un po’ dappertutto in Egitto. Sua specialità, erano i mosaici fatti con materiale poverissimo e ordinario, come abbiamo sentito.

In uno schema riassumiamo le principali opere d’arte del Fratello: Statua della madonna Cordi Jesu, Busto del Comboni dalle Suore a Zamalek, Mosaici nelle chiese di Zamalek, Halouan, Assouan, La grande Via Crucis. Presepi con movimenti e accorgimenti speciali. Anche il Libano costruiva e distribuiva piccole e medie statue...

La Madonna e i musulmani

Fr. Varotto aveva una grande devozione per la Madonna e ne diffondeva la medaglia miracolosa. Era persuaso che la Madonna avrebbe attirato al cristianesimo le masse dei seguaci di Maometto.

Molti musulmani, grazie a fr. Varotto, portavano in tasca la medaglia e l’immagine della Madonna. Un giorno fece anche stampare un foglietto con l’Ave Maria in cui si chiama la madonna “Madre di Dio”.

“Attento - gli disse un confratello - che ti puoi attirare delle grane”.

“Ma no - rispose - la Madonna mi difenderà”.

Ed ecco che un giorno la polizia segreta intervenne e disse che il Fratello doveva essere espulso per timore che qualche fanatico lo aggredisse e gli facesse del male. Si riuscì ad evitare il provvedimento, ma il Fratello dovette limitare la sua animazione mariana tra i seguaci di Maometto. Egli intanto, per essere più al sicuro, venne “confinato” ad Hassuan. Solo dopo molto tempo poté tornare al Cairo e ad Helouan.

Ebbe a soffrire anche qualche umiliazione da parte dei confratelli. Quando era a Zahale, per esempio, un confratello non italiano, ma che conosceva l’italiano, impose che i consigli di comunità avvenissero in inglese, lingua non conosciuta da fr. Varotto. Egli accettò quell’emarginazione senza protestare e senza andarsene. “Mentre loro discutono, io prego in modo che arrivino a sagge conclusioni”, disse.

In Italia

Dal primo luglio 1996 fr. Varotto fu assegnato alla provincia italiana. “Caro Augusto - gli scrisse il Padre Generale il 18 maggio 1996 - sei andato in Egitto nel 1938, molto prima che io nascessi! Con te lodo il Signore che ti ha concesso così lunghi anni di servizio in terra africana e ti ringrazio di tutto cuore di esserti dato con molta generosità e serenità alla missione. Grazie di tutto e che il Signore ti ricompensi con tanta gioia per vivere questo nuovo momento della tua vita con fede e con speranza”.

P. Giuseppe Picotti l’8 maggio aveva scritto al Fratello: “Vi dico la verità che mi costa molto dovervi dire di restare in Italia dopo le vostre vacanze. Ma fra poco entrerete nel 90° anno e quindi, anche se per ora la vostra salute è buona, il rischio di un peggioramento è alto e noi qui non siamo attrezzati per un’assistenza adeguata... restano qui i frutti splendidi del vostro lavoro che solo Dio conosce, restano i vostri meriti acquistati con tanti sacrifici e con tanta preghiera, resta il bene fatto nascostamente a tante anime... Noi ringraziamo Dio per il dono che ci ha fatto nel farvi stare tanto tempo in questa terra...”.

Anche se oggi si dice che è bene permettere a un confratello di terminare i suoi giorni nella terra dove ha lavorato, sofferto e goduto, perché la vita missionaria è anche gioia, è da apprezzare il gesto di p. Picotti il quale sapeva che in Italia fr. Varotto aveva una sorella che era a lui tanto legata affettivamente e spiritualmente. Questa venuta in patria del Fratello è stata come l’ultima sera tra Benedetto e Scolastica.

Fr. Varotto andò per un po’ di tempo a Rebbio, nella casa per anziani, ma poi, con l’aggravarsi della salute, dovette andare a Verona nel centro Ammalati.

Fuori dalla cronaca

Mercoledì 8 aprile, mentre faceva colazione, il Fratello piegò la testa, depose il cucchiaio e rimase immobile. Il dottore, presente in reparto, immediatamente chiamato, lo prese in braccio e con l’aiuto dell’infermiere lo pose sul letto. Non ci fu niente da fare: l’olio della lampada di fr. Augusto si era esaurito del tutto, proprio fino all’ultima stilla.

“La sua vita - scrive p. Picotti - si può riassumere con due parole: servizio fedele e silenzio. Fr. Varotto fu sempre lontano dalla cronaca, anche dalla nostra cronaca interna, applicato com’era al dovere nella quotidianità.

Alla sua partenza dall’Egitto ebbe lettere di ringraziamento a nome della Chiesa da parte del vescovo Copto-cattolico di Luxor e del Vicario Apostolico Mons. Sampieri. Imparò bene la lingua, tanto che fu in grado di insegnare il francese nella scuola (aveva studiato bene questa lingua durante la prigionia a Gizah e poi aveva conseguito anche il diploma di insegnamento presso il Consolato francese), ma la sua memoria è legata al dono di artista che mise a servizio della ‘catechesi dei poveri’. E’ qui dove si capisce meglio fr. Varotto pittore, scultore e ideatore di mirabili presepi. Tutto doveva far scoprire il mistero del Signore Gesù e della Chiesa. Questo in un paese dall’immaginario religioso molto complesso: non solo per il difficile dialogo con l’Islam, ma per la ricerca di comunione tra le diverse Chiese cristiane operanti nella molteplicità dei loro riti.

Aveva un bel carattere manifestato da un sorriso appena accennato: era umile e gioviale, fedelissimo alla pietà. Ascriviamolo fra i nostri “Fratelli patriarchi” che intercederanno per noi, avviati al terzo millennio”.

La notizia della sua morte, corredata da validi commenti, fu riportata da alcuni giornali egiziani. Cito i due che sono giunti in Italia: “Le Messager” e “L’informateur égyptien”. Lo hanno chiamato: “Modello insigne di umiltà, di pietà e di umanità”.

Dopo le esequie in Casa Madre (senza la santa messa perché era il Venerdì Santo) fu sepolto nel cimitero di Verona.

Ci lascia il ricordo di un confratello sempre contento, pienamente realizzato nella sua vocazione missionaria, felice di aver servito il Signore e le anime nella terra d’Africa come aveva desiderato nei suoi anni giovanili. Che dal cielo ci mandi tanti fratelli come lui.                        P. Lorenzo Gaiga, mccj

Da Mccj Bulletin n. 201, ottobre 1998, pp. 83-90