In Pace Christi

Sterza Gino

Sterza Gino
Geburtsdatum : 25/05/1915
Geburtsort : S. Giovanni Lupatoto (VR)/I
Zeitliche Gelübde : 07/10/1936
Ewige Gelübde : 07/10/1941
Datum der Priesterweihe : 28/06/1942
Todesdatum : 14/04/2000
Todesort : Montebello Vicentino/I

In una lettera del 12 marzo 2000, scritta ad un amico che gli chiedeva l’immaginetta del suo 50° di Messa, P. Gino accennò alla sua infanzia:

“Ti mando ciò che mi chiedi. Fra due anni faremo il 60°. Aiutami a ringraziare il Signore che mi ha scelto mentre ero sperduto tra i prati, gelsi e peschi della campagna veronese occupato a pascolare vacche e centinaia di tacchini affinché distruggessero le cavallette che mangiavano la frutta. Come vedi, un poco come Davide, e come lui senza alcun merito. Sono diventato re. Ma anche tu sei re in forza del Battesimo che ti ha innestato in Cristo. Ti auguro e mi auguro di vivere questa meravigliosa realtà sempre meglio”. Rileviamo subito come l’evangelizzatore P. Gino approfittasse di qualsiasi scritto per catechizzare. Era un aspetto del suo stile. Come lo era anche quello di vedere in tutti gli avvenimenti della sua vita l’opera di Dio, padre buono e misericordioso.

Ultimo di undici fratelli, è nato il giorno dopo l’inizio della prima guerra mondiale in un’umile casetta con la stalla e il fienile nella Corte di Ca’ dei Sordi, che ancora oggi esiste lungo la provinciale che da Verona conduce a Legnago. Quando era a Brescia, ogni tanto andava a trovare i suoi familiari. Una volta volle farsi fotografare davanti alla sua casetta natale, ormai abbandonata e passata in altra proprietà. “Quando ancor oggi passo davanti a questa casetta mi sento commuovere, e nella mia mente e nel mio cuore si accumulano dolci ricordi. Mi rivedo bambino mentre gioco sull’erba rincorrendo le farfalle o estasiandomi davanti ai ciliegi in fiore e penso che il Padre che è nei cieli ha posato su di me il suo sguardo amoroso e mi ha fatto percorrere molte strade di questo mondo… Grazie, mio Signore perché hai scritto per me una storia di salvezza”, scrisse dopo quel viaggio.

“Il rombo del cannone – continuò nel suo scritto - mi cantò la ninna nanna. Un dei ricordi tristi della mia infanzia fu la morte di mio fratello maggiore, Adelino, deceduto a 25 anni di età nel 1921. Io avevo 6 anni, ma ho sempre ricordato il suo volto segnato dalla morte. Tra i campi, la chiesa e la casa trascorsi la mia infanzia. Poi venne la scuola. E qui una dura prova mi attendeva, ma era il Signore che, inconsciamente, mi preparava ad essere suo missionario attraverso la sofferenza e l’umiliazione.

Non riuscivo a capire la divisione. Se ne accorse il maestro, che era un sacerdote, e se ne accorse tutta la scolaresca. E per questo ero deriso dal maestro e dai compagni. Ad un certo punto il maestro divise la classe in tre gruppi: primo gruppo, i beniamini intelligenti e bravi; secondo gruppo, quelli così e così; terzo gruppo, gli asini. Ed io, il più grande di statura, ero il capo degli asini. Per di più ero timido e pieno di paura di apparire in pubblico. Ed ero così alto che tutti mi vedevano! Assaggiai in tutta la sua amarezza l’umiliazione.

Dopo anni, riflettendo su questa triste esperienza, mi sono reso conto che ci fu Uno che ebbe compassione di me, che mi voleva bene e che mi ha esaltato perché tra i 40 e più compagni, non ha scelto i più intelligenti, ma ha scelto me, capo nella fila degli asini.

Quando, dopo 17 anni, il Signore mi concesse di cantare la prima messa al mio paese tra una folla immensa di gente c’erano anche tanti miei compagni di quel tempo doloroso, che mi baciavano le mani. E quando dopo 7 anni partii per la missione, tra coloro che si congratulavano con me c’erano anche coloro che mi avevano deriso. E al ritorno dalla missione, dopo 10 anni di Bassa California, in paese suonarono le campane a distesa e la gente diceva: ‘E’ tornato il nostro missionario dalla Bassa California, facciamo festa grande’. Grazie mio Signore delle prove che mi hai dato, grazie per avermi fatto capire che per tirare il carretto in missione occorreva proprio un asino”.

A 10 anni Gino lasciò la casa natale e, con tutta la famiglia andò a vivere nella campagna di Via Bellette. Frequentò le scuole elementari Ippolito Pindemonte e poi, “per un caso fortuito e provvidenziale - come dice lui - il parroco Mons. Boscaini mi accolse nel suo ginnasietto parrocchiale e vi rimasi due anni”.

Nel seminario diocesano

“Era l’anno 1930, avevo 15 anni, seminarista di seconda ginnasio. Una sera tutti i collegi della città di Verona si riunirono nella Basilica di Santa Anastasia e ci presentarono le diapositive sul Messico martire. Fu così forte l’impatto nel mio spirito che sarei partito lo stesso giorno per il Messico. Chi pensava che il Signore mi avrebbe chiamato proprio in quella meravigliosa terra di martiri?”.

“In mille occasioni, durante la mia giovinezza e anche dopo, l’Angelo custode mi fece sentire la sua presenza e la sua protezione. Con quattro compagni seminaristi in vacanza ci avventurammo sull’Adige in piena a bordo di una fragile barchetta. In un baleno ci trovammo in preda alla furia delle onde. Vedendoci ormai perduti, abbiamo cominciato a pregare i nostri Angeli custodi e, inspiegabilmente, la barchetta puntò verso la riva attraversando le onde che si accavallavano, e ci portò al sicuro”.

Altri episodi costellano l’infanzia di P. Gino: “Amavo i fiori, le piante e gli uccelli. Un giorno raccolsi i piccoli di un merlo che erano appena usciti dal nido e mi avviai verso casa tenendoli tra le mani. Ma subito fui colpito da un grido straziante. Era mamma merla che mia saltellava attorno e pareva che mi dicesse: ‘Lasciali, sono miei!’. E mi seguì fino a casa sempre reclamando i suoi piccoli. Riflettendo su questo fatto conclusi: ‘Guarda quanto è buono il Signore che ha messo sentimenti così belli anche in un merlo’. E da quel giorno sentii in me un grande amore per gli animali”.

Dal seminario diocesano ai Comboniani

Il 15 luglio del 1934 Gino Sterzi (così risulta nell’anagrafe del comune di San Giovanni Lupatoto), si trovava al suo paese per le vacanze dopo la quinta ginnasio nel seminario diocesano di Verona, quando scrisse la sua prima lettera al superiore dei Comboniani. In essa c’è tutta la sua piccola e semplice storia di ragazzino desideroso di farsi missionario.

“Molto Reverendo Padre, da circa tre anni sento un grande desiderio di farmi missionario. Di questo ho parlato tanto col P. Spirituale che è pure mio confessore ed egli mi ha raccomandato di pregare. Ho fatto quanto mi ha detto e sempre ho sentito questa voce interna. Ho parlato anche col molto Rev.do P. Abbà, così ho potuto avere anche da lui qualche consiglio e qualche buona parola.

Temendo che la mia non fosse vera vocazione, esposi il mio timore al confessore ed egli mi ha risposto di andare pure tranquillo. Fidandomi della sua parola come della voce del Signore, ho veramente deciso di farmi missionario. Le faccio quindi la mia domanda, se Ella vorrà accettarmi.

I miei genitori non sarebbero contenti. Mio padre si è pentito di avermi fatto studiare. Mia madre ha pianto e tutti mi hanno trattato da ingrato dicendomi che non potevo combinare una cosa più grossa. Però vedo che si sono un po’ rassegnati e, sebbene di malavoglia, pure mi lasciano andare...

Avrò forse da lottare ancora un po’ in famiglia contro alcuni miei fratelli che non condividono la mia vocazione, per cui sorgeranno di sicuro altre piccole difficoltà, ma spero che il Signore vorrà appianarle e concedermi la grazia di poter seguire la sua voce...”.

P. Abbà accompagnò la lettera di Gino con una sua dichiarazione nella quale diceva che “il giovane Gino ha frequentato la quinta ginnasio in seminario e il Rettore ha dato le migliori informazioni”.

In una lettera di P. Gino troviamo anche le motivazioni che lo hanno spinto a farsi missionario comboniano. Eccole: “Sono felice di essere in questa Congregazione la cui carità mi ha affascinato da giovane seminarista e mi ha tirato tra le sue file e mi tiene in esse proprio contento”. Lo spirito di carità, zelo e sacrificio, che sono le caratteristiche dei missionari comboniani del Cuore di Gesù, avevano dunque affascinato il giovane seminarista veronese.

Sono felicissimo di essere missionario

In settembre di quel 1934, con la sua pagella tutta “otto” e “nove” che lo promuoveva alla prima liceo, Gino entrò nel noviziato di Venegono Superiore. Tra i suoi documenti non ci sono le carte del noviziato per cui non possiamo vedere quale sia stato il suo cammino di preparazione alla vita religiosa e missionaria, ma giudicando dalle espressioni con le quali si rivolge ai superiori per chiedere la rinnovazione dei Voti, possiamo constatare che il fervore e l’impegno non gli mancavano.

“Sono felicissimo di essere missionario, religioso, figlio del Sacro Cuore di Gesù in questa Congregazione che, sebbene la più piccola, io sento di amare immensamente e più di tutte le altre”.

Emessi i Voti il 7 ottobre 1936, Gino passò a Verona per il liceo e la teologia che frequentò nel seminario diocesano ancora insieme ai suoi compagni che ora, però, erano una classe più avanti.

P. Capovilla, in un suo giudizio afferma: “Fratel Gino è un figliolo di gran buona volontà, che lavora con impegno per migliorarsi”. Nel 1940, all’inizio della seconda guerra mondiale, anche Gino frequentò il corso di infermiere e di aiutante di Sanità presso l’ospedale civile di Verona conseguendone il diploma.

P. Luigi Penzo, compagno di scolasticato di P. Gino, ricorda un particolare a proposito del confratello: “A quel tempo c’era il digiuno durante certi giorni di Quaresima. Per colazione ci davano un panino lungo sì e no dieci centimetri con un po’ di latte e basta. Io ero piccolo e magrolino per cui quel cibo mi bastava. Gino, invece, con la sua mole da tenere in piedi, si trovava un po’ a disagio. Una mattina, appoggiando quel panino sullo stomaco, mi disse: ‘ Penzo, ti pare che questo pezzettino basti a riempire tutto questo spazio?’. Lo disse sorridendo, senza recriminazioni perché Gino era buono, mite, senza orgoglio e, da buon veronese, capace di trovare il lato umoristico in tutte le situazioni, anche in quelle più difficili”.

Una grazia di Comboni

Nel 1940 la mamma di P. Gino fu sul punto di morire colpita da diabete e cancrena per cui le furono amputate le dita dei piedi. Il figlio missionario, d’accordo col superiore, appoggiò sulle ferite le reliquie del beato Daniele Comboni e lo pregò intensamente affinché concedesse alla mamma di poter assistere alla sua prima messa (mancavano ancora due anni). Ebbene, il male si arrestò e la mamma poté essere presente alla prima messa del figlio

E intanto si avvicinava il giorno della professione perpetua e dell’ordinazione sacerdotale che ebbe luogo il 28 giugno 1942. Sentiamo ancora uno stralcio dei sentimenti che animavano il nostro Gino alla vigilia del sacerdozio:

“Sono cinque anni che servo Dio in questa santa Congregazione e non ho mai avuto rimpianti. Sono risoluto di vivere in essa fino alla morte. Sono felicissimo della vita abbracciata. Confido nel mio Signore e in Lui mi sento sicuro, abbandonato totalmente nella sue mani”.

Questa espressione tanto rassicurante viene dopo un periodo di dubbio che assalì il nostro giovane prima di accostarsi ai Voti perpetui. Fugò le nebbie della sua anima mediante il dialogo con il P. Generale che gli scrisse:

“Va’ avanti in nome di Dio”. Gino gli rispose, sempre per lettera:

“Padre, nella sua parola odo la voce del Signore. E io vado avanti pieno di fiducia in Dio e nella Madre nostra celeste. Con loro combatterò e vincerò”.

“Dal 1940 al 1945, durante la seconda guerra mondiale – scrisse – mi sono trovato varie volte sotto paurosi bombardamenti. Ho visto persone vicine a me perdere la testa, gambe e braccia. Il Signore sempre mi ha protetto. Mi ha pure protetto quando ho scalato Cima Tosa. Ad un certo punto io, inesperto di alpinismo, mi vidi perduto. Allora invocai con piena fiducia il mio Angelo custode e, improvvisamente, sentii una grande calma interiore e mi pareva che una mano mi mettesse le mani e i piedi al posto giusto per non cadere”,

L’uva dei colli euganei

Dopo l’ordinazione P. Gino venne inviato a Padova come economo e propagandista di quel seminario comboniano. Si era in piena guerra. Le difficoltà per mantenere i seminaristi, che ad un certo punto dovettero anche emigrare a Luvigliana per evitare il pericolo delle bombe, non furono poche. P. Gino batteva le parrocchie della zona in bicicletta celebrando Giornate Missionarie e intrecciando amicizie con i sacerdoti. Lavorò bene, anche se l’ufficio di economo non si confaceva con la sua natura portata piuttosto al ministero e al lavoro vocazionale. I superiori se ne resero conto e, nel 1945 lo dirottarono a Trento come animatore vocazionale per la zona del Veronese.

Mentre era a Padova, P. Gino rimase tra la vita e la morte per quasi un mese. Ecco come erano andate le cose. In seguito ad un blocco intestinale, l’infermiere gli somministrò una gran dose di sale inglese. Non ottenendo l’effetto, raddoppiò la dose, ma inutilmente. Il giorno dopo fu la volta di un bel bicchiere di olio di ricino. Ancora niente. E intanto il Padre dava ai numeri dai dolori viscerali e dai giramenti di testa: Ricoverato all’ospedale, i sanitari tentarono tutti i rimedi offerti dalla scienza, ma il malato sembrava spacciato per cui venne avvisato il superiore che P. Gino aveva le ore contate. Notiamo che, dal giorno del suo ingresso in ospedale, erano passati 25 giorni.

Nei momenti di lucidità il Padre pregava e invocava il suo Angelo custode. Ed ecco che al venticinquesimo giorno, quando i sanitari lo avevo portato nella stanzetta dove venivano messi coloro che stavano per morire, si presentarono due benefattrici dell’Istituto di Faedo, un paese dei Colli euganei, con un cestello di uva. “Provi mangiare qualche chicco, Padre, l’abbiamo fatta benedire in chiesa questa mattina’. Il Padre, con un grande sforzo, mise in bocca un chicco, poi un acino, poi un grappolo, due grappoli, tutto il cesto. Alla fine, apriti cielo! E il Padre tornò a casa perfettamente guarito.

Animatore vocazionale

A bordo di un motorino “Capriolo 98”, che sotto la sua imponente mole spariva, P. Gino cominciò a percorrere i paesi in cerca di ragazzi disposti ad abbracciare la vocazione missionaria. Allora le cose si facevano con molta semplicità. All’arrivo del missionario, il parroco suonava la campana e radunava i ragazzi. Il Padre mostrava loro le proiezioni, parlava dell’Africa e dei Moretti che attendevano l’annuncio del Vangelo e dopo distribuiva un foglietto sul quale era scritto: “Ti piacerebbe diventare missionario?”. Chi rispondeva di sì aveva un colloquio di cinque minuti con lui che, precedentemente, aveva sentito il parroco, e poi si andava presso la famiglia del possibile candidato. Nel giro di qualche ora, per i casi più semplici, tutto era combinato e si fissava il giorno della partenza per Fai della Paganella dove i ragazzini facevano il cosiddetto “mese di prova”. Incredibile! Tutto era estremamente semplice. Eppure il sistema funzionava. Chi scrive è stato reclutato da P. Gino proprio in questo modo. Sono numerosi i confratelli che oggi devono la loro vocazione comboniana al ministero di questo fervoroso missionario.

Il Padre conservava in un foglietto nel breviario i nomi dei confratelli reclutati da lui (ora missionari nelle varie parti del mondo) e per essi pregava ogni giorno affinché fossero degni della loro vocazione e fedeli a Gesù Cristo. Grazie P. Gino!

California baciata dal sol

Quando gli giunse la destinazione per la Bassa California Messicana, P. Gino si trovava in villeggiatura con i ragazzi di Trento a Valfloriana, un paesetto del Trentino. Si era durante le vacanze estive del 1949. P. Gino, sventolando il biglietto con la destinazione, esultava di gioia. Si procurò immediatamente una grammatica spagnola e cominciò a studiarla. Imparava una frase in spagnolo, poi andava dai ragazzi e la ripeteva: “Sapete come si dice: ‘Oggi è una magnifica giornata?’. Sentite”. E la traduceva con solennità tra le risate degli ascoltatori. Inoltre aveva coniato una canzone su un’aria militare le cui prime parole dicevano: “California baciata dal sol, dolce terra di luce e di fior; il Signore donare ti vuol quella fede che ci arde nel cuor”. Insomma P. Gino sembrava un ragazzone in euforia dopo la vittoria della squadra del cuore. Questo aspetto di ingenua semplicità lo accompagnerà fino alla tomba.

Prima di lasciare l’Italia – si era in piena attività per la visita della Madonna Pellegrina alle parrocchie della diocesi – P. Gino ebbe l’incarico di accompagnare la Madonna nelle parrocchie di Peri, Ceraino, Dolcé, Ossenigo, Borghetto, Belluno Veronese, Rivalta e Brentino. Furono giorni di paradiso, di grandi conversioni, di pacificazione, di guarigione di ferite causate dalla guerra e dall’odio. La visita alla Madonna della Corona concluse l’itinerario mariano. E ai piedi della madonna della Corona P. Gino pose il suo ministero missionario.

Il 29 settembre 1949 il piccolo gruppo di sei missionari: P. Carlo Pizzioli, P. Marcello Panozzo, P. Mario Franco, P. Gino Sterza, Fr. Igino Olivieri e Fr. Virginio Negrin salirono a bordo della nave Italia attraccata nel porto di Napoli. Alle Azzorre il vulcano salutò i missionari riversando un’improvvisa scarica di fumo, cenere e lapilli che investì la nave e penetrò, attraverso gli oblò, nelle cabine. L’11 ottobre sbarcarono al porto di New York poi, via treno, raggiunsero la Bassa California.

“Tre giorni e tre notti di digiuno - scrive P. Sterza - per fortuna che la mamma di P. Panozzo aveva nascosto tra la biancheria del figlio un bel salame che per noi rappresentò la Provvidenza, anche se finì subito”. Così arrivarono a destinazione felici, contenti e affamati come lupi. Giunto in territorio messicano P. Gino scrisse su un quadernetto:

“Grazie, Signore, che mi hai condotto a casa mia, perché il Messico è la casa della Vergine di Guadalupe, la tua e la mia madre, quindi anche casa mia”. Il primo compito per P. Gino a la Paz fu quello di visitare a turno i 40 centri di catechismo distribuiti nella zona. Quei missionari vollero subito “porte aperte a tutti”. Eccetto la piccola parte riservata ai missionari, tutto il resto della missione era a disposizione della gente che doveva sentirsi come a casa propria. Ciò piacque molto e contribuì ad attirare la simpatia del popolo verso i missionari.

Mettiamo di seguito le tappe del suo itinerario missionario di mezzo secolo in Bassa California con le date e gli incarichi che ha ricoperti:

Città di Messico: 1949-50 per lo studio della lingua; San Ignacio: 1950-52 (superiore locale); Santa Rosalia: 1952-55 (superiore); San José del Cabo: 1955-58 (superiore): San Ignacio: 1958-59 (superiore); Ciudad Constitucion: 1960-61 (superiore); San Francisco del Rincon: 1961-62 (direttore spirituale nel seminario); Tepepam: 1962-64 (parroco); San José del Cabo: 1964-67 (superiore): Andarin: 1968-70; Mulegé: 1970-71 (parroco); Santiago: 1971-74 (parroco); Roma, corso di rinnovamento: 1974-75; Cuernevaca: 1976-78 (promotore vocazionale); Missionario della Costa (350 chilometri di spazio): 1978-1982; Bahia Tortuga: 1982-1985 (parroco); Ciudad Constitucion: 1986-88 (addetto al santuario); Mulegé: 1988-89 (parroco); Guadalajara: 1989-92 (seminario); La Purisima: 1992-93 (ministero); Bahia Tortuga: 1993-96 (ministero); Brescia (Italia) 1996-98 (malato e addetto al ministero); Montebello Vicentino con sede in Casa Madre: 1999-2000 (assistenza anziani).

Leggendo questa lunga litania di nomi e date, balza agli occhi un fatto: i frequenti cambiamenti che il Padre ha fatto. Richiestone il motivo ai suoi compagni di lavoro, e anche suoi superiori ancora viventi (P. Turchetti e Mons. Giordani) abbiamo avuto la seguente risposta:

“P. Gino era considerato un uomo jolly. Dove c’era bisogno per un emergenza, per sostituire uno che si ammalava o che andava in vacanza, lui era sempre disponibile, e col sorriso sulle labbra”.

Sulle orme di P. Chino

P. Gino arrivò in Bassa California col secondo gruppo di Comboniani che raggiunsero quel Paese. Il territorio, infatti, fu affidato ai seguaci del Comboni dalla Santa Sede nel 1947 con accordi diretti con l’allora Amministratore Apostolico Mons. Filippo Torres. Nel gennaio del 1948 giunsero i primi 9 missionari che occuparono tre parrocchie e poi, successivamente, il resto del territorio.

Le comunicazioni e gli spostamenti avvenivano, in genere, a dorso di cavallo o di mulo perché mancavano le strade e quelle poche che esistevano erano sconnesse.

Nonostante la penisola sia lunga 1.600 chilometri con una superficie come mezza Italia, allora contava appena 300.000 abitanti. I paesi sorgevano attorno alle missioni dei Gesuiti fondate nel 1700 e poi abbandonate.

Religiosamente gli abitanti della Bassa California, all’arrivo dei Comboniani, erano tutti cattolici, con pochissime eccezioni venute da fuori, ma dilagava l’ignoranza religiosa e la superstizione legata soprattutto al culto delle immagini sacre. Moltissime famiglie erano disgregate e c’era molta immoralità, anche se la gente era sostanzialmente buona.

Il lavoro dei nuovi venuti, dunque, era quello di ricostruire materialmente gli edifici e ricristianizzare il popolo mediante la catechesi e i sacramenti.

P. Gino capì subito che per incidere nei fedeli avrebbe dovuto contattarli uno ad uno, famiglia per famiglia, con un’opera paziente e lenta di convincimento. In groppa ad un mulo cominciò a macinare chilometri e chilometri con la corona del rosario in mano. “Più di una volta mi persi tra quei sentieri che raggiungevano le rancherìe più lontane. Ed era pericoloso perché la zona era infestata da coyotes, specie di sciacalli, gatos montes, grossi gatti rabbiosi che assalgono l’uomo specie di notte e sono potenti graffiatori, pumas, piccoli leoncelli… Io non facevo che invocare il mio Angelo custode ed egli mi assisteva guidando l’istinto del mulo che trovava sempre la strada giusta, anche se spesso si divertiva a sfiorare i precipizi”. Nelle sue tappe nei paesi s’intratteneva con gli anziani, scherzava con i ragazzi e diceva parole buone a tutti. “Il rapporto umano - scrisse - è l’A B C della carità cristiana”.

A P. Gino piaceva questo stile di ministero perché aveva impostato la sua attività missionaria sullo stile di San Paolo o, per stare più nell’ambiante, al suo lontano predecessore P. Eusebio Chino che fu il grande evangelizzatore di quella zona. Tutti e tre: Paolo, Chno e Gino, amavano spostarsi da un paese all’altro, predicare, fondare una comunità, metterci dei laici e poi andare altrove.

Questa impostazione del lavoro non era condivisa da tutti per cui causò a P. Gino qualche sofferenza, ma i buoni frutti che otteneva dimostrarono che era la maniera giusta per portare a Dio le persone.

Nel 1961 P. Gino presentò al padre generale il progetto di un’opera sociale (come una piccola città dei ragazzi) per raccogliere bambini poveri e abbandonati (allora si trovava a San Francesco del Rincon), ma il superiore gli prospettò le difficoltà nelle quali si dibatteva la Ciuded de los nignos di La Paz per cui lo sconsigliò di avventurarsi in una simile impresa. Egli obbedì e continuò il suo ministero itinerante.

I fioretti di P. Gino

La vita missionaria di P. Gino è costellata di tanti “fioretti” che l’hanno resa varia e interessante. Egli stesso li raccontava con semplicità sottolineando come l’aiuto della Madonna di Guadalupe, di cui era devotissimo, e quella del suo Angelo custode, non mancasse mai.

“Da tre mesi i pescatori di Bahia Tortugas non prendevano un pesce - scrisse nel 1975. - I debiti per mantenere le rispettive famiglie andavano via via aumentando, creando disagio e disperazione. Nei miei giri giunsi anche in quella località e i pescatori si fecero attorno raccontandomi le loro disavventure.

‘Non abbiate paura - dissi loro - voi siete tanto devoti della Madonna ed ella vi aiuterà. Preghiamola insieme’. Qualche giorno dopo espressi il desiderio di far visita ai cristiani dell’isola di Cedro a sei ore di battello da Tortuga.

‘Ti accompagniamo noi con il nostro peschereccio’, mi dissero. E l’indomani si partì. Durante la traversata non si fece che recitare rosari intercalati da canzoni alla Madonna, ma di pesci, neanche l’ombra. Dopo aver sostato qualche giorno nell’isola, espressi il desiderio di tornare. I pescatori rimisero in moto il peschereccio e via alla volta di Tortuga. Dopo tre ore di navigazione, ecco stagliarsi nell’oceano una macchia nera.

‘Le sardine’, gridò l’uomo di vedetta. Gettarono le reti. Poco dopo nel peschereccio si ammassarono 250 quintali di sardine. I pescatori impazzivano dalla gioia.

‘Padre - gli dissero - ora dobbiamo tornare sull’isola di Cedro dove c’è il frigorifero e lo stabilimento per la lavorazione del pesce. Dopo torneremo a Tortuga’.

In quel momento apparve un battello che andava verso Tortuga. I pescatori lanciarono il segnale e questi accostò. Io gettai sul battello la borsa e poi attesi che l’ondata avvicinasse i due battelli per spiccare il salto. Sfortunatamente misi il piede in fallo e finii di peso nell’acqua dell’oceano. Fu un attimo. Prima che le due imbarcazioni si avvicinassero di nuovo con il pericolo di schiacciarmi, venne calata una fune. La afferrai e così fui a mia volta pescato e portato sano e salvo a Tortuga. Quel giorno la pesca miracolosa fu doppia”.

Un’altra volta P. Gino se ne stava sotto l’arco dell’entrata della missione di San Francesco Borgia. Era appena terminata la benedizione della statua del Santo, appena restaurata. Presiedeva il vescovo di Tijuana. Un ragazzo suonava la campana sospesa all’arco per manifestare la gioia di tutti. D’improvviso la campana – 50 chilogrammi – si staccò e cadde a terra sfiorando la testa e la spalla del Padre. “Un grazie all’Angelo custode e uno a san Francesco Borgia - concluse P. Gino – anche quella volta avevano fatto il loro dovere.

Un ragazzo, distrattamente appiccò il fuoco a un bidone di benzina che stava nell’angolo del salone della missione di Sant’Ignacio dove una cinquantina di ragazzi giocavano. Fratel Negrin, con molta presenza di spirito, e rischiando grosso, spinse il bidone in fiamme fino in cortile evitando per un soffio una catastrofe.

P. Gino ricordava anche il giorno in cui con P. Panozzo si mise in viaggio con le jeep – era a Santa Rosalia – per andare al funerale di P. Cenghìa a Maria Auxiliadora . A metà strada, in mezzo al deserto, scoppiò una gomma. Poco dopo, un grosso chiodo saltato fuori da chissà dove, forò anche quella di scorta. Cosa fare? “Tentammo di gonfiarla, ma dopo qualche centinaio di metri era nuovamente a terra, e ci restavano ancora 200 chilometri. Allora ci siamo messi a pregare e, dopo un po’, la gonfiammo un’altra volta. Questa volta l’Angelo custode mise il suo ditino sul foro del chiodo e così potemmo arrivare a destinazione, appena in tempo per dare l’ultimo saluto al nostro caro confratello che fu sepolto a La Paz[1]”.

“Febbraio 1958. Siamo nella casa provincializia a Città del Messico. P. Giordani, Provinciale, già eletto Prefetto apostolico, mi dice:

‘Ho qui tante firme dalla missione di Sant’Ignazio. Ti chiedono come loro parroco. Accetteresti?’.

‘Con molto piacere’.

‘Ti darei per compagno Fr. Pilia’.

Mentre Pilia lasciava per alcuni istanti il suo lavoro di muratore e veniva nella mia stanza per gli accordi, il tetto del salone dove aveva lavorato fino a un minuto prima, rovinò di schianto. Ovviamente il Fratello rimase illeso. Fu un frutto della sua pronta obbedienza”.

Un giorno del 1958 ci perdemmo nel deserto del Vizcaino. E’ un deserto micidiale dove si trovavano scheletri di uomini e di macchine. Ed era facile perdersi perché pieno di piste fatte dai cercatori di petrolio, che si perdevano tra dune di sabbia senza condurre ad alcuna casa. Non sapendo dove andare e avendo terminata la benzina, non ci restò che pregare il nostro Angelo custode passando la notte a bordo della jeep. Cosa avremmo fatto il giorno dopo?

Ed ecco che, quando albeggiava, fummo svegliati dal canto di un gallo. Seguendo quel richiamo, arrivammo a un casolare nascosto da una montagnetta vicina dove fummo accolti da alcune brave persone”.

“Da Città di Messico dovevo tornare in Bassa California. Alla biglietteria dell’autobus che portava a Guayamas per imbarcarsi sul traghetto Araguan mi dissero che era al completo e perciò potevo prenotare per l’indomani.

‘Va bene, facciamo domani’. Alle prime ore del giorno dopo i giornali riportarono la notizia che il traghetto Araguan era affondato nel Golfo di Cortes causa l’esplosione di una bombola di gas. Quindici persone erano annegate… Come non vedere la mano di Dio in quella partenza mancata?”. Gli episodi si susseguono sempre dimostrando lo speciale intervento di Dio attraverso l’Angelo custode o la Madonna di Guadalupe.

La Chiesa al ritmo dei suoi passi

Durante i 50 anni di presenza nella Bassa California P. Gino vide la trasformazione di quella penisola da terra di pionieri a regione dove il progresso e lo sviluppo fecero passi da gigante. Padre Gino lavorò instancabilmente non badando a sacrifici e rinunce. Dobbiamo dire che il suo ministero fu benedetto da Dio anche perché il Padre accompagnava il suo lavoro apostolico con una preghiera continua.

Nel suo lavoro fu favorito da una salute di ferro e da una resistenza a tutta prova. Egli ha saputo realizzare una perfetta incarnazione con il suo popolo. Anche da anziano, in Italia, amava pregare in spagnolo. Diceva, con un termine veneto, che le preghiere dette nella lingua di quella sua gente avevano un bocato tutto speciale e certamente andavano diritte al cuore di Dio.

Uomo saggio e prudente riuscì a mettere pace in tante famiglie in lotta tra loro e all’interno delle stesse. Si preoccupò anche della formazione dei sacerdoti locali, se non altro aiutando i giovani seminaristi quando andavano ai loro paesi per le vacanze. Vide con soddisfazione che molte missioni rette dai Comboniani, un poco alla volta passavano al clero diocesano. Se si pensa che all’arrivo dei Comboniani c’erano tre sacerdoti sparsi nell’immenso territorio, voleva dire che di strada ne era stata fatta.

L’esempio di Comboni

E’ interessante una lettera che P. Gino ha scritto alle sue due sorelle nel 1992, ritornando in Bassa California dopo le sue vacanze in Italia.

“Finalmente sono arrivato alla mia nuova destinazione , La Purisima, paesetto di circa 300 abitanti, paesaggio lunare ad eccezione di un immenso palmizio. Gente in giro non se ne vede. Unico segno di vita animale, un cagnolino che di tanto in tanto passa timoroso in cerca di un suo simile.

Ho un compagno, P. Luigi Ruggera, un grandissimo lavoratore come pochi al mondo, che semina cappelle in tutta la zona. E’ sempre in movimento in cerca di anime. E’ bello vedere dei confratelli così zelanti. Ma più cerca le anime, più scappano via. Vorrebbe vedere tutti i giorni le cappelle piene di fedeli, specialmente uomini, però sono proprio questi che non si fanno vedere. Vuole che si confessino, che si sposino in chiesa, che si accostino ai sacramenti e che non manchino alla messa. Siccome queste cose non succedono, dice che in questa zona non c’è più fede. Ora spera in me, nuovo arrivato di quasi 80 anni, per salvare la barca che, secondo lui, sta affondando. Ma la barca la salverà il Signore che vi è a bordo. Gente di poca fede, perché temete? Io sono con voi tutti i giorni. Vicino a La Purisima c’è un altro paesetto di 400 abitanti. Stessa situazione. Poi esistono altri villaggi lontano 20 - 40 - 50 chilometri.

Mi pare di essere ai tempi del Comboni. Anche lui in Africa trovò tanta indifferenza. Anche lui si sentì solo, abbandonato e per di più circondato da una corona di tombe dei suoi compagni e non si scoraggiò, né si perse d’animo. Il suo esempio ci infonde coraggio e ci dà speranza. Ci vuole calma, pazienza, costanza e tanta preghiera e tanti sacrifici, il Signore farà il resto e le anime si salveranno”. Con tanta fede, tanta pazienza e tanta dolcezza fece un sacco di bene tra quella gente che lo venerava come un patriarca.

Confessore dei sacerdoti

Rientrato in Italia per motivi di salute, visse con il continuo anelito di tornare in missione e di portare le sue ossa in quella terra che ha tanto amato. Fu nelle case comboniane di Brescia e di Verona fino al 1999. A Brescia divenne confessore di alcuni sacerdoti della zona, che si passarono subito la parola su questo missionario che impersonava così bene la misericordia divina. Uno di essi, un giovane, ha detto:

“P. Gino era un autentico santo, un uomo buono, che faceva rivivere in sé la bontà di Dio. Era entusiasta del sacerdozio e questo entusiasmo sapeva infonderlo anche in noi sacerdoti giovani qualche volta presi da troppe cose e molto spesso scoraggiati”.

Nella comunità di Brescia fu esempio di preghiera e strumento di pace. Quante ore di adorazione in chiesa! Quanti buoni consigli ai confratelli, detti così, con semplicità, sdrammatizzando, col sorriso sulle labbra e la corona in mano. Ogni giorno faceva la sua passeggiata lungo Viale Venezia, con il cappello a larga tesa in testa e il bastone in mano. Tutti ormai lo conoscevano e si fermavano a scambiare una parola con lui. Così anche la sua passeggiata diventava motivo di apostolato.

Eppure questo uomo, sempre così misurato, padrone di se stesso, controllato in tutto, “consigliere ammirabile”, aveva le sue sofferenze intime. Era afflitto dal pensiero di non piacere abbastanza al Signore, si sentiva pieno di difetti e di imperfezioni per cui ricorreva con frequenza al sacramento della confessione. Ad un certo punto, chi gli dettò gli Esercizi, gli fece scrivere questo proposito: “Mi confesserò solo una volta al mese, non di più”.

Le sentenze di P. Gino

P. Gino, nella sua saggezza, coniava sentenze molto interessanti che ripeteva in determinate situazioni. Ne citiamo qualcuna:

“Il segreto della felicità non è fare ciò che si ama, ma amare ciò che si fa”.

“Il carnevale sarebbe più divertente se la gente, invece di mettersi la maschera, se la togliesse”.

“Quando Dio vuol darci qualcosa, comincia col chiedercene una”.

“Esiste la fede che sposta le montagne, ed esiste quella che non sposta niente”.

“Le persone non sono usa e getta, ma proprietà esclusiva di Dio, e come tali vanno trattate”.

“Tra fare il cristiano ed esserlo, c’è un abisso”.

“Uscire da noi stessi per andare incontro al prossimo è un viaggio lungo ma assai gratificante”.

“Vincere se stessi è il modo più sicuro per non essere vinti dagli altri”.

“La più grande disgrazia che ti possa capitare è quella di non essere utili a nessuno”.

“Il maggior peccato contro i nostri simili non è l’odio, ma l’indifferenza”.

Caduto sulla breccia

Desideroso di dedicarsi al ministero fino all’ultimo istante della sua vita, si offrì come cappellano nella Casa di Riposo di Montebello Vicentino dove si fece subito apprezzare per il suo zelo e la sua bontà. Anche quando era a Brescia sostituì volentieri il cappellano nell’ospedale Fatebenefratelli e subito fu circondato da affetto sia da parte dei degenti come dai medici e dagli infermieri.

In cuor suo, però, custodiva un segreto: terminare i suoi giorni in Bassa California. Lo aveva detto prima di lasciare la comunità di Brescia: “Un paio d’anni di rodaggio a Montebello poi, se il Signore vuole, potrei fare lo stesso lavoro in missione dove ci sono anziani che hanno bisogno di assistenza spirituale. Se un prete si siede in un angolo con la mano alzata per assolvere, i penitenti non si faranno attendere”. Dio aveva disposto diversamente.

P. Gino, infatti, è deceduto sulla breccia come un buon soldato il 14 aprile 2000 nella Casa di riposo San Giovanni Battista dove si trovava da un anno come cappellano. Il giorno prima era stato in Casa Madre a Verona, sua comunità, per il ritiro con i confratelli. Il giorno seguente, dopo una visita oculistica, venne portato da un confratello nel suo luogo di ministero. Quel venerdì di Quaresima fece la Via Crucis con i degenti commovendosi rivivendo la Passione del Signore. Alla sera, dopo cena, sentì un peso al petto accompagnato da indisposizione. Fu accompagnato in infermeria e steso sul lettino per il controllo della pressione. Si vide subito che il caso era piuttosto serio. Venne immediatamente chiamata l’ambulanza, ma quando giunse, il Padre aveva cessato di vivere. Così, senza disturbare nessuno, lasciò questo mondo per entrare nella Casa del Padre.

Nel suo testamento spirituale, scritto il 19 ottobre 1992, dopo la professione di fede nella Santissima Trinità, disse: “Nelle tue mani, Padre, offro il mio spirito. Credo e spero nella tua infinita misericordia. Grazie Gesù: credo e spero nel tuo potere salvifico; grazie Spirito Santo per lo spirito di saggezza con cui mi hai fatto superare tante angustie di spirito; grazie Madonna santa per avermi sempre accompagnato nel mio lungo pellegrinaggio terreno; grazie a tutta la Chiesa; grazie alla mia diletta Congregazione comboniana. Lascio questo povero mondo sconvolto e offro tutto, anche se poco, nel Cuore trafitto di Cristo in croce per la salvezza di tutti. Muoio con la certezza di incontrarmi con Cristo salvatore”.

Fu un missionario caro a tutti, di intensa preghiera, sempre disponibile all’ascolto, mite ed entusiasta della vita missionaria. “Il Signore è stato troppo buono con me - soleva dire - e non sarò mai capace di ringraziarlo abbastanza. Cinquant’anni di missione senza neanche un raffreddore ed ora la malattia (si trattava di un cancro tenuto sotto controllo grazie alla settimanale chemio, e lo sapeva) che mi consente di prepararmi bene all’incontro con il Signore. Sì, anche la malattia è un dono, un grande dono e ne ringrazio il Signore. Nella mia vecchiaia ho imparato una cosa: che nella nostra esistenza sembra che siamo noi o gli altri che dirigono la nostra vita, invece no; è il Signore che ci conduce per strade che noi non immaginavamo, e sono tutte strade segnate dalla misericordia e dall’amore, anche se attraversano zone di sofferenza. Quell’Essere invisibile che noi chiamiamo Padre è sempre con noi, ad ogni passo, ad ogni istante e ci guida e ci salva utilizzando avvenimenti e persone. Quante volte ho percepito la presenza di una mano amorosa che mi salvava e mi guidava: era Dio attraverso il mio Angelo custode”. Anche queste toccanti parole aveva detto ai confratelli prima di lasciare Brescia.

Davvero chi l’ha conosciuto sa di avere un protettore in cielo. La sua salma, dopo il funerale in Casa Madre, è stata traslata a San Giovanni Lupatoto, suo paese natale. Certamente dal cielo intercede per le missioni e per la Congregazione che ha sempre intensamente amate.       P. Lorenzo Gaiga

Da Mccj Bulletin n. 207, luglio 2000, pp. 105-119


[1] P. Bartolomeo Cenghia è morto, in seguito a incidente aereo, il 20 luglio 1955, a 33 anni di età.