Giovedì 10 ottobre 2024
Il 15 settembre 2024 il Piano per la Rigenerazione dell’Africa con l’Africa ha compiuto 160 anni! Un anniversario assai significativo quando, come Popolo di Dio in cammino nel tempo, la Chiesa è impegnata in una profonda riflessione su cosa significhi vivere l’impegno di testimoniare il Vangelo con uno stile sinodale e missionario. [Nella foto: don Nicola Mazza e, in primo piano, mons. Daniele Comboni]
Daniele Comboni è stato un precursore, veramente ante litteram, della sinodalità intesa come espressione del camminare insieme. Se si dovessero considerare anche solo le centinaia di lettere e i lunghi rapporti storici, tutti vergati con penna e inchiostro, da soli basterebbero a cogliere l’importanza che dava nel coinvolgere più persone possibile alla causa per cui aveva donato la sua vita.
Daniele Comboni e il Piano per la Rigenerazione dell’Africa con l’Africa sono un tutt’uno. Lo aveva percepito come un’ispirazione del cielo, mentre, nella Basilica di San Pietro in Roma, pregava in preparazione alla Beatificazione di Margherita Maria Alacoque (1647-1690). Vi aveva impiegato quasi 60 ore continue per stenderlo e, poi, una volta terminato, il 18 settembre lo aveva consegnato al Prefetto di Propaganda fide, Cardinale Alessandro Barnabò, per una prima valutazione e la tanto sperata approvazione.
Nel testo di quella prima bozza scrive: “Se la S. Sede ap.lica sorriderà benignamente al nuovo Disegno della Società dei SS. Cuori di Gesù e di Maria per la Conversione della Nigrizia, noi saremo lieti di consacrare le nostre deboli forze e tutta la nostra vita per cooperare nella nostra infermità alla grand’opera: fermi nella certezza che avrà un esito felice, perché vi avremmo conosciuta la suprema volontà del cielo. (…) Lode e Gloria ai SS. Cuori di Gesù e di Maria, a S. Giuseppe, ai SS. Apostoli, e a S. Francesco Saverio, al Beato Pietro Claver, ed alla Beata Maria Alacoque”. (Scritti, 844; 846)
Sì, quella sua unica vita, totalmente indirizzata alla gloria di Dio e al bene dell’Africa, assieme a quelle di molte e molti compagni di cordata, testimoniano la verità del desiderio che dimorava nel Cuore della Trinità, affinché la Perla Bruna brillasse ovunque nella Corona della Chiesa.
Le radici di un sogno condiviso
Daniele era nato il 15 marzo 1831 a Limone sul Garda, e aveva 33 anni in quel settembre 1864. Si era incamminato sulla via dell’Africa alla scuola di Don Nicola Mazza (1790 – 1865), un gigante della fede e dell’apostolato sociale, che in Verona, sua città natale, sosteneva l’educazione di bambine e bambini intelligenti e motivati, ma impossibilitati a frequentare la scuola data la grande povertà in cui versava la maggioranza delle famiglie in quel tempo.
Nicola Mazza, conosciuto anche come don Congo, avrebbe voluto essere lui stesso missionario in Africa, ma la sua gracile salute non glielo aveva permesso. Da prete santo e intelligente, era rimasto aperto alle istanze che il Movimento Missionario del Secolo XIX evocava nella società europea impigliata nelle maglie dello schiavismo e del nascente colonialismo. E soprattutto nella Chiesa, che, attenta alle enormi sfide del suo tempo, nel 1846 aveva dato vita al Vicariato dell’Africa Centrale. Tra i missionari che il Mazza aveva inviato in Africa fin dal 1848, vi è la spedizione dei 6 di cui il più giovane componente è Daniele Comboni. Partiti da Trieste il 10 settembre 1857, erano giunti a Khartum “quattro mesi e sei ore dopo la (nostra) partenza da Verona”. (Scritti, 202)
Il 21 gennaio 1858, lasciando a Khartum Don Alessandro Dalbosco come procuratore generale, il resto della comitiva si era rimessa in viaggio. Erano: Don Giovanni Beltrame, capo della Missione, Don Francesco Oliboni, Don Angelo Melotto, Don Daniele Comboni e il fabbro ferraio Isidoro Zilli. Arrivarono a Santa Croce il 14 febbraio 1858. Dalle lunghe e descrittive lettere che Daniele scrisse nei primi mesi agli amati genitori: papà Luigi e mamma Domenica, al suo parroco, Don Pietro Grana, al medico Benedetto Patuzzi e al cugino Eustachio Comboni, emerge la grande apertura di mente e di cuore con cui si apprestava a vivere la sua prima esperienza missionaria. Desiderava infatti coinvolgere quante più persone possibili nella grande avventura del Vangelo in terra d’Africa.
In una lunghissima lettera, scritta “dalla tribù dei Kich” a suo padre in data 5 marzo 1858, così si esprimeva: “Il Missionario deve essere disposto a tutto: alla gioia ed alla mestizia, alla vita, ed alla morte, all’abbraccio, e all’abbandono: e a tutto questo son disposto anch’io (…). Io sono martire per l’amore delle anime le più abbandonate del mondo e voi divenite martiri per amore di Dio, sacrificando al bene dell’anime un unico figlio”. (Scritti, 218; 222)
Da ottimo animatore missionario, Comboni vuole coinvolgere il papà nella sua stessa esperienza: “Benché il Nilo sia messo dai geografi pel 4º. del mondo, nulladimeno ora è già certo che è il fiume più lungo del mondo, perché dai geografi è calcolato il Nilo come continuazione del Fiume Azzurro, conosciuto, come dicemmo, fino dall’antichità, laddove si deve invece considerare come padre del Nilo il Fiume Bianco, il quale è più di mille miglia più lungo dell’Azzurro: per cui, calcolato solo il fiume che noi percorremmo finora, il Nilo è più di 400 miglia più lungo del più lungo fiume del mondo. A quel che noi abbiamo percorso aggiungete che le sorgenti del Fiume Bianco, o Bahar-el-Abiad, sono ancora sconosciute; e vi sarà chiaro che il Nilo è il più lungo fiume del mondo di parecchie centinaia di miglia. Debbo ancora premettere che il Fiume Bianco fino a un certo segno è stato percorso da qualche altro, e specialmente dal nostro defunto confratello D. Angelo Vinco del nostro Ist.o; quindi le sue sponde sono in qualche modo conosciute: ma nessuno penetrò molto addentro terra; sicché quantunque delle più interne tribù dell’Africa Centrale (che sono quelle del Fiume Bianco), quantunque si conosca di molte il nome, tuttavia dei loro costumi, indole etc. nulla si sa”.
Da esperto comunicatore, conduce suo padre per mano, usando categorie a lui conosciute: “Per farvi comprender questo, supponete che il Regno Lombardo-Veneto sia sconosciuto, e che noi tentassimo di conoscerlo per predicarvi il Vangelo: supponete che Riva sia Khartum da dove noi partiamo per penetrare nel Regno Lombardo-Veneto; e che il Lago di Garda sia il Fiume Bianco; supponete ancora che il lago di Garda sia stato da qualcheduno percorso fino a Gargnano e Castelletto, come fino a un certo segno fu percorso da Vinco il Fiume Bianco. Ora andando voi da Riva a Gargnano e a Castelletto, voi sapete che esiste il Lombardo-Veneto, perché quei di Gargnano vi diranno che sono Lombardi, e quei di Castelletto vi diranno che son Veneti, perché e Gargnano appartiene al Lombardo, e Castelletto al Veneto. Ma per essere voi stati a Gargnano e Castelletto, potete voi dire di conoscere il Lombardo-Veneto? No, perché per conoscere questi due regni bisogna andare a Milano e Venezia etc. Peraltro dall’essere solo andati a Gargnano e Castelletto, sapete che esiste il Lombardo Veneto. Ora le sponde del Nilo sono abitate da diverse tribù, che s’internano dentro terra, le quali sono affatto sconosciute, perché nessuno penetrò molto addentro terra, quantunque di esse si sappia il nome, perché esse si stendono fino al fiume. Io sono nella tribù dei Kich: ma nulla, o poco so di essa, perché essa si stende molto verso terra, ove nessuno penetrò. Eppure sono nella tribù dei Kich, e so che essa esiste. Ciò posto il nostro scopo è di cominciare la predicazione del Vangelo in una di queste vaste tribù delle Regioni incognite dell’Africa Centrale, cominciando dalle sponde del Fiume Bianco, e grado grado penetrando entro terra fino alla capitale di questa, e poi distendersi in altre tribù, fino che a Dio piacerà”. (Scritti, 218; 231-235)
A Santa Croce, Comboni vedrà morire uno dei suoi compagni, Don Francesco Oliboni, deceduto il 26 marzo, un mese dopo il loro arrivo. L’inaspettata notizia della scomparsa di mamma Domenica, ricevuta dopo 7 mesi di impossibilità di inviare e ricevere posta, fu per lui come un fulmine a ciel sereno. Papà Luigi era rimasto solo e questo lo addolorava tantissimo. E il clima tropicale rendeva tutto più difficile per il piccolo resto, sempre più indebolito dalle numerose febbri e dissenterie. Iniziarono il viaggio di ritorno l’8 gennaio 1859 e arrivarono in Khartum il 4 aprile. Un viaggio di “87 giorni continui su una incomoda barca”. (Scritti, 462)
In Khartum moriranno Isidoro Zilli “colpito da improvvisa febbre celebrale” e “l’amato nostro compagno D. Angelo Melotto”. (Scritti, 463) Dei 6 coraggiosi missionari inviati dal Mazza ne rimasero due vivi e parecchio acciaccati in Khartum, Don Giovanni Beltrame e Don Alessandro Dalbosco, mentre al più giovane veniva ordinato di continuare il viaggio per ritornare a casa (e che viaggio!).
A riguardo così confida i suoi sentimenti a Don Pietro Grana: “Che dobbiamo fare adunque, o mio carissimo? Nient’altro che rassegnarsi lietamente alla volontà del Signore, benedire in eterno le sue adorabili disposizioni, ritornare per ora alla patria, ed aspettare nuovi movimenti dello spirito di Dio, pronto sempre a sacrificare ogni cosa e vincere tutto, per seguire ed adempiere la volontà del Signore. Io quindi partii da Khartum sopra una barca della Missione a’ 17 p.p. Giugno, e montato in Ondurman il cammello, attraversai il deserto di Baiuda in 14 giorni; e noleggiata in Abudom una barca, in sette giorni toccai terra a Dongola, ove fermatomi alcuni giorni per aspettare il complemento della carovana, sopra il dromedario trapassai il deserto che fiancheggia le grandi cateratte del Nilo, e giunsi in 13 giorni in Wady-Halfa, donde accordata un’altra barca, spero in 4 giorni, toccando Corosco, di giungere al tropico, all’ultima cateratta d’Assuan. Avendo il gran Pascià d’Egitto interdetto il passaggio per gran deserto di Nubia, che noi tragittammo nell’anno 1857, per essere troppo malagevole e pericoloso, io dovetti compiere un viaggio più lungo. Il tragitto de’ due deserti, fu per me faticosissimo atteso lo stato malfermo di mia salute, quantunque a differenza del grande Atmur, in questi trovassi acqua ogni due giorni. Ebbi undici volte la febbre sul cammello, ed una volta la dissenteria, sì ch’io fui costretto ad arrestare la carovana: se non che, quantunque sbattuto dalla fatica, dal disagio, dall’eccessivo calor tropicale, e dalle privazioni, che porta seco il passaggio del deserto, spero d’essere uscito fuor di pericolo, avendo scorso il più difficile del viaggio. Sopra una dahhabia sul Nilo, tragittato tutto l’Egitto fino al Cairo, monterò in Alessandria il vapore francese, e per la via di Malta costeggiando l’Italia, o pel Piemonte o per le Legazioni spero entro alla metà di settembre di essere alla patria”. (Scritti, 464-467)
Daniele Comboni ritornava a casa per “aspettare nuovi movimenti dello spirito di Dio”. Anni dopo, nella famosa ‘Omelia di Khartum’ dell’11 maggio 1873, dirà alla comunità che festante lo accoglieva come Provicario Apostolico, che “finalmente” ritornava a riprendere il suo cuore. Per continuare a vivere – e a morire – là dove sentiva che Dio lo voleva.
La mite forza della speranza
Quale servo buono e fedele del Vangelo, Daniele Comboni ha vissuto sempre con una immensa speranza. Nella parte conclusiva del Piano scrive: “Finalmente ci sorride nell’animo la più dolce speranza che l’unità, la semplicità, e l’utilità del nuovo disegno della Società dei Sacri Cuori di Gesù e di Maria per la Conversione della Nigrizia (…) troverà un’eco di approvazione, ed un appoggio di favore e di aiuto nel cuore dei cattolici di tutto il mondo investiti e compresi dallo spirito di quella sovrumana carità, che abbraccia l’immensa vastità dell’universo, e che il divin Salvatore è venuto a portar sulla terra: ignem veni mittere in terram et quid volo nisi ut accendatur?”. (Scritti, 843)
Il Piano della Rigenerazione dell’Africa con l’Africa descrive una metodologia ecclesiale – dunque missionaria -, che il Concilio Vaticano II, cento anni dopo (1965), con il decreto Ad gentes, rilanciava come contributo unico e specifico delle Chiese Particolari. Ciascuna in sé – e in comunione tra tutte – le comunità cristiane erano chiamate a realizzare la cattolicità quale elemento fondativo della discepolanza evangelica. La Perla Bruna era già divenuta missionaria verso i quattro angoli della terra.
“Che avvenga pure tutto quello che Dio vorrà. Dio non abbandona mai chi in lui confida. Egli è il protettore dell’innocenza ed il vindice della giustizia. Io sono felice nella croce, che portata volentieri per amore di Dio genera il trionfo e la vita eterna”. È l’ultimo paragrafo, dell’ultima lettera tra le centinaia che Daniele Comboni aveva scritto nella sua breve ma intensa vita di Missionario Apostolico. (a P. Giuseppe Sembianti, Rettore dei suoi Istituti in Verona; Scritti, 7246)
Mancavano 6 giorni alla sua morte, avvenuta la sera del 10 ottobre 1881, in Khartum (Sudan) nel cuore caldo, e nel solco fertile, dell’Amata Africa.
Sr. Maria Teresa Ratti, missionaria comboniana
Suore Missionarie Comboniane