Sabato 1 ottobre 2022
Fr. Alberto Parise, missionario comboniano e membro del Segretariato generale della missione a Roma, in questa sua riflessione, dal titolo “L’Economia della missione – Percorsi sostenibili per una nuova epoca storica: l’esperienza comboniana”, mette in relazione il cambiamento epocale che stiamo vivendo, rilevato e spiegato da Papa Francesco – soprattutto nell’Evangelii gaudium e Laudato si’ –, con il bisogno comboniano fortemente sentito, da tanti anni, di una riqualificazione della presenza e servizio missionario, in comunione con la Chiesa e con tutta l’umanità che oggi richiede un’economia sostenibile e un’ecologia integrale. [Vedi allegato]
L’ECONOMIA DELLA MISSIONE
Percorsi sostenibili per una nuova epoca storica:
l’esperienza comboniana
Il magistero di papa Francesco sta tracciando una nuova rotta per la Chiesa, una nuova evangelizzazione che contribuisca ad un mondo più giusto, fraterno e sostenibile. Con iniziative e impegni globali, come ad esempio la Piattaforma di iniziative Laudato si’[1]e i 7 obiettivi Laudato si’[2], la Chiesa ci sta invitando come Istituto missionario ad una conversione all’ecologia integrale che implica una riqualificazione delle nostre presenze ed impegni. Se guardiamo a quello che sta succedendo nelle circoscrizioni comboniane, troviamo delle interessanti ed innovative esperienze missionarie in America, Europa e Africa, che potrebbero suggerire dei nuovi modelli di presenza e ministero missionario in relazione al tema dell’economia e della sostenibilità. Ma perché ciò accada, c’è bisogno di ideare, accompagnare e sostenere dei percorsi in modo sistematico, per dare continuità e per una trasformazione delle strutture missionarie.
La presente riflessione parte dalla lettura critica della crisi epocale che stiamo vivendo, propone una prospettiva missionaria sull’economia nel contesto del cammino di evangelizzazione della Chiesa e, a partire dalle intuizioni e opportunità emergenti da esperienze missionarie sul campo, avanza delle proposte per dei percorsi di innovazione ministeriale, in linea con l’invito dell’Evangelii gaudium (EG 33): “la pastorale in chiave missionaria esige di abbandonare il comodo criterio pastorale del ‘si è fatto sempre così’. Invito tutti ad essere audaci e creativi in questo compito di ripensare gli obiettivi, le strutture, lo stile e i metodi evangelizzatori delle proprie comunità”.
La “questione antropologica” e l’insostenibilità del modello di sviluppo dominante
Nel secondo capitolo dell’Evangelii gaudium, papa Francesco offre una lettura spirituale del nostro tempo, nella linea di un discernimento evangelico. Questa lettura della realtà alla luce del Vangelo è fondamentale per il rinnovamento missionario della Chiesa. Sia perché una Chiesa in uscita si mette in ascolto del grido dei poveri e del Creato; sia perché evangelizzare è rendere presente il Regno di Dio (EG 176) e se la dimensione sociale dell’evangelizzazione non viene esplicitata, si corre il rischio di sfigurare il significato autentico e integrale della missione.
I segni dei tempi che caratterizzano questo momento storico mostrano un cambiamento epocale, in quanto sistemico. Nonostante le nuove grandi potenzialità, il mondo si sta muovendo verso una sempre maggiore insostenibilità. La gente lo sperimenta attraverso una quotidiana precarietà, lo spegnimento della gioia di vivere, il sopravvento di paura e disperazione, in una lotta per vivere, spesso senza dignità (EG 52).
Alla radice di tutto questo c’è un’economia che uccide, che genera esclusione ed “inequità”, un neologismo che suggerisce tanto l’idea di disuguaglianza che di ingiustizia. Conseguenze, invece, sono la violenza e lo scardinamento della base di qualsiasi sistema politico e sociale. Sfruttamento e marginalizzazione sono realtà già viste nella storia; ma nel sistema socioeconomico odierno l’inedito è l’esclusione, cioè il fatto che una crescente parte della popolazione mondiale non è più “utile” nemmeno per essere sfruttata, ma soltanto un “avanzo”, un” rifiuto” (EG 53).
Come già Benedetto XVI aveva evidenziato nella Caritas in veritate (CiV 75), Francesco spiega che dietro a questo paradigma economico c’è una crisi antropologica (EG 55): la visione dell’essere umano ridotto alla dimensione del consumo, l’homo oeconomicus che cerca sempre di ottenere il massimo vantaggio per se stesso, secondo i propri obiettivi utilitaristi. Un vero cambiamento nella direzione della dignità umana e del bene comune richiede un superamento dei presupposti che sottendono il sistema economico oggi dominante, che ha portato a vari riduzionismi economicisti, veri e propri miti del nostro tempo: dal postulato economico della massimizzazione dei profitti all’assunto della crescita illimitata; dall’autonomia assoluta dei mercati (deregulation) alla loro supposta autoregolazione (cioè: concentrati sul tuo interesse personale e una “mano invisibile” riporterà l’equilibrio, il bilanciamento del sistema); dalla “ricaduta favorevole” (cioè che ogni crescita economica, favorita dal libero mercato, riesce di per sé a produrre una maggiore equità e inclusione sociale) alla criminalizzazione della povertà, incolpando i poveri dei loro mali e fronteggiandoli con le armi e la repressione violenta. Una simile società, per poter sostenere uno stile di vita che esclude gli altri, sviluppa una globalizzazione dell’indifferenza (EG 54), che rende sordi al grido di dolore degli esclusi e della Terra.
Nella Laudato si’, papa Francesco sottolinea la triplice dimensione dell’insostenibilità: non soltanto ecologica, ma allo stesso tempo anche sociale ed economica. I tre aspetti sono collegati. Devastazione ambientale ed impoverimento, con esclusione sociale, sono due facce della stessa medaglia: “non ci sono due crisi separate, una ambientale e un’altra sociale, bensì una sola e complessa crisi socio-ambientale” (LS 139). Cresce la consapevolezza che tutto è interconnesso, come insegnano anche le cosmo-visioni e spiritualità dei popoli originari amazzonici e africani. In questa visione che coglie la complessità della realtà, l’economia emerge come un fattore fondamentale con cui la missione deve confrontarsi.
Missione ed economia
La missione comboniana va intesa all’interno della missione evangelizzatrice della Chiesa, oggi definita dall’Evangelii gaudium[3]. Questa esortazione apostolica – come anche l’Enciclica Laudato si’ – sottolinea il bisogno di un nuovo umanesimo, che superi la cultura dello scarto e le strutture socioeconomiche di esclusione: il sistema sociale ed economico è ingiusto alla radice (EG 59). In altre parole, bisogna superare la crisi antropologica che ha portato all’idolatria del denaro e ad una economia “dell’esclusione e dell’inequità”, che è un’economia che uccide (EG 53). “Oggi – continua papa Francesco – tutto entra nel gioco della competitività e della legge del più forte, dove il potente mangia il più debole. Come conseguenza di questa situazione, grandi masse di popolazione si vedono escluse ed emarginate: senza lavoro, senza prospettive, senza vie d’uscita. Si considera l’essere umano in sé stesso un bene di consumo, che si può usare e poi gettare”. L’Evangelii gaudium insiste pertanto sull’urgenza di una trasformazione culturale e sociale, dell’inculturazione e di vivere relazioni nuove generate da Gesù Cristo. Relazioni sono solo interpersonali, ma anche sociali ed economiche. Come spiega ancora EG 59, “il male a cui si acconsente, cioè l’ingiustizia, tende ad espandere la sua forza nociva e a scardinare silenziosamente le basi di qualsiasi sistema politico e sociale, per quanto solido possa apparire. (…) È il male cristallizzato nelle strutture sociali ingiuste, a partire dal quale non ci si può attendere un futuro migliore”. Si tratta quindi di evangelizzare anche l’economia, smascherando le false pretese del paradigma economico corrente e proponendone un altro dal volto più umano, come quello – ad esempio – dell’economia civile.
Il paradigma dell’economia civile ci spiega che un sistema economico è sostenibile quando oltre a regolare efficientemente la allocazione delle risorse (attraverso lo scambio di equivalenti, per cui lavoro e capitale non sono né sottoutilizzati né sprecati) in condizioni di equità o giustizia sociale, (attraverso meccanismi di ridistribuzione, dando così a tutti la possibilità di partecipare al mercato), include anche la dimensione di reciprocità, che include l’ambito dei beni comuni e dei beni relazionali. Questo terzo principio di mercato non viene riconosciuto nel modello oggi dominante dell’economia politica, che lo pone al di fuori della realtà di mercato. Ma è da qui che si esprime, che prende forma tangibile la dimensione della fraternità all’interno delle realtà economiche. Questa può essere una chiave di lettura decisiva nel ripensare la missione comboniana in relazione all’economia oggi. In altre parole, un’economia che non si riduce alla raccolta di risorse per finanziare la missione, ma che è parte integrante della missione, dell’annuncio di Gesù di Nazareth risorto.
In comunione nel cammino di conversione ecologica
Di fronte alla complessa crisi del nostro tempo, la Chiesa propone due percorsi: da un lato l’Economia di Francesco, cioè la ricerca di nuove strade per un’economia civile che vede come protagonisti i giovani; dall’altro il cammino dell’ecologia integrale, che parte da una visione della realtà come ecosistema, una complessità di legami e interazioni di aspetti correlati di un tutto che è la vita, per cui giustizia sociale, economia, ambiente, cultura, stile di vita e spiritualità sono interdipendenti.
La Laudato si’ rileva l’urgenza di una trasformazione sociale, cioè di un cambiamento sistemico che coinvolga tanto strutture socioeconomiche quanto quelle di pensiero, della mentalità corrente. Oggi la logica scientifico-tecnologica, unita alla finanza, tende a vedere nei problemi che sta causando un’ulteriore opportunità di profitto attraverso soluzioni che però, di solito, creano nuovi problemi, mancando la percezione delle molteplici relazioni tra le cose (LS 20). Per uscire dalla spirale di autodistruzione, è necessario un dialogo inclusivo, capace di integrare le prospettive tecnico-scientifiche con quelle sociali, economiche ed etico-religiose per dar vita a nuove strutture socioeconomiche e nuovi stili di vita, inclusivi, egualitari, solidali, sostenibili e responsabili verso la nostra Casa Comune.
Il processo del sinodo per l’Amazzonia ci mostra un percorso concreto per una trasformazione sociale nella linea dell’ecologia integrale, che richiede un cambiamento sistemico, ben altra cosa rispetto all’inserimento di considerazioni ecologiche superficiali. È un percorso paradigmatico, che comincia con l’ascolto del “grido della Terra” e dei popoli indigeni, che svelano le contraddizioni e insostenibilità del sistema economico; come anche della loro visione e sapienza ancestrale, discernendo la presenza di Dio incarnata e attiva in questi popoli. La Chiesa, in particolare, è chiamata ad una testimonianza profetica al loro fianco: di denuncia delle strutture e sistemi ingiusti e insostenibili, nel caso specifico sostenuti da nuove potenze colonizzatrici che minacciano la regione Amazzonica. E poi anche, attraverso il dialogo, interculturale e pentecostale (cioè nello Spirito), di stimolare, accompagnare e sostenere l’emergere di alternative di sviluppo ecologico integrale costruite con le comunità sul territorio, combinando saggezza ancestrale, conoscenze tradizionali e scientifiche.
Ma è soprattutto la piattaforma di iniziative per l’ecologia integrale (Piattaforma di iniziative Laudato Si’) lanciata nel maggio del 2021, che ci mostra la decisa presa di posizione della Chiesa per una conversione all’ecologia integrale. Nella visione della Laudato si’ (LS 164), “l’interdipendenza ci obbliga a pensare a un solo mondo, ad un progetto comune”. Il percorso si articola in sette obiettivi interdipendenti: una risposta al grido della Terra, una risposta al grido dei poveri, un’economia ecologica, l’adozione di stili di vita semplici, un’educazione ecologica, una spiritualità ecologica, e una resilienza e valorizzazione della comunità. Qui vediamo come l’economia e la sostenibilità degli stili di vita siano parte integrante di una visione ecosistemica della missione. Come missionari comboniani, troviamo qui un quadro generale di riferimento per quella riqualificazione della presenza missionaria auspicata già da tempo nell’Istituto, ma che non ha ancora trovato adeguate concretizzazioni per difetto di una visione concreta e di meccanismi di realizzazione.
Una riflessione sull’esperienza comboniana di missione sostenibile
La realtà del nostro tempo presenta alcune analogie con quella che ha affrontato Daniele Comboni: ci troviamo di fronte ad un sistema socioeconomico insostenibile che genera morte e devastazione per interi popoli (ed oggi anche per il pianeta nel suo insieme). Nel contesto coloniale del suo tempo. Comboni sosteneva che il Vangelo era la realtà che avrebbe promosso la vita, la giustizia, la pace, la fraternità.
Nelle sue lettere e riflessioni, San Daniele Comboni raccontava la missione dell’Africa Centrale come la più “difficile e laboriosa”. È sempre complicato fare confronti, ma possiamo comprenderne il punto di vista: l’interno dell’Africa era ancora un continente inesplorato, molto difficile da penetrare per i formidabili ostacoli ambientali. Soprattutto, i costi in termini di vite umane e di mezzi finanziari erano così alti da far considerare a Propaganda Fide l’eventualità di una chiusura di quella missione. Detto in termini contemporanei, si trattava di una sfida di sostenibilità. Una sfida evidentemente non soltanto finanziaria, ma anche organizzativa ed ecclesiale.
Pur rimanendo figlio del suo tempo e dei relativi limiti culturali, Comboni percepisce la crisi di umanità e il “grido” degli africani, prende le distanze dallo sfruttamento in atto del Continente, denunciando e contrastando la riduzione in schiavitù e la tratta di esseri umani. Lo fa a partire da un impegno diretto sul campo e con un lavoro di advocacy a livello internazionale. Comboni è molto attento alle ingiustizie strutturali e cerca di contrastarle.
Fa una scelta di campo facendo “causa comune” con i popoli africani, si coinvolge completamente nell’impegno per la “rigenerazione” dell’Africa, che abbia come protagonisti gli africani stessi. E qui emerge la forza dell’ispirazione di Comboni: nel suo Piano per la Rigenerazione dell’Africa con l’Africa, pensa a centri di formazione, università per sviluppare attività artigianali e commerciali, oltre che a facoltà teologiche e scientifiche. In altre parole, sogna un’economia che promuova la vita e la missione. Non solo dal punto di vista dei mezzi di sostentamento e della sostenibilità delle strutture, ma anche per promuovere fraternità, giustizia e pace su un territorio devastato dalle vicende politico-militari ed economiche del suo tempo.
Comboni era tra le persone del suo tempo che meglio conoscevano l’Africa e la varietà di esperienze missionarie in quel continente. Aveva letto e studiato molto, aveva un’invidiabile esperienza sul campo, conosceva e manteneva relazioni con tutto il movimento missionario del suo tempo. Tutto questo ha contribuito alla sua intuizione di un modello di missione sostenibile per il Vicariato dell’Africa Centrale. Si trattava di un modello che teneva conto di diversi aspetti integrati tra di loro: la dimensione ecclesiologica, quella ministeriale, la formazione e le risorse economiche. Insomma, il suo modello di riferimento era una sorta di ecosistema missionario.
L’intuizione di Comboni segna una discontinuità con la pratica missionaria nell’Africa Centrale. Questa si era basata su alcuni assunti: un approccio diretto verso l’interno del Continente e la formazione di agenti pastorali in Europa, inclusi giovani ragazzi e ragazze africane liberati dalla schiavitù e preparati per annunciare il Vangelo alla propria gente. Inoltre, c’era una frammentazione delle spedizioni missionarie, dovuta anche al contesto storico coloniale, per cui l’accesso ai territori africani risentiva del controllo o della protezione degli stati coloniali europei.
Il Piano di Comboni, invece, propone una visione diversa. Anzitutto promuove un’opera che sia “cattolica”, sotto l’egida di Propaganda Fide, anziché essere spagnola, francese, tedesca o italiana. Questo significava autonomia dagli stati coloniali, la cui presenza nei territori africani si associava spesso a contro-testimonianze dal punto di vista evangelico. Inoltre, per Comboni la missione era impegno di tutta la Chiesa: il suo lavoro di animazione in Europa era volto a promuovere vocazioni missionarie ed il coinvolgimento del popolo nella missione, attraverso la preghiera ed il finanziamento economico dell’impresa missionaria.
La visione di Comboni era di promuovere la rigenerazione dell’Africa con l’Africa. Sono parole che Comboni ha scelto con grande attenzione. Da un lato riflettono lo spirito del tempo. L’idea di rigenerazione di un popolo era molto popolare nel contesto dei movimenti risorgimentali dell’800 e Mazzini stesso aveva rielaborato questo concetto. Ma per Comboni, la rigenerazione del popolo avviene in Cristo Risorto. Inoltre, si tratta di una rigenerazione che non cancella i doni e le particolarità di cui i popoli sono portatori, ma anzi li valorizza, tanto che Comboni descrive la presenza dell’Africa nella Chiesa come una “perla bruna”, quindi preziosa ed unica. Tutto questo ci fa capire come la dimensione culturale e spirituale sia parte integrante di un modello sostenibile di missione.
Un modello, infine, deve tener conto del contesto locale. Il Sudan della seconda metà dell’800 era un ambiente inospitale per la missione. Politicamente sotto la spinta espansionistica dei Turchi, era afflitto dalla tratta orientale di africani ridotti in schiavitù. Per questo Comboni guardava al modello delle Riduzioni gesuite in Paraguay, una realtà che mostrava che si potevano proteggere degli insediamenti cristiani dal sistema coloniale e schiavistico, promuovere la rigenerazione dei popoli locali, organizzare una società alternativa che si potesse auto-sostenere[4]. Con questo modello in mente, Comboni pensa anzitutto a dei centri di formazione per africani ed europei sulla costa, ed infatti comincia con il fondare due Istituti educativi, per ragazzi e ragazze, al Cairo. Con lungimiranza, inoltre, vedeva per il futuro la necessità di fondare anche quattro piccole università teologico-scientifiche per la preparazione di una classe dirigente di livello. L’idea era quella di preparare ed inviare evangelizzatori all’interno, capaci di dar vita a comunità autosufficienti, in grado di prendersi cura tanto dei propri bisogni spirituali quanto di quelli materiali, ad esempio attraverso la produzione agricola o le arti e mestieri necessari per i bisogni della comunità. Le esperienze di Malbes (vicino ad El Obeid, in Sudan) e di Gezira (al Cairo) mostrano questo approccio in atto.
Comboni muore a Khartoum a 50 anni, consumato dalle febbri e i patimenti di una vita che non gli ha lesinato difficoltà di ogni sorte. Subito dopo, la Mahdia – la rivoluzione islamica – spazza via le sue missioni. Tuttavia, il modello di sostenibilità della missione continuerà, grosso modo, al ritorno dei missionari comboniani. Per lo meno, in alcuni dei suoi caratteri fondamentali: molto semplicemente, l’Istituto svolge un lavoro di animazione missionaria in Europa, per coinvolgere il popolo di Dio nella missione attraverso la preghiera per la missione, la promozione vocazionale, la raccolta di offerte per sostenere il lavoro missionario nel Sud del mondo e le spese di formazione.
Oggi questo modello sta esaurendo la sua capacità di far fronte a nuove situazioni globali. Ad esempio, la significativa contrazione delle comunità cristiane e le tendenze demografiche in Europa comportano un’importante riduzione di vocazioni missionarie e di sostegno economico per la missione. Se da un lato la crescita vocazionale in Africa bilancia la decrescita in Europa, la capacità di sostegno delle comunità cristiane africane è ancora in parte inesplorata o, comunque, di diversa portata rispetto a ciò che è stato in Europa nei decenni passati. Inoltre, l’invecchiamento di ampi gruppi di missionari europei fa emergere la sfida della cura dei missionari anziani ed ammalati, oltre quella già citata della formazione delle nuove generazioni di missionari. Tutto questo ha dei costi che non è facile coprire. Da quanto detto, è evidente il bisogno di trovare nuovi modelli di sostenibilità della missione. Modelli che non guardino semplicemente all’aspetto economico, ma all’intero ecosistema missionario. Tenendo presente un fatto fondamentale: nella storia della missione comboniana, che si protrae da oltre 150 anni, non c’è mai stata una “sicurezza” economica: nell’equazione della sostenibilità c’è un fattore fondamentale, la fiducia nella Provvidenza, che però non significa irresponsabilità, ma continuo impegno per trovare e ben amministrare le risorse di cui la missione ha bisogno.
Una ricerca di modelli contestuali di sostenibilità
Daniele Comboni aveva elaborato il suo modello di missione a partire dall’esperienza, riflettendo e ricercando soluzioni nuove laddove si rendeva conto che l’organizzazione e le pratiche missionarie non erano sostenibili. Il suo Piano, dunque, non era nato a tavolino, da una teoria. Ora che il modello di sostenibilità della missione ereditato da Comboni sembra segnare il passo, è necessario esplorare la possibilità di nuove configurazioni dell’ecosistema missionario.
Come abbiamo visto più sopra, tali configurazioni devono fare sistema, tenendo assieme non solo l’aspetto economico, ma anche le risposte alle sfide odierne della missione, che sono molto più variegate che nel passato, a seconda dei diversi contesti di missione. Inoltre, tali risposte non possono essere “asettiche”, ma saranno inevitabilmente influenzate dalla cultura e dalla spiritualità di chi le ricerca, le trova e le propone. Senza contare che quello che potrebbe funzionare in un dato continente, potrebbe non essere fattibile in un altro. In altre parole, anche il contesto socioculturale della missione è parte dell’equazione.
Questa riflessione intende a questo punto proporre degli spunti che vengono da varie esperienze in diversi continenti. Non si tratta ancora di modelli di sostenibilità della missione nel suo insieme; tuttavia, propongono degli elementi su cui riflettere ed avviare un dibattito, anche teologico-ecclesiologico, che potrebbe aiutarci a individuare nuovi percorsi ed ecosistemi sostenibili.
Ecuador-Colombia: inserzione lavorativo-pastorale tra gli emarginati
Questa esperienza nasce all’inizio degli anni ‘90 in Ecuador, a partire dall’esperienza di due missionari che vivevano e lavorano ad Esmeraldas, in una zona rurale. Nonostante la loro presenza fosse apprezzata dalla gente ed il ministero missionario stesse portando frutti, questi missionari si trovavano molto a disagio:
“Avevamo una cosa di cemento di due piani perché dovevamo preservare la salute per un miglior servizio ai fratelli. Avevamo un’automobile per arrivare più in fretta a visitare le comunità e per portare gli ammalati all’ospedale. Avevamo cuoca e lavandaia per non perdere tempo prezioso per l’evangelizzazione cucinando e facendo il bucato. Avevamo il frigorifero per comprare il cibo all’ingrosso meno caro e così conservarlo. Avevamo i milioni che arrivavano dall’Europa per aiutare la gente povera e per costruire per loro delle strutture che li promuovessero.
Per ogni cosa c’erano ottime e convincenti motivazioni, però quando guardavi come viveva la gente intorno a te, vedevi che la loro casa era di canna, l’automobile non ce l’avevano, come non avevano né cuoca né lavandaia, né frigorifero, né tanto meno i milioni come noi. Così nella zona noi eravamo gli unici a non essere poveri. Noi avevamo fatto il voto di povertà, loro lo vivevano”.
Questa “crisi” spirituale ha portato questi missionari a cercare un tipo diverso di inserzione. Così sono arrivati nella periferia di Guayaquil, vivendo in una palafitta sul mare con poche cose, lavorando quattro ore al giorno per mantenersi, producendo e vendendo porta a porta il latte di soia, che avevano imparato a fare ad Esmeraldas. Hanno tagliato con gli aiuti economici di ogni tipo, cercando di camminare al ritmo e con i mezzi della gente annunciando Gesù Cristo, promuovendo le comunità di base e l’organizzazione popolare per affrontare i problemi della gente.
Questa visione era anche sostenuta da una riflessione teologica, a partire dal mistero dell’incarnazione di Gesù, riflettendo sulla povertà evangelica, sull’impatto che la disponibilità dei beni ha nelle relazioni con la gente. La scelta di un lavoro manuale semplice, che avvicina alle attività più comuni della gente del quartiere, ha anche lo scopo di avvicinarsi alla loro esperienza ed alla loro realtà socioeconomica. Infatti, questi missionari notano che
“il lavorare come l’altra gente, il vivere alla giornata come loro, il vivere in una palafitta con poche cose come loro, il cercare e caricare l’acqua insieme a tutti loro tutti i giorni e a volte il restarne senza insieme a loro, l’aiutarsi tra vicini, il prestarsi tante piccole cose crea tra noi e l’altra gente un rapporto nuovo, meno da su a giù, più fraterno, più da amico, più da compagno di sventura nella comune povertà, cosa che ci sembra un importante punto di partenza per l’annuncio del Vangelo, per favorire la crescita del Regno, della fraternità e della condivisione”.
Ovviamente, questi missionari hanno la consapevolezza di essere comunque in una posizione molto diversa da quella gente locale. Ogni tre anni tornano a casa, nel loro paese di origine, in aereo; se si ammalano hanno accesso all’assistenza sanitaria; hanno fatto studi universitari e, soprattutto, non sono obbligati a quelle condizioni di vita, ma le hanno abbracciate per scelta. Ma come si è capito, non si tratta di “giocare” a fare i poveri, ma di cercare di avvicinarsi a loro più che si può.
Sperimentare la preghiera in quell’ambiente, ad esempio, è una sfida interessante: musica e televisioni ad altissimo volume, grida di bambini, il caos quotidiano della vita non sono certo un ambiente che facilita il raccoglimento! Ma come proporre alla gente del quartiere un incontro con Dio se non si è capaci di costruirselo in mezzo al frastuono quotidiano? Quindi anche la vita di preghiera cresce e si trasforma in tale contesto: cercare nei poveri la Parola e la Presenza di Dio, i semi del Regno che lo Spirito ha seminato; portare davanti a Dio tutte le sofferenze e le speranze del popolo; riscoprire tanti testi biblici che prendono un significato nuovo quando si leggono a partire da quel contesto di povertà.
Infine, per quanto riguarda la dimensione di promozione umana, la scelta è quella di puntare sull’organizzazione comunitaria, perché sia la gente stessa a generare un’alternativa, una società più giusta e fraterna. Questo aiuta le persone a riscoprire la propria dignità, a superare la sindrome di dipendenza. Al tempo stesso, richiede una denuncia delle strutture di peccato, cioè dell’ingiustizia strutturale che impoverisce ed esclude parti sempre più ampie della popolazione.
Tra gli spunti interessanti di questa esperienza, emerge anzitutto l’aderenza della dimensione economica e di stile di vita alla dinamica di inserzione ed annuncio del Vangelo. Inoltre, le spese ordinarie della missione vengono sostenute con il lavoro dei missionari; al tempo stesso, si tratta di un lavoro che li avvicina alla gente, crea vicinanza, fraternità e fiducia reciproca che rendono la testimonianza del Vangelo molto vicina, significativa e credibile.
Altro aspetto interessante, questo approccio è tuttora portato avanti in una realtà diversa dell’America Latina, vale a dire la Colombia, dimostrando la propria fattibilità in diversi contesti, per esempio in quartieri popolari prevalentemente abitati da afro-discendenti a Bogotà e, più recentemente, a Cali. Tuttavia, rimane un modello legato ad alcuni missionari: dopo 30 anni di pratica, non ha ancora trovato adesioni diffuse, tale da poter essere valutato a livello sistemico. Il motivo sembra essere a livello di sensibilità culturale e spirituale, in quanto per adottare questo approccio sembra necessario identificarsi con un particolare cammino spirituale, altrimenti non si riesce ad assumerlo. Anzi, negli anni questa testimonianza missionaria ha generato sia simpatie che ruvide controversie. In ogni caso, in termini di sostenibilità – anche economica – della missione, è chiaro che gli spunti di questa esperienza possono essere di ispirazione per quanto riguarda la presenza missionaria locale, ma non arrivano a considerazioni sistemiche a riguardo di questioni quali il costo della formazione e delle cure per i missionari anziani ed ammalati.
Brasile: una cooperativa per la trasformazione sociale
Un’altra esperienza interessante dall’America latina è quella di un missionario in Brasile, che a partire da una realtà di degrado, disumanizzazione e devastazione ambientale ha intrapreso un cammino con gli esclusi sulla base di un’economia di comunione. Ecco come racconta la sua storia:
“Sono arrivato a Santa Rita nel marzo 2007. Ciò che ha attirato maggiormente la mia attenzione è stato il gran numero di persone che sopravvivevano raccogliendo materiali riciclabili per strada e nelle discariche. Così, insieme a un gruppo di laici abbiamo iniziato a visitare le famiglie di questi raccoglitori di rifiuti per conoscerli da vicino. Poi abbiamo iniziato a fare incontri per conoscerci e per condividere la vita. A poco a poco è nata l’idea di unirci in una cooperativa di raccoglitori di rifiuti per ottenere un miglioramento economico.
Abbiamo iniziato un processo di formazione che è durato quasi tre anni, nutrendoci sempre della Parola di Dio. Il gruppo di coordinamento era cattolico, ma la maggior parte dei raccoglitori erano evangelici, anche se molti non frequentavano nessuna Chiesa. Abbiamo anche dato priorità al rafforzamento della nostra autostima attraverso momenti di formazione umana. C’è stata molta riflessione e discussione su come organizzarci e sulla necessità di sensibilizzare la popolazione sulla raccolta differenziata e sul miglioramento dell’ambiente. Il 10 ottobre 2009 è stata inaugurata la Cooperativa dei Riciclatori di Marcos Moura – COOREMM.
Questa cooperativa-ministero è un progetto di inclusione sociale di un gruppo molto ampio di famiglie che vivono ai margini della società e completamente escluse dal mondo del lavoro. Infatti, si rivolge non solo ai 30 raccoglitori di rifiuti che collaborano, ma anche a centinaia di famiglie che cercano di sopravvivere raccogliendo e vendendo materiali riciclabili, e che hanno bisogno di recuperare la loro autostima e la loro dignità di cittadini e figli di Dio.
La Cooperativa acquista i materiali da tutti, indistintamente, soci e non, allo stesso prezzo che viene rivenduto alle fabbriche che riciclano. I raccoglitori che collaborano fanno la raccolta differenziata in tre grandi quartieri della periferia di Santa Rita che contano una popolazione di circa 80 mila abitanti. Abbiamo molti momenti di formazione, cerchiamo di stabilire relazioni fraterne tra di noi, e rapporti etici con la popolazione e con le aziende che acquistano i nostri materiali.
Molte persone ed entità sono state coinvolte nel nostro lavoro donando materiali riciclabili e beni di consumo. Tra gli obiettivi raggiunti figurano la licenza ambientale; la raccolta selettiva nei quartieri; l’aumento dell’autostima e della dignità dei raccoglitori di rifiuti; l’accettazione della popolazione che simpatizza con la nostra organizzazione; e il miglioramento economico dei raccoglitori di rifiuti. Ma penso che il risultato migliore sia che oggi i raccoglitori di rifiuti sono rispettati e vedono un futuro. Anche il gruppo di coordinamento è cresciuto e ha imparato molto da questi poveri, ricchi di umanità e di volontà di lottare per un mondo migliore.
In questo processo di costruzione, mi sono impegnato personalmente al punto di voler vivere nello stesso loro quartiere, a Marcos Moura, in una casa simile alla loro, affrontando le sfide di un luogo completamente dimenticato dal potere pubblico e dominato dagli spacciatori di droga. Queste esperienze ci insegnano che dagli esclusi e dagli scarti della società può nascere una nuova storia, piena di speranza, la speranza di una nuova vita, di un nuovo domani, del pane di ogni giorno e la gioia di sentirci fratelli, più umani, più immagine di Dio”.
Questa esperienza è molto simile alla prima, anche se in un contesto diverso. Sotto un aspetto va anche oltre il caso di Ecuador-Colombia, in quanto la dimensione cooperativa e imprenditoriale offre interessanti possibilità di un modello che può essere replicato e aumentato di scala. Siamo nell’ambito dell’imprenditoria sociale, con ritorni economici, sociali ed ambientali. Infatti, gli obiettivi di questo ministero sono l’inclusione sociale dei raccoglitori, la cura dell’ambiente (raccolta differenziata e riciclaggio), la coscientizzazione della popolazione sulle questioni ambientali (sensibilizzazione nelle scuole e nel quartiere), e la crescita di una spiritualità e conversione ecologica.
I missionari che lavorano nella cooperativa sono soci come gli altri e in questo modo riescono a sostenersi localmente. La finalità della cooperativa non è certo quella di massimizzare i profitti; quindi, anche i margini di guadagno non sono enormi. Anche perché un servizio che intenda promuovere la giustizia sociale ed ambientale deve far fronte a costi e ritorni diversi da quelli di chi guarda essenzialmente ai profitti. É evidente che ci sono rifiuti di “categorie” diverse, cioè quelli della parte di città che può pagare per la loro raccolta e smaltimento, e quelli di chi non può permetterselo. Tuttavia, nel contesto brasiliano questa iniziativa cooperativa può essere sostenibile in collaborazione con l’amministrazione locale che, nel rispetto della legge (n. 12.305 del 2 agosto 2010), si deve impegnare a pagare i raccoglitori per il loro servizio.
Questo ministero ha il merito di promuovere l’integrazione sociale dei raccoglitori e delle loro famiglie, un impatto ambientale positivo nel quartiere, e la crescita di relazioni commerciali etiche e corrette con industrie che lavorano materiali da riciclare. C’è un cammino ecumenico e la conferma che dagli “scarti” della società si può costruire una nuova storia, carica di speranza e di trasformazione.
In conclusione, l’introduzione di una prospettiva di imprenditoria sociale è molto interessante dal punto di vista sistemico, in quanto può potenzialmente dare – se non delle risposte complete – almeno un contributo a costi strutturali quali la formazione e la cura di missionari anziani ed ammalati.
Europa: dalla fattoria bio-sociale alla condivisione di spazi e vita
Anche in un contesto molto diverso, come quello europeo, possiamo trovare delle innovazioni che suggeriscono nuovi modelli sostenibili di missione. La situazione europea è molto particolare in quanto si trova ad affrontare la sfida di strutture divenute insostenibili, per la forte diminuzione tanto di risorse che di personale, che oltretutto presenta un’età media molto elevata. Non sono certo le condizioni ideali per l’innovazione, che richiede energia, creatività e dinamismo, caratteristiche che si trovano più facilmente tra i giovani. Tuttavia, l’esperienza comboniana di Milland (Brixen - Italia) dimostra che è ben possibile anche in tali condizioni di difficoltà aprire strade nuove sostenibili. L’idea è molto semplice: i missionari hanno degli immobili e proprietà che costituiscono un capitale prezioso, ma non necessariamente oggi hanno anche il personale, le energie e le competenze per trasformarlo a servizio della missione. A Milland è stato fatto un bando di concorso aperto alla società civile per un progetto di utilizzo dei terreni della comunità. Ci sono state una cinquantina di proposte progettuali, tra le quali è stata selezionata quella di una fattoria bio-sociale, una vera e propria impresa sociale che prevede un ritorno economico, sociale ed ambientale. Va sottolineato come il concorso e i criteri di selezione del progetto vincitore fossero centrati sui valori della missione comboniana. Inoltre, la comunità comboniana accompagna ed investe nell’azienda, oltre che trarne dei ricavi dall’affitto dei terreni.
I destinatari del progetto sono diversi: le persone che vi lavorano e i loro famigliari, che sono tutte persone in situazioni di vita difficili. L’approccio è quello di vedere ogni persona come un essere umano da accompagnare per un pezzo della sua strada, non volgendo lo sguardo al problema che colpisce la persona, ma alla persona stessa. Poi ci sono i “clienti”, cioè tutte le persone che per caso o per scelta vengono ad acquistare i prodotti della fattoria, a trascorrere le vacanze e, prossimamente, anche a mangiare una volta avviato il servizio di ristorazione, basato sui prodotti della fattoria. Dal punto di vista economico aiutano a tenere in piedi il progetto e molto spesso lo pubblicizzano. C’è anche una stretta collaborazione con i servizi che operano sul territorio nei vari settori del lavoro sociale: servizi sociali locali, centro di salute mentale, servizio per la cura delle dipendenze, Casa della Solidarietà (accoglienza), centri profughi, enti formativi o educativi pubblici e privati di vario livello, forze dell’ordine, servizi per donne esposte a situazioni di violenza. Inoltre sono coinvolti nel progetto dei volontari e alcune piccole aziende locali che sostengono il progetto. La chiave per la sostenibilità del progetto è la costituzione di una articolata connessione con il territorio, di relazioni che generano vita, opportunità, sinergie. Ciò rappresenta anche un nuovo punto di partenza per ricostruire quei legami con il territorio che negli ultimi 20 anni, in Italia ad esempio, sono diventati sempre più difficili da stabilire e sviluppare. Infatti, l’indebolimento delle appartenenze sociali, specie tra le nuove generazioni, l’atteggiamento difensivo di tante parrocchie che si stanno svuotando, la crescente diffidenza o indifferenza verso le istituzioni, anche quelle religiose, e le conseguenze delle crisi economiche hanno radicalmente ridotto l’accesso e il coinvolgimento delle comunità missionarie con il territorio. L’esperienza della fattoria bio-sociale apre nuovi scenari per costruire questi spazi di comunione e per quella trasformazione della mentalità e della cultura economica di cui il mondo tanto abbisogna oggigiorno.
Ovviamente, come in tutte le realtà imprenditoriali, la riuscita dell’iniziativa non è scontata a priori. Anzi, l’evento della pandemia di COVID 19 poco dopo il lancio della fattoria bio-sociale – oltre ad altri fattori interni ed ambientali – ha rappresentato una seria minaccia alla sostenibilità dell’impresa sociale. Il rischio di impresa rimane sempre, ma ciò non toglie che la strada, pur difficile, valga la pena di essere percorsa, pur con la consapevolezza che probabilmente non potrà essere l’unica da seguire.
Ad ogni modo, ci possono anche essere percorsi che seguano tale strada della condivisione di strutture e di vita che non comportino un rischio d’impresa laddove non siamo in grado di assumerlo. Un esempio è l’esperienza comboniana a Trento, dove i missionari abitano in una struttura a due piani divenuta troppo grande per la piccola comunità rimasta, il cui profilo demografico fa capire che non può avere le energie ed il dinamismo del passato. Inoltre, le strutture costano e il loro mantenimento sta diventando un problema.
Quello che è successo a Trento è molto semplice: un piano della struttura è stato concesso in comodato d’uso al Centro Astalli, per l’accoglienza richiedenti asilo e rifugiati. La metà dell’altro piano è gestito ancora dal Centro Astalli, per un’accoglienza di studenti universitari. In questo modo, la comunità comboniana si trova ora a dover gestire spazi alla propria portata e ad avere una semplice presenza di testimonianza e collaborazione, adeguate alle proprie forze, che la rende comunque significativa. La riduzione delle proprie forze e risorse l’ha portata a collaborare e ad avere una presenza gioiosa, semplice e sostenibile.
Kenya: una cooperativa di risparmi e crediti
Passando all’Africa, un caso studio molto interessante è quello della Verona Huruma Savings and Credits Cooperative (VH Sacco), i cui albori risalgono al 1991 con la formazione di un gruppo informale di risparmio di 15 persone che si ritrovavano regolarmente in una delle piccole comunità cristiane della missione comboniana di Kariobangi, nei bassifondi di Nairobi, più precisamente nella zona di Huruma. Si tratta di una pratica comune tra la classe sociale più svantaggiata delle periferie delle città keniote, una pratica che viene chiamata “merry-go-round”, in inglese una piccola giostra che gira e dà allegria. Ogni settimana ciascun membro del gruppo deposita una piccola somma ed a turno i membri raccolgono i contributi. In questo modo riescono a generare un piccolo capitale a turno per soddisfare dei bisogni o fare dei piccoli investimenti che altrimenti non sarebbero possibili. Il gruppo di Huruma funziona bene e cresce, tanto che nel 1994 si trasforma in Huruma Self-help Group, un gruppo di mutuo soccorso formalmente costituito. Nella convinzione, basata sull’esperienza, che anche piccole somme possono fare la differenza nelle condizioni di vita delle periferie di Nairobi, il gruppo riscuote un rapido successo grazie al grande capitale sociale di fiducia e integrità dovuto al contesto parrocchiale. Infatti, in Kenya molte esperienze di questo tipo sono tristemente fallite e questo può rendere le persone diffidenti verso le forme cooperativistiche. Ma non in questo caso. Il gruppo riesce ad operare una grande mobilitazione dei residenti della zona, che si uniscono a questa associazione per proteggere il risparmio familiare e favorire l’accesso ai crediti. Questa iniziativa rende accessibili tali servizi ad un’ampia parte della popolazione che non è in grado di ottenerli dal settore bancario formale, in quanto ha un reddito minimo, non stabile e vive in condizione di grande vulnerabilità.
La parrocchia rimane al centro di questo percorso. L’amministrazione e la gestione delle attività sono responsabilità del gruppo stesso, ma gli uffici del progetto e la cultura, la spiritualità dei soci – il capitale “sociale” – vengono offerti, curati, accompagnati dalla parrocchia. Questo modello ha un successo tale che nel 2013, in forza alla grande espansione del gruppo, avviene un importante salto di scala: il progetto si trasforma in Sacco (cooperativa di risparmi e crediti), quindi con la possibilità di fare anche investimenti. Nel 2017, c’è un ulteriore passaggio: dalla dimensione locale si passa alla scala nazionale. Oramai, la cooperativa comprende oltre 15 mila soci, di diversa estrazione sociale ed offre un’ampia gamma di servizi: anzitutto la raccolta di risparmi (nella forma di quote di capitale della cooperativa, che quindi si possono ritirare solo uscendo dalla cooperativa) e varie modalità di prestiti agevolati. Dai prestiti coperti da garanzia (al tasso di interesse dello 0,8%), a quelli garantiti da altri soci (al tasso di 1,28%), a quelli auto-garantiti dalle proprie quote, ai prestiti istantanei attraverso una App sul cellulare. E tutto questo a fronte di un mercato bancario dei prestiti con tassi che in media vanno dall’8% al 12%. Inoltre, la cooperativa paga ai soci dei dividendi sui risparmi.
Gli investimenti finanziari e immobiliari sono diventati una parte importante del bilancio. In particolare, gli investimenti in terreni e immobili residenziali rendono accessibile questo mercato ai soci, grazie a tassi equi e di lungo periodo, oltre che alle economie di scala. Questo fattore ha contribuito in maniera significativa all’apertura della cooperativa oltre ai confini di Kariobangi-Huruma.
Inoltre, la dimensione sociale della attività della cooperativa emerge anche nei piani di assicurazione e finanziamento delle spese sanitarie, un programma di borse di studio per i bambini e ragazzi bisognosi, un programma di responsabilità sociale d’impresa, che si rivolge ai bisogni dei più bisognosi e, fin dal principio del cammino del gruppo, un sostegno alla Chiesa, riconoscimento per i valori evangelici e per il capitale sociale di fiducia e integrità che promuove. La spiritualità – aperta, che accoglie tutti senza badare alle appartenenze ed affiliazioni socioculturali e religiose – non è un aspetto secondario del percorso di questa organizzazione.
Questa esperienza è il frutto di vari fattori favorevoli concomitanti: un contesto socioculturale particolare, con un grande capitale sociale di cui la Chiesa è un polo aggregante; un contesto economico escludente che spinge i bisognosi nell’informalità, ma con un grande potenziale di espansione: crescita economica, demografica e territoriale, la possibilità di economie di scala, i grandi volumi a partire da piccole quantità, la creatività e la capacità di innovazione. I risultati di bilancio sono impressionanti: i dividendi negli ultimi anni (prima della pandemia) erano al di sopra del 13%, con una capitalizzazione che è arrivata a 1,4 miliardi di scellini (circa 12 milioni di euro, tra quote sociali ed investimenti) nonostante la grande concorrenza, crisi economiche ricorrenti nel corso degli anni e inflazione. Ma soprattutto, sono la capacità di rispondere ai bisogni di chi normalmente rimane escluso dai circuiti economici formali e l’impatto sociale delle sue attività che testimoniano l’importanza di questa iniziativa. Dal punto di vista della sostenibilità della missione, inoltre, questo scenario ci indica delle possibilità interessanti: un percorso di “evangelizzazione” dell’economia, oramai non solo a livello locale ma addirittura nazionale, che può coinvolgere la Chiesa, offrendole anche delle opportunità di investimento a fianco della gente che accompagna.
L’Alleanza comboniana per l’impresa sociale
Nel contesto africano, sta emergendo anche una nuova esperienza di imprese sociali, grazie all’iniziativa e ricerca dell’Institute for Social Transformation (Tangaza University College, Nairobi), fondato e diretto dai comboniani. In Africa la missione sta affrontando la sfida della sostenibilità economica, con il venire meno delle donazioni dai paesi ad economia avanzata. Anche le chiese locali sono molto coinvolte nella raccolta fondi e spesso si cerca la strada delle “rendite” per auto-finanziarsi. Questo è comprensibile, in quanto si tratta di un modello che in fondo riflette l’impostazione del passato, sostituendo i fondi che provenivano dall’Europa e dal Nord America con quelli di affitti e altre rendite. Tuttavia, questo approccio appare problematico, quando si constati che è proprio il meccanismo della rendita uno dei problemi fondamentali dell’economia odierna. Bisognerebbe invece investire in lavoro sostenibile, che è ciò di cui c’è veramente bisogno, che apre nuovi spazi pastorali, avvicina alla gente ed alle sue condizioni di vita e può realizzare un’economia reale alternativa.
L’idea di fondo è che un’impresa sociale è uno strumento per risolvere problemi comunitari, per costruire il bene comune. Così è nata la Comboni Alliance for Social Entrepreneurship (CASE), un’opera comboniana che si propone di facilitare la nascita e la crescita di imprese sociali nel contesto delle missioni comboniane nel continente. Ovunque le comunità missionarie si trovano fronteggiare seri problemi sociali che sono anche un banco di prova per l’annuncio evangelico. CASE propone di impegnarsi con i giovani del posto, valorizzandone potenziale e creatività, per la soluzione di tali problemi, creando occupazione e soluzioni sociali partecipate innovative. Grazie ad una formazione mirata, i giovani imparano a identificare opportunità generate dai problemi sociali ed a progettare ed avviare soluzioni sostenibili. Oltre alla formazione, può offrire un accompagnamento umano e professionale, collegare i giovani ad un ecosistema delle imprese sociali, mettere a disposizione un polo di innovazione sociale e sviluppo, facilitare l’accesso a finanziamenti e l’avviamento di nuove imprese.
Si tratta di un’esperienza ancora agli inizi, ma che già mostra riposte interessanti in diversi paesi africani, come la Repubblica Centrafricana, il Ciad, il Togo, l’Uganda, il Benin. Una delle sfide missionarie con il cambio della geografia delle vocazioni è la sostenibilità dell’approccio pastorale: i missionari europei, potendo disporre di sostegno e mezzi, hanno avviato vari progetti di sviluppo e assistenza che ora è piuttosto difficile continuare. Questo può comportare addirittura un rigetto da parte delle popolazioni locali verso le nuove generazioni di missionari, risentite per il mancato aiuto materiale. La proposta di CASE, tuttavia, aiuta a fare un passaggio importante, a superare la sindrome di dipendenza e il senso di impotenza, a facilitare un cambio di mentalità. La gente comincia a riscoprire la propria forza e potenziale, la possibilità di prendere l’iniziativa e cambiare la propria situazione, a tradurre la propria fede in impegno per la vita, trasformando la propria comunità. É emblematica la reazione di un gruppo di giovani in Centrafrica, che anziché sognare di andarsene dal proprio paese ora vuole acquisire le competenze per trasformarlo. Cambia il modo di vedere e rapportarsi alla realtà, in modo ispirato dal Vangelo e sostenuto da una viva spiritualità. Al tempo stesso, comincia a cambiare anche la visione dei missionari: alcuni cominciano a riconoscere che ci sono risorse locali che possono essere utilizzate per sostenere la comunità ed il lavoro pastorale, in collaborazione con la gente. A livello di circoscrizione, inoltre, si comincia a parlare della possibilità di un qualche impegno di investimenti ad impatto sociale, contribuendo così ad iniziative che trasformano la realtà locale, unendo al ritorno economico quello sociale ed ambientale. Ma per questo c’è bisogno di una ricerca, di una sperimentazione per identificare, sviluppare e adattare dei modelli replicabili.
Naturalmente queste esperienze sono tutt’altro che facili e comode, farle funzionare è molto laborioso e bisogna affrontare grandi difficoltà. Bisogna crederci, avere fede e non scoraggiarsi; anzi, nella visione di Comboni stesso, proprio queste “croci”, che sono il prezzo da pagare per la fedeltà alla missione, sono un segno dell’origine spirituale di queste opere.
Un sistema di sostegno per nuovi percorsi
Queste esperienze ci fanno intravvedere un’azione dello Spirito nella missione oggi. Di qui nascono delle intuizioni, delle riflessioni e l’invito ad esplorare nuovi percorsi per assecondare quello che lo Spirito sta già operando. Il primo passo, dunque, è quello del discernimento, che porta a scegliere un senso di direzione per la missione in relazione all’economia. Poi viene il passaggio forse più difficile: trasformare le intuizioni ispirate in una realtà concreta, funzionante. Questo è forse il punto su cui più frequentemente ci incagliamo, in quanto ci manca un approccio sistematico, che richiede di ideare ed accompagnare percorsi, sperimentare, dare continuità, investire energie e personale, e affrontare le grandi difficoltà che la costruzione di nuovi percorsi per una transizione di modelli di inserzione missionaria inevitabilmente comporta.
Se questa transizione ancora non si vede all’orizzonte, è anche perché non ci si è ancora dati gli strumenti e le competenze per elaborarla. Servono competenze e risorse adeguate, e la capacità di mobilitare e rendere generativo l’enorme capitale sociale del mondo missionario e della società civile. Si tratta cioè di creare uno spazio di incontro tra:
- Nuovi modelli di presenza missionaria, includendo delle forme di imprese sociali o cooperative integrate in pastorali specifiche rivolte a particolari gruppi umani.
- Giovani, con la loro energia e creatività.
- Territori, con le loro ricche articolazioni di società civile ed ecclesiale.
- Conoscenze che si completano: scientifiche, professionali, missionarie, delle culture della vita.
- Processi partecipativi: per l’innovazione socioeconomica, con un orizzonte eco-sistemico. Qui si sottolinea l’importanza di una partecipazione autentica, a livello decisionale, di una varietà di attori complementari che partecipano al cammino della missione.
- Reti: sia per elaborare e diffondere modelli alternativi, sia per contrastare sistemi iniqui e insostenibili.
- La dimensione “profetica” di denuncia di strutture di peccato e di annuncio di nuove possibilità di vita in pienezza. Decostruire sistemi ingiusti ed insostenibili è indispensabile per dare spazio ad alternative umanizzanti, attraverso il lavoro di advocacy che comporta. Se non cambiano le regole del gioco globale, nessuna alternativa globale potrà mai vedere la luce.
Per tessere un simile spazio sembra opportuno adottare una qualche forma di ente giuridico riconosciuto – al di là dell’Istituto comboniano, che da solo non sarebbe in grado di far nascere e portare avanti dinamicamente un simile percorso. La forza di tale ente, comunque ben connesso alla realtà missionaria, sarebbe la capacità di attivare le connessioni e convocare le diverse parti sociali ed ecclesiali che possono contribuire a tale spazio, ed una rete di contatto sul territorio, che significa accesso a situazioni, comunità e contesti in cui la presenza di lungo periodo permette di partire da un capitale sociale considerevole.
Come realtà istituzionale, tale ente si avvarrebbe di competenze professionali e risorse materiali che egli stesso mobiliterebbe, cioè non dipenderebbe per personale e fondi dall’Istituto comboniano. Tuttavia, il suo lavoro costituirebbe un laboratorio di innovazione per sviluppare delle risposte alle situazioni di esclusione socioeconomica e devastazione ambientale attraverso la lo studio e la promozione di nuovi ecosistemi sostenibili e umanizzanti, di cui anche gli istituti missionari possono poi avvalersi nel loro ministero.
Scenari operativi
Serve a questo punto la capacità di mettere in pratica questa visione. Un ente di origine missionaria, per esempio una struttura leggera voluta e supervisionata da degli Istituti missionari, sarebbe la chiave per mettere assieme le competenze, le risorse e dare la continuità necessaria a dei percorsi di innovazione.
Uno scenario di impegno di un tale ente potrebbe essere quello a sostegno della pastorale sociale. Partendo da degli ambiti sociali specifici (ad es. afro-discendenti in America Latina, o residenti delle periferie degradate o baraccopoli in Africa, ecc.), si tratta di sviluppare delle pastorali sociali specifiche e, anche in questo caso, degli ecosistemi sostenibili in cui queste pastorali possano mantenersi e promuovere processi di trasformazione sociale. Come aveva fatto ad esempio Daniele Comboni, ispirato dall’ecosistema delle Riduzioni in Paraguay, inaugurando le comunità agricole di Malbes e Gezira, spazi di libertà e fraternità che si auto-sostenevano anche all’interno di un sistema politico-economico oppressivo; comunità di resistenza ad un sistema di morte e di proposta di una società alternativa.
Tutto questo richiede di facilitare e condurre un processo partecipativo che, partendo dalle esperienze più significative e trasformanti, dalle buone pratiche, arrivi a costruire dei principi o linee guida che orientino i percorsi pastorali in contesti specifici di frontiera. Questo facilita poi lo scambio e la collaborazione tra comunità diverse, anche se le condizioni locali differenziano notevolmente le loro esperienze. Rende anche possibile sviluppare programmi e percorsi di formazione di operatori pastorali, per acquisire le competenze richieste dall’ambiente ministeriale. Inoltre, facilita lo scambio, la condivisione di risorse, la cooperazione e il cammino sinodale. L’accompagnamento di queste articolazioni ministeriali richiede anche un supporto per la ricerca, la riflessione e lo sviluppo di innovazioni di fronte alle nuove sfide che di volta in volta si presentano. Un frutto della ricerca sarebbe la definizione di modelli ministeriali sostenibili ed efficaci che possono essere replicati ed adattati in altri contesti.
Di fronte ai rapidi cambiamenti sia socioeconomici che culturali, i modelli consolidati di ministero missionario stanno segnando il passo, ma non tutti i missionari possono avere la creatività e la possibilità di sperimentare e definire nuovi modelli. Poter offrire una varietà di modelli contestuali sostenibili significa ridare vitalità a diverse comunità missionarie in difficoltà. In breve, un processo di riqualificazione delle presenze missionarie richiede una struttura di supporto, abilitante, perché ideare e costruire nuovi ecosistemi è una cosa molto complessa.
Un caso emblematico, ad esempio, è la riconversione delle strutture in Europa, divenute sproporzionate alla presenza ed allo stile di missione di oggi. È urgente ripensare la presenza missionaria sul territorio tenendo presente la nuova realtà socioculturale, le sfide della missione globale e naturalmente la dimensione dell’economia. Un approccio imprenditoriale sociale può essere una strada interessante da percorrere per assicurare anche la sostenibilità economica del servizio missionario, ma richiede competenze, energie e risorse che i missionari generalmente non hanno. L’ente di cui si parlava più sopra potrebbe assumere il ruolo di condurre dei processi di progettazione e avviamento di soluzioni ad hoc, portando assieme giovani imprenditori sociali, missionari e finanziatori e offrendo il necessario accompagnamento per costruire un progetto condiviso.
Un’altra ipotesi di lavoro, nella linea dell’ecologia integrale in Africa, è quella che mette al centro del progetto i giovani, con la loro energia, creatività, capacità di sognare e di agire con speranza. Partendo da un contesto comunitario, la fase iniziale del processo si concentrerebbe in un dialogo interculturale che sviluppi l’immaginario di pace e solidarietà, che risvegli le tradizioni vive di pace della regione, a partire dai temi generativi emergenti localmente, cioè affrontando le questioni sociali più fortemente sentite. Bisogna coinvolgere collaboratori che abbiano la capacità e la vocazione a svolgere questo tipo di lavoro comunitario. Ad esempio, specialisti in questo campo sono i musei comunitari della pace, da quasi tre decenni impegnati sul territorio – prevalentemente in Kenya – che hanno sviluppato metodo e programmi a partire dalla cosmovisione, dalla spiritualità ancestrale e dai saperi locali in dialogo con la tradizione dei diritti umani e dei popoli. È necessario cominciare da tale lavoro di coscientizzazione per costruire partecipativamente una visione condivisa, basata su valori e pratiche umanistiche e motivazioni etiche; ma anche per affrontare questioni sociali nella loro complessità, senza riduzionismi e semplificazioni inopportune.
L’obiettivo sarebbe quello di arrivare a costruire un ecosistema sostenibile (con le sue componenti economica, socioculturale e ambientale), cioè una trasformazione sociale che superi le contraddizioni e questioni sociali che affliggono le varie comunità locali. Alla visione e motivazione di una alternativa, si deve quindi affiancare un’economia sostenibile, di giustizia. Non una semplice impresa sociale, ma la costruzione di un micro-ecosistema economico inclusivo e sostenibile. Del resto, l’economia è la chiave del cambiamento sociale, sia nel bene che nel male e dunque richiede di essere messa al centro dell’intervento. Specialista in questo ambito, per esempio, è l’Institute for Social Transformation di Nairobi, che ha la capacità di preparare istruttori e mentori che aiutino i giovani a sviluppare idee innovative di impresa sociale; di provvedere spazi di incubazione per piccole aziende nascenti e di mobilitare finanziamenti d’avviamento. Ma soprattutto, ha già una vasta esperienza e repertorio di modelli d’impresa in Africa – che continua ad accrescere – che funzionano e possono essere replicati e adattati nel contesto.
Trattandosi poi di ecosistemi, collaborazioni e interdipendenze con attori esterni possono risultare in benefici aggiunti importanti. Anzi, anche per la diffusione delle culture di pace e fraternità, tali interazioni sono essenziali, grazie all’arricchimento e all’influenza reciproca. Quindi non solo sono da auspicare scambi e partenariati a livello locale, ma anche internazionale (ferma restando la questione della sostenibilità ambientale e la riduzione delle emissioni ad esempio), sia a livello di imprenditoria sociale ed economia civile, sia a livello di ricerca universitaria e supporto all’innovazione.
La dimensione di scala, infatti, è fondamentale per arrivare alla trasformazione sociale. L’obiettivo è quello di arrivare a cambiare anche le regole del gioco di un’economia di accumulazione e sfruttamento, che persegue la massimizzazione del profitto. Qui entra in gioco, allora, l’aspetto dell’advocacy per la giustizia economica, per cambiare politiche e regole dei sistemi economici. Servono le competenze e il lavoro delle reti e partenariati a livello globale, per fare pressione politica e, quindi, la collaborazione con organismi come Africa Faith and Justice Network (AEFJN), che promuove la giustizia economica, e VIVAT International, organizzazioni riconosciute a livello internazionale che riuniscono vari Istituti missionari.
Conclusione
Papa Francesco ha rilevato e spiegato il cambiamento epocale che stiamo vivendo, indicando e lavorando al necessario rinnovamento della Chiesa per rispondere evangelicamente alle sfide del nostro tempo. Ha così offerto a tutta la Chiesa una visione evangelica contestualizzata ed ha offerto dei percorsi partecipativi per camminare assieme, con il protagonismo della base, verso il Regno che viene. All’interno di questo movimento trova ospitalità il bisogno comboniano fortemente sentito, da tanti anni, di una riqualificazione della presenza e servizio missionario. Siamo chiamati a interpretare carismaticamente questo cammino, in comunione con la Chiesa e con tutta l’umanità che anela alla vita in pienezza, che oggi richiede un’economia sostenibile ed un’ecologia integrale. Dalla base emergono delle esperienze significative, pur tra grandi sfide e senza trionfalismi, ma il rinnovamento al quale ci sentiamo chiamati richiede un passo ulteriore, vale a dire avviare percorsi partecipativi sistematici. Ciò richiede anzitutto discernimento, ma se dopo aver individuato un senso di direzione non vengono progettati dei percorsi e predisposti dei meccanismi di sostegno, è molto probabile che le deliberazioni rimangano lettera morta, creando grande frustrazione e sfiducia. In considerazione dei nostri limiti e vincoli istituzionali, vale la pena aprirci alla collaborazione con il movimento missionario e cercare assieme di dar vita ad un ente che possa mobilitare le forze, le risorse e le competenze necessarie per animare e sostenere la ricerca e nuovi percorsi condivisi, nell’alveo del rinnovamento ecclesiale e ministeriale tracciato dalla EG e dalla LS.
Settembre 2022
Fr. Alberto Parise, mccj
[1]La Piattaforma di Iniziative Laudato Si ‘è il frutto di una collaborazione unica tra il Dicastero vaticano per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale, quasi 200 organizzazioni cattoliche e individui provenienti da tutto il mondo. Aderendo alla Piattaforma ci si impegna a completare la transizione all’ecologia integrale attraverso un cammino di 7 anni.
[2]I 7 obiettivi Laudato si’ sono: Risposta al grido della Terra, Risposta al grido dei poveri, Economia ecologica, Adozione di stili di vita sostenibili, Istruzione ecologica, Spiritualità ecologica, Resilienza e valorizzazione della comunità.
[3]Cf. EG 15: “Semplicemente riconosceremmo che l’azione missionaria è il paradigma di ogni opera della Chiesa”.
[4]Comboni sembra avere guardato al modello delle Riduzioni in relazione al problema della sopravvivenza della missione in un ambiente coloniale ostile. Oggi percepiamo come l’approccio delle Riduzioni tradisca ancora pregiudizi culturali eurocentrici, trapiantando nell’Amazzonia – assieme alla Chiesa – la “civilizzazione” europea ritenuta “superiore”.