Martedì 3 agosto 2021
“Il Consiglio Generale ha invitato i missionari comboniani a prepararsi al XIX Capitolo Generale con le parole di Gesù ‘Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me e io in lui, fa molto frutto’ nel cuore. È un’immagine potente e per me ha un grande significato”. […]

Rami della stessa vite

Il Consiglio Generale ha invitato i missionari comboniani a prepararsi al XIX Capitolo Generale con le parole di Gesù “Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me e io in lui, fa molto frutto” nel cuore.

È un’immagine potente e per me significa molto. Sono nato e cresciuto letteralmente sotto i rami delle viti, attorno alle case e lungo le strade. Oltre all’uva, facevano anche una bella ombra.

La parabola ci riporta all’essenziale del servizio missionario dell’Istituto: siamo chiamati a Gesù per essere inviati a due a due (Marco 6,7), convocati a stare per andare, a essere discepoli per essere missionari, discepoli missionari sulle orme di san Daniele Comboni.

Un’immagine antica

Gesù prende l’immagine della vite dal vasto repertorio di immagini delle Scritture ebraiche che descrivono la relazione intima fra Dio e il suo popolo.

Il Salmo 80 – una preghiera per la restaurazione di Israele – rappresenta, nei versetti 9-16, la storia del popolo di Dio come una vite che il Signore ha trapiantato in Egitto: è cresciuta frondosa e poi è stata distrutta dal cinghiale del bosco. Termina con questa orazione urgente e pungente: “O Dio dell’universo, ritorna; guarda dal cielo, e vedi, e visita questa vigna; proteggi quel che la tua destra ha piantato, e il germoglio che hai fatto crescere forte per te”.

Gesù spiega la sua relazione con il Padre e con i discepoli usando l’immagine della vite (Gv 15, 1-8): il Padre è l’agricoltore, Lui è il germoglio e i discepoli sono i rami. Una relazione in rete, un intreccio complesso di relazioni verticali e orizzontali.

Dice che l’agricoltore usa la Parola come cesoia affinché i rami diano molti grappoli: “Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo toglie e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto. Voi siete già mondi, per la parola che vi ho annunziato (versetti 2 e 3). 

Per questo la lectio divina, la lettura orante e dialogante della Parola di Dio – che cosa la parola dice, che cosa mi dice, che cosa gli dico – diventa la preghiera per eccellenza dell’umile lavoratore nella vigna del Signore.

Questa venerabile forma di preghiera personale e comunitaria realizza l’assioma evangelizzati per evangelizzare che san Paolo VI formula nella Evangelii nuntiandi 15: “Evangelizzatrice, la Chiesa comincia con l’evangelizzare sé stessa”.

Coniugare il verbo rimanere

Subito dopo, Gesù dice: “Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me e io in lui, fa molto frutto, perché senza di me non potete far nulla” (versetto 5).

Gesù usa sette volte il verbo rimanere (=stare, restare, abitare) in questa parabola. Seguire Gesù è stare con Lui, perché al di fuori di Lui o senza di Lui non si fa nulla. E nemmeno fuori o senza la comunità.

Giovanni, nella prima lettera, presenta una chiave di lettura per coniugare il verbo rimanere: “Questo è il suo comandamento: che crediamo nel nome del Figlio suo, Gesù Cristo, e ci amiamo gli uni gli altri secondo il comandamento che ci ha dato. Chi osserva i suoi comandamenti rimane in Dio e Dio in lui”.

La grammatica del seguire Gesù, dello stare con Lui, si coniuga con i verbi credere (in Lui) e amare (i fratelli).

Rimane la tentazione di una lettura individualista della parabola della vite e dei tralci: il mio legame individuale con Gesù.

L’individualismo è il figlio maggiore dell’Illuminismo – il “penso, quindi esisto” chiude la persona dentro la cassaforte del proprio io – e ci intacca come ha intaccato la redazione della Regola di Vita che si rivolge, nella maggior parte dei casi, al missionario, all’individuo e non ai missionari, a tutto l’Istituto. Siamo figli del nostro tempo!

Le viti, invece, formano una rete di legami, un intreccio di vita, un’affermazione di interdipendenza, di appartenenza reciproca: alcuni rami nascono direttamente dalla vite, la maggior parte si lega fra di essi. In altre parole, la linfa della vite arriva ai rami attraverso una rete capillare di legami. Con la vite stessa e fra di loro.

La parabola ci invita a superare l’interpretazione intimista e individualista della vocazione e la visione utilitaristica della comunità come “tavola, letto e vestiti pronti”. Kate Daniels afferma che “tutti siamo tornati a casa per essere l’un l’altro accuditi e accolti”.

La chiamata è unica e personale, ma avviene nel contesto della comunità, che è un’alleanza di vita basata sulla reciprocità dell’amore.

La vita comunitaria vissuta come esperienza di amore contraccambiato smette di essere una pena capitale – san Giovanni Berchmans dice che vita communis est mea maxima penitentia – per essere una vita migliore. Cenacoli di persone che amano e che sono amate, allo stesso tempo, imparando a lasciarci amare, ammettendo che abbiamo bisogno di tenerezza. Tendenzialmente siamo autosufficienti e ci costa riconoscere che abbiamo bisogno gli uni degli altri.

La comunità è il laboratorio in cui testiamo la forza vitale dell’annuncio semplificato che Dio ti ama, questo amore unico ed essenziale, dove facciamo esperienza dell’amorevolezza di Dio attraverso l’amore concreto dei confratelli per poterla poi annunciare ed offrire, incarnare con ogni creatura e, soprattutto, con i più poveri e abbandonati.

Papa Francesco spiega la cordialità del servizio missionario nel Messaggio per la 55ª Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali, del 2021: “La buona novella del Vangelo si è diffusa nel mondo grazie a incontri da persona a persona, da cuore a cuore. Uomini e donne che hanno accettato lo stesso invito: ‘Vieni e vedi’, e sono rimaste colpite da un ‘di più’ di umanità che traspariva nello sguardo, nella parola e nei gesti di persone che testimoniavano Gesù Cristo”. La mistica dell’incontro è il metodo missionario per eccellenza.

Senza di me non potete far nulla

I1 servizio missionario che l’Istituto svolge attraverso i suoi membri è partecipazione alla missione di Dio, incarnazione dell’amorevolezza trinitaria in momenti storici e geografici concreti. Per questo l’Istituto non può essere considerato come un’organizzazione non-governativa – anche se così ci considerano, ad esempio, in Etiopia – e la sua attività come un esercizio umanitario o una scelta sociopolitica.

Gesù invia i discepoli perché il Padre ha inviato lui per primo: “Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi” (Gv 20, 21). E spiega la dinamica di questo invio: “Quello che io vi dico, lo dico come il Padre lo ha detto a me”.

Papa Francesco ha scritto in un messaggio per la Domenica della parola di Dio (12 luglio 2020) che “Tutta l’evangelizzazione è fondata sulla Parola di Dio, ascoltata, meditata, vissuta, celebrata e testimoniata”.

Gesù condivide la missione che ha ricevuto dal Padre. E anche l’amore: “Come il Padre ha amato me, così io ho amato voi; dimorate nel mio amore” (Gv 15, 9).

Le strade del servizio missionario di Gesù sono le strade del servizio missionario dell’Istituto e di ciascun membro: impariamo da lui il dire e il fare, l’amare, perché il Signore della Missione è l’unico prototipo che seguiamo. Come Lui ha seguito il Padre. Non è possibile essere missione lontano da Gesù o senza Gesù. Abbiamo bisogno di lui per operare, per poter dare molto frutto: “senza di me non potete far nulla”.

Possiamo misurare la missione in termini di costruzioni, statistiche, chilometraggio. Paolo, nel cantico sull’amore, proclama: “se spendessi tutte le mie facoltà per nutrire i poveri e dessi il mio corpo per essere arso, ma non ho amore, tutto questo niente mi giova” (1 Corinzi 13, 3).

È attraverso l’abbondanza di amore artigianale, dato e ricevuto, condiviso, che siamo discepoli missionari, tralci fecondi della Vite del Padre.
José Vieira, MCCJ